Senza respiro nè illusioni: voci dall’Africa

4 articoli di Mauro Armanino, Antonella Sinopoli e Achille Mbembe; Alpha Blondy canta “Les Imbéciles” e “Sankara”

 

Il diritto universale al respiro – Achille Mbembe

Se il Covid-19 è l’espressione spettacolare dell’impasse planetaria nella quale si trova l’umanità allora ci toccherà ricostituire una Terra abitabile perché offra a tutti la possibilità di una vita respirabile, né più né meno. Saremo capaci di riscoprire la nostra appartenenza a una medesima specie e il nostro indivisibile legame con l’insieme del vivente? Questa è forse la domanda giusta, la domanda che va posta, l’ultima, prima che la porta si chiuda una volta per tutte.

Alcuni evocano sin da ora il «dopo-Covid». Perché no? Per la maggior parte di noi, tuttavia, soprattutto in quelle regioni del mondo dove i sistemi sanitari sono stati devastati da anni di abbandono organizzato – il peggio deve ancora venire. In assenza di letti negli ospedali, di respiratori, di test capillari, di mascherine, di disinfettanti  e di altri dispositivi di messa in quarantena per chi è già stato contagiato, sfortunatamente numerosi e numerose saranno coloro che non passeranno per la cruna dell’ago.

La politica del vivente

Qualche settimana fa, di fronte al tumulto e allo sgomento che si annunciavano, alcuni di noi avevano tentato di descrivere questi nostri tempi. Parlavamo di tempi senza garanzie e senza promesse, in un mondo sempre più dominato dall’ossessione della propria fine. Ma aggiungevamo che si tratta anche di un tempo caratterizzato da «una distribuzione diseguale della vulnerabilità» e da  «nuovi e rovinosi compromessi con forme di violenza a un tempo futuriste e arcaiche»[1] Per dirla tutta un’era di brutalismo.

Al di là delle sue origini nel movimento architettonico della metà del XX secolo abbiamo tentato di definire il brutalismo come il processo contemporaneo «grazie al quale il potere in quanto forza geomorfologica si costituisce, si esprime, si configura, agisce e si riproduce» grazie a  «frackinge fissurazione», grazie al «travaso degli inquinanti in mare», alla «trivellazione«, allo «scarico delle sostanze organiche» (p.11) , in breve grazie a quello che chiamavamo «lo svuotamento» (pp. 9-11).

Sottolineavamo la dimensione molecolare chimica, se non radioattiva di questo processo: «la tossicità, vale a dire la moltiplicazione delle sostanze chimiche e dei rifiuti tossici -non è forse questa una dimensione strutturale del presente?  Queste sostanze, questi rifiuti non attaccano solamente la natura e l’ambiente (l’aria, i suoli, le acque, le catene alimentari) ma anche i corpi esposti al piombo, al fosforo, al mercurio, al berillio ai fluidi refrigeranti.» (p.10)

Facevamo certamente riferimento ai «corpi viventi esposti alla spossatezza fisica e a ogni sorta di rischio biologico a volte invisibile». Tuttavia non citavamo i virus (mammiferi di ogni sorta ne trasportano fino a 600.000) se non metaforicamente nel capitolo consacrato ai «corpi frontiera». Ma per il resto, è proprio la politica del vivente nel suo insieme che ancora una volta viene messa in discussione. E il coronavirus è evidentemente il nome di questa politica.

L’umanità errante

In questi tempi di colore viola – se immaginiamo che il tratto distintivo di ogni tempo possa essere il suo colore – dovremmo forse cominciare con onorare  tutti quelli e quelle che ci hanno sinora lasciato. Una volta attraversata la barriera  degli alveoli polmonari il virus si è  infiltrato nella loro circolazione sanguigna. E ha successivamente attaccato organi e tessuti iniziando dai più fragili.

Segue un’infiammazione sistemica. Quelli e quelle che prima dell’attacco avevano già problemi cardiovascolari, neurologici, metabolici o soffrivano di patologie legate all’inquinamento hanno subito gli assalti più furiosi. Col respiro corto e senza respiratori, molti se ne sono andati alla chetichella, senza nessuna possibilità di  dire addio.  I loro resti sono stati subito inceneriti o seppelliti. In solitudine. Bisognava – ci è stato detto – sbarazzarsene il più presto possibile.

Ma già che ci siamo, perché non aggiungere a queste morti tutte le altre – e se ne contano a decine di milioni – le vittime dell’AIDS, del colera, del paludismo, dell’Ebola, del Nipah,  della febbre di Lasse, della febbre gialla, dello Zika, del chikunguya,  di tumori di ogni sorta, di epizootie di altre pandemie animali come la peste suina o la febbre catarrale ovina e di tutte le epidemie immaginabili e inimmaginabili che da secoli devastano popoli senza nome in paesi lontani senza contare le sostanze esplosive e altre guerre di predazione e di occupazione che mutilano e decimano decine di migliaia di esseri umani e ne gettano altre centinaia di migliaia sulla via dell’esodo, umanità errante.

Come dimenticare d’altronde la deforestazione intensiva, i grandi incendi, la distruzione degli ecosistemi, l’azione nefasta delle imprese inquinanti distruttrici della biodiversità e oggi – dato che  il confino fa ormai parte della nostra condizione – come non ricordare le moltitudini che popolano le prigioni del mondo, e  questi altri la cui vita si è sbriciolata di fronte ai muri e ad altre tecniche di frontierizzazione, che si tratti degli innumerevoli check pointsdisseminati su molti territori o dei mari, degli oceani dei deserti  e di tutto il resto?

Ieri e l’altro ieri non si parlava che di accelerazione di reti tentacolari, di connessioni che chiudevano l’insieme del globo nell’inesorabile meccanica della velocità e della dematerializzazione Si supponeva che fosse l’ambito digitale il contesto a partire dal quale pensare tanto il divenire degli insiemi umani e della produzione materiale quanto quello del vivente. Una logica ubiqua – supportata della circolazione ad alta velocità e della memoria aumentata – per cui sarebbe bastato «trasferire su un doppio digitale l’insieme delle competenze del vivente»[2]e il gioco era fatto. Stadio supremo della nostra breve storia sulla terra, l’umano avrebbe potuto essere finalmente trasformato in un dispositivo plastico. La via era apertaper realizzare così il vecchio progetto di un’ estensione infinita del mercato.

Nel cuore di quest’ubriacatura generale, è proprio questa corsa dionisiaca, descritta per altro in Brutalisme, che il virus viene a frenare senza tuttavia interromperla definitivamente, nella misura in cui l’ impianto complessivo resta immutato. L’ora è tuttavia sicuramente quella in cui si va verso il soffocamento, la putrefazione l’ingombro e la cremazione dei cadaveri, in una parola verso la risurrezione di corpi vestiti per l’occasione della loro più bella maschera funeraria e virale. Per gli umani la Terra  sarebbe dunque in procinto di trasformarsi in una ruota che mormora, in una necropoli universale? Fino a che punto giungerà il passaggio dei batteri dagli animali selvatici agli umani se di fatto, ogni 20 anni, circa 100 milioni di foreste tropicali – polmoni della terra – vengono tagliati?

Dall’inizio della rivoluzione industriale in occidente  circa l’85% delle delle zone umide sono state prosciugate. La distruzione degli habitat prosegue senza tregua e popolazioni umane in stato di salute precaria sono esposte quasi ogni giorno a nuovi agenti patogeni. Prima della colonizzazione gli animali selvatici che sono la principale riserva patogena, abitavano ambienti nei quali vivevano solo popolazioni isolate. E’ il caso per esempio degli ultimi paesi che vivono relativamente isolati come quelli del Bacino del Congo.

Oggi le comunità che vivevano e dipendevano dalle risorse naturali di questi territori sono state espropriate. Messe alla porta con la svendita delle terre a regimi tirannici e corrotti a con la concessione di vaste proprietà demaniali a consorzi agroalimentari esse non riescono più e mantenere le forme di autonomia alimentare ed energetica che avevano  permesso loro per secoli di vivere  in equilibrio con la foresta

Non abbiamo mai imparato a morire

In queste condizioni un conto è preoccuparsi della morte degli altri da lontano. Un’altra è prendere improvvisamente coscienza della possibilità di putrefarsi, di dover dove vivere nella prossimità della propria di morte, di contemplarla in quanto possibilità reale. È questo, almeno in parte, il genere di terrore che suscita il confino a molti, l’obbligo di dover infine rispondere della propria vita e del proprio nome.

Rispondere qui ed ora della nostra vita su questa Terra con altri (virus compresi) e del nostro nome in comune, è  pur questa l’ingiunzione che questo momento patogeno rivolge alla specie umana.  Momento patogeno ma anche momento catabolico per eccellenza, quello della decomposizione dei corpi, della selezione e dell’eliminazione di ogni sorta di scarti-d’umano, una «grande separazione» e un grande confino, come risposta alla propagazione sconvolgente del virus e come conseguenza della digitalizzazione pervasiva del mondo

Per quanto si cerchi di liberarsene tutto ci riporta finalmente al corpo. Avremo tentato di innestarlo su altri supporti, di farne un corpo-oggetto, un corpo-machina, un corpo digitale, un corpo ontofanico. Esso torna a noi sotto la forma stupefacente di un’enorme mascella, veicolo di contaminazione, vettore di pollini, di spore, di muffa.

Sapere che non siamo soli in questa prova o che potremmo essere in molti a dover sloggiare non può che provocare un vano conforto. Perché non abbiamo mai imparato a vivere insieme al vivente, a preoccuparci veramente dei danni causati dall’uomo ai polmoni della terra e al suo organismo. Di fatto non abbiamo mai imparato a morire. Con l’avvento del Nuovo Mondo e, qualche secolo più tardi, con l’apparizione delle «razze industrializzate», abbiamo fodnamentalmente  scelto – con una sorta di vicariato ontologico – di fare dell’esistenza stessa un grande pasto sacrificale.

Orbene tra poco non sarà più possibile delegare la morte ad altri. L’altro non potrà più morire al nostro posto. Saremo condannati ad assumerci senza mediazioni il nostro proprio trapasso. Non solo:  di possibilità di dirsi addio ce ne saranno sempre meno.  L’ora dell’autofagia si avvicina, e con essa la fine della comunità poiché non vi è comunità degna di questo nome là dove dirsi addio, vale a dire celebrare la memoria del vivente, non è più possibile.

La comunità o piuttosto ciò che è in-comunenon poggia semplicemente sulla possibilità di dirsi arrivederci,auspicando e impegnandosi ad onorare un successivo appuntamento personale  con qualcuno. Ciò che è in-comune poggia anche sulla possibilità di una condivisione senza condizioni da riscoprire ogni volta in qualcosa di assolutamente intrinseco, vale a dire di incalcolabile, senza rendiconto, senza condizioni e dunque senza prezzo.

Il digitale, nuovo cratere scavato nella terra da un’esplosione

Il cielo evidentemente non smette di oscurarsi. Costretta nella morsa dell’ingiustizia e delle inuguaglianze, una buona parte dell’umanità è minacciata da questo grande soffocamento e dal crescente sentimento secondo cui il nostro mondo vive uno stato di sospensione di pena. Se in queste condizioni un giorno ci sarà un day after non potrà più essere alle spese di alcuni, e sempre degli stessi, come nella Vecchia economia.Dovrà necessariamente valere per tutti gli abitanti della terra senza distinzione di specie, di razza, di sesso, di cittadinanza, di religione  o di altri criteri di differenziazione, In altri termini non potrà avvenire che al prezzo di una gigantesca svolta, frutto di una immaginazione radicale.

Una nuova mano di intonaco non basterà. Nel mezzo del cratere tutto sarà da inventare a partire dalla dimensione sociale. Perché quando lavorare, approvvigionarsi, informarsi, mantenere il contatto, nutrire e conservare i legami, parlarsi e scambiare, bere insieme, celebrare il culto o organizzare funerali non possono più aver luogo se non per interposto schermo, è ora di rendersi conto che siamo circondati da ogni parte da cerchi di fuoco. In ampia misura la dimensione digitale è il nuovo buco scavato nella terra dell’esplosione. Al contempo trincea,viscere e paesaggio lunare è il bunker dove l’uomo e la donna isolati sono invitati ad accucciarsi.

Grazie alla dimensione digitale il corpo in carne ed ossa, il corpo fisico e mortale verrà sgravato del proprio peso e della propria inerzia. Alla fine di questa trasfigurazione si potrà finalmente intraprendere il viaggio attraverso lo specchio sottratti alla corruzione biologica e restituiti all’universo sintetico dei flussi È un’illusione perché non vi può essere umanità senza corponé libertà senza società o alle spese della biosfera.

Guerra contro il vivente

Bisogna tuttavia ripartire, e, per i bisogni della nostra sopravvivenza, è imperativo ridare a tutto il vivente (biosfera compresa) lo spazio e l’energia di cui hanno bisogno. Nel suo versante notturno la modernità sarà stata dall’inizio alla fine un’interminabile guerra condotta contro il vivente. Ed è lungi dall’essere terminata. Il dominio digitale costituisce una delle modalità di questa guerra. Essa conduce senza scampo all’impoverimento del mondo e alla desertificazione di grandi parti del pianeta

Bisogna temere che nel day after, ben lungi dal fare santuario di tutte le specie viventi, il mondo torni sfortunatamente a un nuovo periodo di tensioni e di brutalità. Sul piano geopolitico, la logica della forza e della potenza potrebbe continuare a prevalere. In assenza di infrastrutture comuni si accentuerà una partizione feroce del globo e le linee di segmentazione si intensificheranno. Molti Stati penseranno a rafforzare le frontiere nella speranza di proteggersi da ciò che viene da fuori. Cercheranno anche di occultare  quella violenza costitutiva che scaricheranno come sempre abitudine sui più vulnerabili. Vivere dietro uno schermo e nelle enclavi protette da imprese di sicurezza private diventerà la norma.

In Africa, in particolare, e in molte regioni del Sud del mondo, l’estrazione energetica, le forme di espansione agronomica e la predazione sulla base della svendita delle terre e della distruzione delle foreste continueranno, dato che sono necessarie all’alimentazione e al raffreddamento dei supercalcolatori . L’approvigionamento e la distribuzione delle risorse e dell’energia necessarie all’infrastruttura della digitalizzazione planetaria si faranno a spese di una ulteriore grande limitazione della mobilità umana. Mantenere il mondo a distanza diventerà la norma, per espellere rischi di ogni sorta. Ma poiché non è legata alla nostra precarietà ecologica, questa visione catabolica del mondo ispirata alle teorie dell’immunizzazione e del contagio non ci permetteranno di uscire dall’impasse planetaria nella quale ci troviamo.

Il diritto fondamentale all’esistenza

Delle guerre condotte contro il vivente si può dire che la loro prima proprietà sarà stata di togliere il respiro.

In quanto ostacolo di fondo al respiro e alla rianimazione dei corpi e dei tessuti umani il Covid-19 si inscrive nella stessa traiettoria.  In effetti in che cosa consiste la respirazione se non nell’assorbimento di ossigeno e nell’espulsione di anidride carbonica o ancora in uno scambio dinamico tra sangue e tessuti? Ma per come sta procedendo la vita sulla Terra e considerando ciò che resta della ricchezza del pianeta vien da chiedersi se non ci avviciniamo a un’epoca in cui ci sarà più anidride carbonica da inalare che ossigeno.

Prima di questo virus l’umanità era già minacciata di soffocamento. Se guerra ci deve essere, dev’essere non contro un virus in particolare ma contro tutto ciò che condanna la maggior parte dell’umanità all’arresto prematuro del respiro, contro tutto ciò tutto ciò che attacca le vie respiratorie, contro tutto ciò che nella lunga durata del capitalismo avrà confinato ampi segmenti della popolazione  e razze intere a una respirazione difficile, affannata, a una vita pesante. Ma per uscirne bisognerà iniziare a comprendere la respirazione al di là dei suoi aspetti biologici, come ciò che ci accomuna e che per definizione, sfugge a ogni calcolo.  In tal modo stiamo evocando un diritto universale al respiro.

Nella misura in cui è al contempo extra-territoriale e suolo comune il diritto universale al respiro non è quantificabile. Non sarebbe possibile appropriarsene. E’ un diritto in termini di universalità non solo di ogni membro della specie umana ma del vivente nel suo insieme. Bisogna dunque comprenderlo come un diritto fondamentale dell’esistenza. In quanto tale non può essere confiscato e sfugge di fatto a ogni sovranità poiché ricapitola in sé il principio sovrano. Ed è in ogni caso  un diritto originario d’abitazione della Terra,un diritto proprio alla comunità universale degli abitanti della terra umani e non[3].

Coda

Il processo è stato intentato mille volte. Si possono recitare a occhi chiusi i principali capi d’accusa. Che si tratti della distruzione della biosfera, della messa in quarantena dello spirito da parte della tecnoscienza, della disintegrazione delle resistenze, degli attacchi ripetuti contro la ragione, del rimbecillimento degli spiriti, del trionfo dei determinismi  (genetici, neuronali, biologici, ambientali), i pericoli per l’umanità sono sempre più esistenziali.

Di tutti questi pericoli il più grande è costituito dalla possibilità che ogni forma di vita venga resa impossibile. Tra coloro che sognano di caricare digitalmente la nostra coscienza su delle macchine e quelli che sono persuasi che la prossima evoluzione della specie consista nella liberazione dalla nostra matrice biologica, lo scarto è insignificante. La tentazione eugenetica non è scomparsa, al contrario, è alla base dei progressi recenti delle scienze e della tecnologia.

Su questi antefatti sopravviene questo brusco colpo d’arresto, non della storia, ma di qualcosa che è ancora più difficile da cogliere. In quanto forzata questa sospensione non dipende dalla nostra volontà. Da più punti di vista  è a un tempo imprevista e imprevedibile. Ma è di una sospensione volontaria, consapevole pienamente accettata di cui abbiamo bisogno, in mancanza della quale non ci sarà un futuro. Non ci sarà che una serie ininterrotta di eventi imprevisti.

Se, di fatto, il Covid-19 è l’espressione spettacolare dell’impasto planetario nel quale l’umanità si trova allora la sfida è quella di ricomporre una terra abitabile che offra a tutti la possibilità di una vita rispettabile. