«Violenza e democrazia. Psicologia della coercizione: torture, abusi, ingiustizie»

recensione di Riccardo Mazzeo (*) al libro di Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto, con prefazione di Miguel Benasayag

Un nuovo spettro si aggira per il pianeta: il “principio di eccezione” di Carl Schmitt. Oggi il paesaggio umano appare illusoriamente pacificato, normalizzato, politicamente corretto e ingentilito – mentre il dissenso vede la sua punta smussarsi e tutto viene subito come ineluttabile in questa democrazia di mera facciata. Il sovrano soltanto, incarnato da quella specie di Leviatano mosaico di volti dei potenti della Terra, si sottrae alle regole che valgono per i cittadini e imbastisce capestri sociali, depauperamenti collettivi silenziosi, e soprattutto crea zone sempre nuove off limits in cui si soverchia, si annienta, si tortura in totale impunità sotto le insegne del migliore dei mondi possibili.

Questo scenario di “eccezione” e “sopraffazione” non trova realizzazione unicamente nei Paesi dichiaratamente refrattari alla democrazia e alla libertà dei cittadini, come i Paesi del Golfo, con il loro islam letteralista, o la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan, l’Ungheria, la Cina eccetera con l’incarcerazione sistematica degli oppositori, ma è discernibile sottotraccia anche nelle nostre democrazie, dove i cittadini sono “disciplinati” ma prevalentemente non sono “responsabili”. Se in Italia abbiamo dovuto confrontarci con i casi della caserma Diaz e con il massacro di Cucchi, non potremo fare a meno di ricordare “il cosiddetto triangolo della violenza” i cui vertici sono occupati dal soggetto attivo (chi esercita o commissiona la violenza), dal soggetto passivo (la vittima) e dal soggetto spettatore (chi assiste alla violenza ma si guarda dall’intervenire). Ed è in questo terzo vertice che si rileva la mancanza del principio di responsabilità, che coincide con l’alienazione, ovvero con “l’estraniazione o la separazione dell’individuo da alcuni aspetti del mondo fenomenico” (l’indifferenza, l’apatia). “Oggi, con l’ideologia neoliberista capace di penetrare in qualsiasi interstizio della vita umana, è sempre più evidente l’alienazione del singolo in una società di massa che premia la performance personale a discapito dei legami sociali, con il corollario di vissuti d’isolamento, auto-estraniamento e senso di impotenza”.

Nel 2005 il 14 per cento dei cittadini USA ritenevano la tortura giustificata nell’interrogatorio di persone sospettate di terrorismo, ma quattro anni dopo tale percentuale era schizzata al 52 per cento. Gli USA sono anche l’unica democrazia “progredita” in cui sia ancora in vigore la pena di morte e sia santificato il culto delle armi, ma il dato relativo alla tortura implica un corto circuito nella posizione del cittadino-spettatore, che situa il torturato in una categoria socialmente svalutata, e “la salvezza del torturato non dipende tanto dalla mano abbassata del torturatore, quanto dalla mano protesa dello spettatore”. È lo spettatore che può fare la differenza, ma appunto per questo abbiamo bisogno di una maggiore coscienza civica, di un più acuto senso di responsabilità. Ed è necessario un impegno di umanità più grande da parte delle forze dell’ordine per evitare la profonda frattura che esiste negli USA (dove una persona muore per mano della polizia circa ogni otto ore) fra la polizia e la cittadinanza, in particolare le minoranze e la comunità afroamericana.

Gli autori (un professore di psicologia sociale e una ricercatrice dell’Università di Padova) ricordano che nel progetto biopolitico del trattamento dei malati di mente l’Italia è l’unico Paese europeo rispetto ai nove comparabili in cui vengono applicate tutte e dieci le forme di contenzione, mentre la Gran Bretagna non ne applica nessuna, e dedicano l’ultima parte dell’opera all’ingiustizia sociale e alla sofferenza economica, ragionando attorno alla coppia ingiustizia-sofferenza. Da un lato la “violenza strutturale” descritta da Johan Galtung che riguarda il disconoscimento dei diritti di cittadinanza agli immigrati di seconda generazione o le disparità di genere, dall’altro la “violenza simbolica” teorizzata da Pierre Bourdieu che è incarnata dall’imposizione impercettibile e inocula nel pensiero dei dominati modelli determinati acquisendone il consenso.

Questo libro è un forte atto di resistenza nei confronti della tortura, e non a caso gli autori, insieme a un drappello di altri compagni di impegno fra cui l’ex pm del processo Diaz Enrico Zucca e Ilaria Cucchi, hanno redatto un manifesto-appello per segnalare l’implausibilità della “legge truffa” sulla tortura da poco varata dal Senato. Se ne è occupato anche il Manifesto il 18 maggio (“Un po’ di tortura”) e il disimpegno morale che trasuda da questo progetto di legge è evidenziato anche solo dalla pretesa che la vittima di tortura riesca a far certificare di aver “subito un trauma psichico”: sembra insomma un paracadute strappato dalle spalle delle vittime e lanciato spudoratamente ai torturatori.

(*) pubblicata sul quotidiano «il manifesto»

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