Le vittime sono occidentali ma l’obiettivo è la Tunisia

Di Karim Metref (uscito su Il Manifesto del 03.07.2015)

Il primo impatto, per me, dopo la strage di Sousse, è stato un ritorno con la memo­ria a quello che chia­miamo in Alge­ria il «Decen­nio nero» degli anni ’90. Mi tor­na­rono in mente le stragi sulle spiagge, nelle città, sulle strade… Le pres­sioni, il terrore.

Nel 1993, ci furono i primi attac­chi dei Gruppi isla­mici armati (Gia) sulle spiagge. Nel 1994, un comu­ni­cato dei «Gia», che vie­tava di andare in spiag­gia soprat­tutto in con­te­sti misti e con costumi «inde­centi», era uscito verso fine mag­gio, poco prima dell’inizio della sta­gione balneare.

Giu­gno arrivò e nes­suno osò sfi­dare quel divieto. Qual­cuno andava alle spiagge dei Vip, chiuse e pro­tette. Ma in quelle popo­lari, silen­zio asso­luto. Fino a quando, verso metà giu­gno, arrivò una ondata di caldo come quella di que­sti giorni.

Pas­sammo 2 o 3 giorni di cani­cola a sudare di giorno per le strade delle città tra­sfor­mate in for­nace dal sole cocente e le notti a sudare rin­chiusi den­tro le case a causa del copri­fuoco. Quando arrivò il fine set­ti­mana, senza nes­suna intesa pre­li­mi­nare né parola d’ordine, insieme, cen­ti­naia di migliaia di per­sone: uomini, donne e bam­bini si river­sa­rono sulle spiagge sin dal primo mat­tino. Come per dire: «Ammaz­za­teci tutti quanti se volete ma noi ci rin­fre­schiamo lo stesso».

Dopo quel giorno, ci furono alcuni altri atten­tati sulle spiagge, ma non ebbero più l’effetto voluto. Il Gia capì pre­sto che quella bat­ta­glia, almeno nelle zone che non erano sotto il suo diretto con­trollo, era persa e che era inu­tile insistere.

Allora i Gia erano forti in Alge­ria. A un certo punto si erano anche illusi (o l’esercito glielo lasciò cre­dere) che fos­sero in grado di pren­dere il potere. Ma erano forti solo in Alge­ria. La loro agenda imme­diata era nazio­nale. Oggi la situa­zione è del tutto diversa.

Il mar­chio di fab­brica Isis, Is, o come vogliamo chia­marlo, è in ven­dita ovun­que. La sua base stra­te­gica è non si sa dove, la sua base logi­stica è in Siria/Iraq. Ma ha una vasta rete di riven­di­tori in fran­chi­sing che sparge in giro per il mondo la sua merce avve­le­nata. Quello che col­pi­sce la Tuni­sia oggi non è una orga­niz­za­zione, è una idea. Una idea sicu­ra­mente malata ma geniale.

Tunisia, Spiaggia di Sousse

Cartolina: La Spiaggia di Sousse.
Foto: Ivan

Tutto è cam­biato, o no?

La situa­zione non è la stessa. Tutto è cam­biato. Ma pen­san­doci con calma, mi rendo conto che, alla fine, gli obiet­tivi degli atten­tati sono esat­ta­mente gli stessi.

La Tuni­sia è la nazione che è uscita con il miglior risul­tato dalla «Pri­ma­vera araba». Dopo essere stato uno dei più chiusi e repres­sivi, è oggi il paese dell’area dove c’è più libertà di espres­sione e di ini­zia­tiva poli­tica, cul­tu­rale e sociale.

Qual­cuno dice che è per­ché è il paese arabo che ha la classe media più colta e che ha svi­lup­pato la società civile più avan­zata. Qual­cuno fa risa­lire il segreto della neo­de­mo­cra­zia tuni­sina alle anti­che usanze dello stato tuni­sino, dove c’era da molto tempo una tra­di­zione di dia­logo e di con­fronto tra diversi. Qual­cuno vede le ori­gini di que­sta ecce­zione nel fatto che non ci siano grandi inte­ressi stra­nieri per la desta­bi­liz­za­zione della Tuni­sia, per­ché è un paese pic­colo, povero in risorse natu­rali e poco impor­tante strategicamente.

La verità sta pro­ba­bil­mente in tutte que­ste spie­ga­zioni e in altre ancora. Fatto sta che finora la Tuni­sia è riu­scita a trarre utili lezioni dalle espe­rienze dei paesi dell’area e a evi­tare di cadere negli stessi errori. Non è rima­sta immo­bile come l’Algeria e il Marocco, non è caduta nella trap­pola della guerra civile come la Siria e la Libia, e non è ritor­nata a una dit­ta­tura ancora più dura di prima, come è il caso dell’Egitto.

