Viaggio a Maljevac, confine di disumanità

di Anna Spena (*). Con un video di Raw Sight Productions

È il posto di frontiera tra Croazia e Bosnia, i boschi vicini sono teatro di migliaia di drammatici respingimenti. Ci siamo arrivati con Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi che hanno lanciato l’iniziativa Un Ponte di Corpi, una mobilitazione in tante piazze d’Italia e d’Europa.
Donne e uomini hanno portato i loro corpi costruendo un ponte ideale che lega le persone di qua e di là dai confini. Un viaggio simbolico per ricordare che emigrare è un diritto e accogliere chi scappa da guerre, miseria e persecuzioni un dovere, il nostro.
«Siamo qui con i nostri corpi, sul confine», dicono Lorena e Gian Andrea, «per negare al confine il suo potere di ridurre la vita a un pezzo di carta».

Lorena si è infilata in macchina, con le mani ha accarezzato il volante. «Mi danno fastidio le unghie, ho dimenticato di tagliarle.
Da piccola mi hanno insegnato che chi lavora sodo ha le unghie corte e si arrotala le maniche della maglia», sorride.
È la mattina del 6 marzo, a Trieste si è alzata la Bora. Sono le otto, Lorena si tira su le maniche del piumino, libera i polsi, mette in moto. Guiderà per dieci ore tra la Slovenia e la Croazia fino a Maljevac, il confine con la Bosnia.
E poi ancora da Maljevac fino a Trieste. Sono belle le mani di Lorena, sono le mani della cura.

Lorena Fornasir, psicoterapeuta, 67 anni, e suo marito Gian Andrea Franchi, 84 anni, professore di filosofia in pensione, dal 2015 hanno messo in piedi un piccolo presidio medico all’esterno della Stazione di Trieste per offrire prima assistenza ai ragazzi che riescono a passare il confine, la città rappresenta il punto d’approdo, la fine della Rotta Balcanica.
Sono stati 19 volte in Bosnia (l’ultima poche settimane fa).
È qui che la Rotta Balcanica si inceppa e il Cantone di Una Sana, nel nord del Paese, è diventato un limbo, impossibile proseguire per la Croazia, la polizia violenta mortifica i corpi, non li lascia attraversare, li cattura per rispedirli indietro. Ma indietro per loro significa niente.
Quando possono Lorena e Gian Andrea caricano la macchina di medicine, sacchi a pelo, scarpe e raggiungono il Paese. All’inizio agivano come singoli, poi si sono costituiti come associazione di volontariato: Linea d’Ombra odv.

È nata da Lorena l’idea di lanciare “Un ponte di corpi”, una mobilitazione che ha coinvolto 50 piazze in tutta Italia e in tutta Europa: Berlino, Marsiglia, Ventimiglia, Clavière, Milano, Triste, Maljevac, ma anche Atene, Roma, Siracusa, Palermo, Catania, Paestum per ricordare che emigrare è un diritto e accogliere chi scappa da guerre, miseria e persecuzioni un dovere, il nostro. Una mobilitazione che è nata dal basso, nessuna sigla, nessuna associazione.
Solo le persone e i loro corpi. «Un ponte di corpi è nato perché dallo scorso gennaio gli arrivi dei ragazzi, dei migranti, in piazza a Trieste, sono drasticamente diminuiti. Questa cosa ci ha procurato grande inquietudine. La piazza vuota significa che vengono intercettati e respinti».

Così a parlare è stato il carrettino verde, il carrettino della cura dove Lorena tiene le garze, i cerotti, il disinfettante, qualche medicina di base. Il carrettino è il simbolo del suo lavoro e degli altri volontari di Linea d’Ombra che sulle panchine di Piazza della Libertà, così come negli squat bosniaci, le strutture abbandonate dove vivono i migranti, medica i piedi dei ragazzi.
E lo fa con un amore atavico, antico. Non esistono abbastanza parole neanche per tentare lontanamente di circoscriverla questa donna, raccontarla.
Accoglie i corpi mangiati dalla scabbia dei ragazzi che arrivano vivi dalla Rotta Balcanica – in troppi muoiono e rimangono vittime senza nome – questa è Lorena, lì la potete vedere.
Una persona che sa come abbracciare. Anzi di più: una persona che per istinto abbraccia, ti abbraccia.

