Vite senza permesso, un libro di Manuela Foschi

Dipende sempre dal tono e dal contesto ma quando tanti italiani emigravano e si sentivano appellare «macaroni» si divertivano poco. Senza bisogno di sofisticati ragionamenti, è evidente che le etichette appiccicate a interi popoli negano gli individui. Anche «vucumprà» di per sé non suona offensivo ma chiamare così ogni persona straniera sa di pigrizia mescolata a razzismo. Eppure tanti – anche giornalisti – continuano a usare questa definizione per definire i migranti pur se, nell’attuale mercato del lavoro, la maggioranza di loro esercita mestieri ben diversi dal venditore e talvolta parla un italiano migliore di qualche ministro.

Dunque ha fatto bene Manuela Foschi a non usare «vucumprà» nella copertina del suo bel libro (160 pagine per 12 euri) pubblicato da Emi: «Vite senza permesso», con il sotto-titolo «Interviste ad ambulanti immigrati» che attraversa un fascinoso disegno di Fuad Aziz.

Come prendere la licenza, perderla (per colpa della burocrazia), ri-diventare «clandestino». La prima delle 14 interviste è al senegalese Sidy: «tanti parlano di civiltà e democrazia ma non sanno cosa significano» spiega e si può permettere parole così impegnative perché, poco prima, ci ha regalato un paio di lezioni di storia e politica; come farà più avanti il suo connazionale Mamadou che chiude il libro donandoci informazioni e preziose riflessioni. Nel libro si incontrano altri 4 senegalesi. Bass, «cittadino del mondo», da anni attivo nel «Coordinamento migranti» di Bologna. Mandiaye, diventato attore a Ravenna, ora porta avanti un bellissimo progetto basato sulle «Tre t» (terra, teatro e turismo). Modou passato dal vendere gli accendini a un market «equo-solidale». Infine Rama, straordinaria cuoca “di strada”.

Difficile il cammino di Okechukwu, che nel migrare si scopre scrittore e si reinventa operaio o venditore porta-a-porta: oggi si definisce «uomo di mezzo», un ponte fra Nigeria e Italia. Tragica la storia del pakistano Sajid, a stento salvatosi da un naufrago; come pure la vicenda del cinese Shaohan che, impaurito da un primo arresto in treno, arriva in Italia a piedi dall’Ungheria; o quella del rumeno Cristian che a Bologna vende per strada «Piazza grande», mensile dei senza fissa dimora. Due gli incontri a Napoli: con l’algerino Abdel e con l’ivoriano Aboubakar, uno dei più impegnati politicamente (è anche sindacalista con Rdb-Cub). A confronto sembrano quasi tranquille le vicende della bangladese Ara, negoziante “di successo”, e della cinese Juan dai mille mestieri (ambulante, massaggiatrice in spiaggia, operaia, cameriera, mediatrice culturale… oltre che studentessa modello e nel direttivo del Pd locale).

Prevalgono le differenze nei 14 identikit ma in comune c’è essere «ambulante» (tuttora o per una fase). Se fossimo meno pigri capiremmo che i «vucumprà» non vendono solo merci ma spesso socialità e/o benessere che si può esprimere in forma di massaggi ma anche di incontro. Tahar Lamri (algerino da tempo in Italia, scrive fra l’altro per «Internazionale») nella post-fazione ricorda un venditore che a inizio giornata rifiuta di cedere la sua merce: «ciò che mi offri è equo però se ti vendo tutto adesso con chi parlerò per il resto della giornata?».

Viste le polemiche ventennali contro i «vucumprà» sembra incredibile che su di loro non esistano ricerche approfondite ma è così. Al solito la maggioranza di politici e giornalisti finge di sapere qualcosa ma in realtà va avanti per pregiudizi. Se gli ossessionati della sicurezza leggessero «Vite senza permesso» senza preconcetti scoprirebbero quanto aria fritta hanno in testa; ma ci spiegava Albert Einstein che è più facile rompere un atomo che un pregiudizio e dunque qualche scribacchino de «Il giornale» o della «Padania» riuscirebbe a trovare due righe per strillare al complotto, all’invasione, alla guerra santa, alla rottura del settimo sigillo, paraponzi-ponzipò.

Libro militante? Di certo Manuela Foschi non nasconde le sue opinioni anche se correttamente non interviene a commentare le storie raccolte. A “tradire” la sua passione è la prefazione ma anche la piccola nota che, a inizio libro, informa che l’autrice destinerà i suoi guadagni allo sportello «Sans papier» della comunità san Benedetto al Porto, nata a Genova intorno a quel vulcano che si chiama don Gallo. Nell’appendice al volume è pubblicata una sintesi della «Guida informativa per venditori ambulanti» realizzata da alcune associazioni; sull’ottimo sito www.meltingpot.org il testo completo e aggiornato.

Consiglio due letture in parallelo. Per la prima dovrete aspettare il 6 maggio quando a Rimini sarà resa nota la ricerca «L’abusivismo commerciale da parte dei cittadini immigrati a Rimini»: chissà non serva agli amministratori per immaginare qualcosa di più sensato delle solite esibizioni di muscoli. Se la ricerca della Foschi vi è piaciuta, anche per la sua capacità di rendere vive le persone intervistate, andate in cerca della ristampa di «Africa qui, storie che non ci raccontano»: 128 pagine per 6,90 euri, pubblica Edizioni dell’Arco e, nelle grandi città, viene venduto… per strada. Stefania Ragusa racconta di 13 migranti (3 sono donne) dall’Africa che qui incontrano “il successo”; a costo di sacrifici e naturalmente pagando le tasse, quelle che tanti italiani presunti doc evadono: non per questo li chiameremo tutti in blocco «nonvupagà».

UNA PICCOLA NOTA

Questa mia recensione è uscita sul quotidiano “Liberazione“. Un brano del libro (la vicenda del cinese Shaohan) è su codesto blog in data 16 dicembre 2010.

 

Redazione
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