Il ber­sa­glio di tutte le invidie

Ma è pro­prio que­sta ecce­zione che rende il pic­colo paese medi­ter­ra­neo ber­sa­glio di tutte le invi­die e di tutti i ran­cori. La guar­dano male i regimi ancora in piedi per­ché dimo­stra che la società araba-musulmana è in grado di vivere in demo­cra­zia senza un “grande fra­tello” che bada a tutto. E la guar­dano male le oppo­si­zioni inte­gra­li­ste, più o meno, per le stesse ragioni.

Gli unici a guar­darla con appro­va­zione e ammi­ra­zione sono i democratici-laici nei paesi arabi-musulmani. Ma pur­troppo, que­sti ultimi pos­sono por­tare ben poco aiuto alla Tuni­sia, per­ché con­tano meno di niente attual­mente nella mag­gior parte dei paesi dell’area. Lo scac­chiere è occu­pato con pre­po­tenza dal ter­rore dei sala­fiti e da quello dei regimi polizieschi.

Mi dispiace di delu­dere l’egocentrismo occi­den­tale ma l’attentato sulla spiag­gia di Sousse ha gli stessi obiet­tivi di quelli sulle spiagge alge­rine di 20 anni fa: bloc­care e ter­ro­riz­zare un paese. Non fa parte di una «guerra con­tro l’Occidente», come gri­dano le prime pagine di molti gior­nali. È vero che le vit­time sono occi­den­tali. Ma l’obiettivo stra­te­gico è la Tuni­sia. L’obiettivo è quello di por­tare il paese allo stremo tagliando la sua prin­ci­pale atti­vità economica.

Lo stato nor­da­fri­cano ha una eco­no­mia molto debole. Una eco­no­mia che pog­gia prin­ci­pal­mente su due gambe: turi­smo e agri­col­tura. C’è da dire però che que­sto «bipe­di­smo» è un po’ zop­pi­cante per­ché l’agricoltura è stata tra­scu­rata durante il regime pre­ce­dente e lasciata a se stessa di fronte alla deser­ti­fi­ca­zione che avanza, alla man­canza d’acqua e di fronte alle crisi perio­di­che dovute alla con­cor­renza spie­tata con paesi molto meglio orga­niz­zati e attrezzati.

Invece sul turi­smo si è inve­stito tanto sia a livello pri­vato che sta­tale, facendo di que­sta atti­vità, nello stesso tempo, la forza e la debo­lezza del paese. Per­ché, come si sa, il Turi­smo è una atti­vità che porta entrate facili e veloci in moneta forte, ma nello stesso tempo è una atti­vità molto fra­gile che ha biso­gno di pub­bli­cità e di sta­bi­lità e sicu­rezza prima di tutto. Que­sta è l’eredità pesante che ha rice­vuto il paese dal regime di Ben Alì. Una ere­dità che con­cen­tra tutta la sua ric­chezza lungo la costa e taglia fuori tutto il paese pro­fondo. Una ere­dità sba­gliata che la gio­vane demo­cra­zia tuni­sina non ha saputo o non ha avuto modo e tempo di cor­reg­gere. E gli ultimi atten­tati ven­gono per sfrut­tare que­sta debolezza.

Due atten­tati un obiettivo

L’attentato di Sousse e quello che ha col­pito il museo del Bardo poche set­ti­mane fa hanno entrambi lo stesso obiet­tivo: por­tare il paese al crollo economico.

La crisi eco­no­mica va sem­pre a favore degli estre­mi­smi. Lo scon­tro sociale che nasce­rebbe da un crollo dell’economia turi­stica in Tuni­sia, con i gruppi armati pronti a inter­ve­nire dalla vicina Libia e con il potente eser­cito alge­rino che non accet­te­rebbe mai il rischio di una presa di potere dei sala­fiti a due passi dai suoi con­fini, por­te­rebbe il paese di nuovo di fronte alla scelta tra la peste e il colera: oscu­ran­ti­smo reli­gioso o dit­ta­tura militare.

Il ritorno a tale situa­zione annul­le­rebbe del tutto l’eccezione tuni­sina e ripor­te­rebbe la nazione alla casella di par­tenza. La farebbe rien­trare nella “norma” regio­nale. Un ritorno alla nor­ma­lità che pia­ce­rebbe tanto sia ai paesi vicini che ai gruppi sala­fiti e forse, in fin dei conti, a tutti quanti… Tranne che ai tuni­sini stessi.

Karim Metref
Sono nato sul fianco nord della catena del Giurgiura, nel nord dell’Algeria.

30 anni di vita spesi a cercare di affermare una identità culturale (quella della maggioranza minorizzata dei berberi in Nord Africa) mi ha portato a non capire più chi sono. E mi va benissimo.

A 30 anni ho mollato le mie montagne per sbarcare a Rapallo in Liguria. Passare dalla montagna al mare fu un grande spaesamento. Attraversare il mediterraneo da sud verso nord invece no.

Lavoro (quando ci riesco), passeggio tanto, leggo tanto, cerco di scrivere. Mi impiccio di tutto. Sopra tutto di ciò che non mi riguarda e/o che non capisco bene.

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