La strada che porta da Trieste a Maljevac è immersa in una giornata di sole pieno e freddo preciso, pungente, senza sbavature. Il confine sloveno da Trieste arriva veloce. Un gruppo di 15 persone si muove verso la frontiera. É un gruppo simbolico, fatto principalmente di donne, è a loro che si è rivolta la chiamata di Lorena. E nelle altre piazze, nello stesso giorno, altre ad altri – mentre noi ci muoviamo – si stanno incontrando, infilati in sacchi neri della spazzatura – perché così si vestono i migranti mentre tentano di attraversare la rotta dei Balcani – per urlare che i confini, così come li intendiamo oggi, non li riconosciamo.
E la donna con il suo corpo pensante, è l’anticonfine per eccellenza.
«Noi», dice Lorena, «possiamo dire no allo scontro di razza, perché nel mondo dei morti nessuno è inferiore all’altro. Noi siamo coloro che dicono no al razzismo, perché da sempre siamo state la prima razza considerata inferiore proprio in quanto geneticamente aperte alla vita e sue portatrici: questa condizione naturale è diventata storicamente un servizio. Noi siamo coloro che gridano al mondo che non c’è nessun dio e nessun bene, quando migliaia di essere umani muoiono a causa dei confini. Noi li malediciamo i confini perché quelle strisce di terra o di mare selezionano chi può passare e chi no, chi può vivere e chi può morire, chi può essere torturato e chi può essere deportato».

Il sei marzo donne e uomini hanno portato i loro corpi costruendo un ponte ideale che lega le persone di qua e di là dai confini.
«Arriviamo su questa frontiera, sul confine croato-bosniaco», racconta Lorena, «per mandare un segno di solidarietà a chi è bloccato nella discarica umana che è diventata la Bosnia. Siamo in maggioranza donne, le donne sono generatrici di vita intesa come relazione. Sono loro, siamo noi, che curano i legami.
Siamo noi che raccogliamo il mandato tacito della altre donne da cui provengono i migranti: uomini, donne, ancora bambini. Loro ci consegnano la vita dei loro cari. Noi quella vita la dobbiamo rispettare. Curare i piedi è un gesto di grande intimità. Sono grata ai ragazzi che mi permettono di accostarmi ai loro corpi. Mi chiedono il telefono, vogliono chiamare le loro madri “sono vivo, sono ancora vivo mamma”.
Poi mi chiedono di salutarle. Le madri che vedono partire questi figli sperano che ci sia qualcuno dall’altra parte ad occuparsi di loro, ad occuparsi di questo figlio mandato in salvezza. Invece quello che succede ai confini di terra, così come di mare, è terribile. Il confine per i migranti è un luogo di morte. Perciò con i corpi, i nostri corpi, dobbiamo essere sul confine di Maljevac, su tutti i confini
».

Lorena dice che a volte il sorriso che portiamo nelle piazze, come nei confini, è un sorriso stonato. Sorridiamo mentre sulle spalle abbiamo la nostra vita, che è una vita di privilegi. Nel viaggio tra Trieste e Maljevac abbiamo tutti sorriso tanto. Abbiamo sorriso perché stavamo facendo una cosa umana e in quell’umanità ci siamo ritrovati.
Ritrovarsi significa che – nonostante tutto – c’è una parte di quel tutto che non è perduta.
Ci siamo anche arrabbiati su quel confine. E la rabbia nasce quando senti addosso l’ingiustizia. «Il nostro viaggio di andata e ritorno fra Trieste e Maljevac», dice Gian Andrea, «è stato esemplare delle condizioni di vita nell’Europa di oggi.
Per due volte siamo stati bloccati per oltre un’ora all’ingresso e all’uscita della Croazia, senza alcun motivo che non fosse esercitare il potere di farlo, come esemplarmente ha detto il poliziotto croato alla frontiera di Maljevac, ingiungendoci di restare chiusi in auto “perché lo dico io poliziotto!”».

I tamponi erano negativi, i documenti delle macchine a posto, i documenti personali pure. Lo sapevano che stavamo arrivando.
Lo sapevano perché quelli di Lorena e Gian Andrea sono nomi noti alla frontiera.
Lo sono ancora di più da quando alle cinque e mezza di mattina dello corso 23 febbraio la polizia ha fatto irruzione nella loro abitazione privata e sede dell’associazione Linea d’Ombra ODV. Sono stati sequestrati i telefoni personali, oltre ai libri contabili dell’associazione e diversi materiali.
Gian Andrea è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, l’hanno associato a un passeur, un “traghettatore” di uomini. Gian Andrea è per la magistratura un possibile trafficante. Ma l’unica cosa che “favoreggia” è la solidarietà.
Anche lui dovreste vederlo, militante di altri tempi. Di quelli che “la sinistra era la sinistra” e la democrazia si fa nelle piazze, con la gente.

Gian Andrea non si scompone mai, è preciso nelle parole. Senza sbavature pure lui, come il freddo del sei marzo. La questura basandosi su un aiuto effettivo di assistenza e ospitalità, dato nel luglio del 2019 a una famiglia iraniana, composta da padre, madre e due bambini, l’ha collegato ad una rete di sfruttatori «che avrebbe», aggiunge, «prima e dopo il mio intervento, approfittato della famiglia profuga.
Non esiste neanche uno straccetto di prova. Esiste solo l’insinuazione che, essendo stata questa famiglia contattata e usata da alcuni trafficanti (secondo gli inquirenti), io avrei potuto non solo esserne a conoscenza ma trarne addirittura un mio personale profitto».
Ma lui rivendica: «il carattere politico, e non umanitario, del mio impegno quinquennale con i migranti. Impegno umanitario è un impegno che si limita a lenire la sofferenza senza tentar d’intervenire sulle cause che la producono. Impegno politico, nell’attuale situazione storica, è prima di tutto resistenza nei confronti di un’organizzazione della vita sociale basata sullo sfruttamento degli uomini e della natura portato al limite della devastazione».

A Maljevac, anche se in ritardo, siamo arrivati lo stesso.

«Caro fratello, cara sorella, bloccati ai confini di terra, soli, senza conforto, oppure con i vostri bambini privati dell’infanzia e cresciuti troppo velocemente al ritmo del “game”», ha recitato Lorena mentre leggeva una lettera scritta con Gian Andrea.
«Siete venuti da terre lontane con una storia che vi schiaccia sul presente e un futuro che riluce sperduto nei vostri occhi. Nonostante tutto sapete ancora sognare.
I fili spinati, i cani o i droni o le violenze che avete subito non vi hanno strappato la speranza. Nei vostri volti fieri e pieni di dignità, c’è sempre quel sorriso dolce che mostra di voi la parte più sorgiva: la capacità di essere protagonisti delle vostre vite e non le vittime a cui l’atroce sistema confinario vorrebbe ridurvi.
Impossibile volgere lo sguardo da un’altra parte; le immagini tragiche che ci giungono dalla discarica umana cui siete costretti, i respingimenti atroci che subite, sono un pugno al cuore di ogni nostra società civile. Voi, che vivete sulla soglia tra la vita e la morte, ci insegnate che la vita non tollera confini. I confini sono luoghi in cui un potere decide chi è degno di vivere e chi non lo è. Per questo siamo qui con i nostri corpi, sul confine: per negare al confine il suo potere di ridurre la vita a un pezzo di carta: chi ce l’ha può vivere, chi non ce l’ha può anche morire. Siamo qui sul confine che voi attraversate con i vostri corpi: corpi cacciati, inseguiti, colpiti, torturati, vietati e umiliati, offesi a volte fino alla morte.

Siamo qui per dire che il confine è un delitto contro la vita. Siamo qui per dire che tutti sono degni di vivere, che nessuno deve essere escluso. Noi donne sappiamo più degli uomini che cosa è il corpo.
Il corpo che nasce, che cresce, che vuol vivere. Il corpo che ha bisogno di nutrirsi, star bene, essere protetto, curato, come per ogni altro essere vivente, e possa desiderare: desiderare di vivere bene, al massimo delle proprie capacità, desiderare di essere in relazione, senza di cui non può esistere, desiderare di amare ed essere amato senza cui la vita si pietrifica.

Il confine nega tutto questo.
Riduce il corpo a un pezzo di carta con il timbro di uno Stato
.

Se hai questo timbro puoi passare la frontiera e vivere. Se non hai questo timbro non puoi passare, puoi invece essere battuto e anche ucciso o lasciato morire. Non sei nessuno. Non esisti. Sei un animale nel bosco. Noi siamo qui per affermare con la nostra presenza, con i nostri corpi, la vita, la dignità dei vostri corpi di migranti, di profughi, di tutti coloro che vogliono vivere una vita degna d’essere vissuta. Noi siamo qui per affermare la vita e rifiutare quel segno di morte che è il confine – il filo spinato, la sbarra – Alt! Chi sei! Dove vai! Non si passa! Documenti! Cattura. Chiusura. Tortura. Odio. Morte. Noi siamo qui, noi donne, per dire che vogliamo lottare contro tutto questo; che il confine è segno di odio e di morte.
Finché noi non sapremo vedere la nostra nudità nei vostri corpi picchiati con crudeltà, o non riconosceremo la nostra paura nei vostri occhi affamati, o l’intimità tra la vita e la morte che ci portate in pegno, saremo abitati dal trauma che ritorna con il rimosso della violenza in cui siamo immersi.
I vostri corpi di dolore ci riguardano fino in fondo. Sono lo specchio della distruzione del Medioriente che ci coinvolge politicamente, senza esclusione. Noi donne abbiamo sacra la vita e vogliamo gridare alta la voce della solidarietà. La nostra esistenza da sempre è una resistenza.
Resistenza al patriarcato, al disvalore sociale del femminile, all’essere subordinate. Re-esistere è un valore e una grande competenza quando ci si prende cura della vita. Vogliamo costruire ponti, tessere la filigrana dei fili spezzati, ricomporre le maglie di legami perduti. Siamo le vostre testimoni Per tutto questo, senza paura, siamo qui dove bisogna stare, nelle retrovie di una guerra non dichiarata per gridare alta la voce della solidarietà oltre ogni confine e ogni barriera Lungo il nostro ponte di corpi voleranno alte le farfalle gialle sopra i reticolati
».

Su un prato, con i piedi piantati a terra, la testa dall’altra parte del confine. «Abbiamo potuto fare la nostra performance, in un prato, guardati a vista dalla polizia», dice Gian Andrea.
Quindici persone che recitano poesie e fanno discorsi non fanno paura. Contemporaneamente, però, in decine di luoghi altre persone, molto più numerose fanno la stessa cosa, in maniera più visibile. È la scelta di andare in piazza, mentre le piazze si fanno sempre più deserte, sta a noi, a ciascuno di noi nella sua singolarità, con il suo corpo, con le sue emozioni, far sì che divenga un inizio.

Lorena non è mai pacificata però si lascia andare “Eh carrettino verde, chi se lo aspettava: lanci appelli e animi le piazze di Italia e d’Europa”. Però mi costa cara la solidarietà».
Lorena è stata fino a qualche giorno fa giudice onorario al tribunale dei minori di Trieste. «Mi hanno tolto l’incarico, me lo aspettavo».
Mentre eravamo sulla strada del ritorno, un ritorno per noi possibile, un ragazzo, nella zona di Plitvice in Croazia, è saltato su una mina anti uomo mentre cercava di passare il game. È morto. Quanti anni aveva? Chi era? Da dove veniva? E sua madre? L’ha sentito mentre il corpo si faceva in brandelli e bruciava? Sono le nove di sera a Trieste, c’è ancora la bora. Le mani di Lorena sono belle, hanno guidato dieci ore e non sono ancora stanche.

Su Gofundme è attiva una raccolta fondi per coprire le spese legali che dovrà affrontare Gian Andrea. Qui la raccolta firme per l’autodenuncia in solidariteà.

Il video pubblicato è di Raw Sight Productions, un’agenzia e casa di produzione audiovisiva che realizza progetti commerciali per finanziare documentari antropologici e di osservazione focalizzati su temi sociali. Raw Sight è composta da Marco Bergonzi, architetto e videomaker; Michael Petrolini, regista e DOP; Francesco Cibati, designer, scrittore e fotografo.

(*) Tratto da Vita.

NOTa DELLA “BOTTEGA”

qui Solidarietà a Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir le immagini del documentario di Daniele Gaglianone e Stefano Collizzolli, “Dove bisogna stare”.

alexik

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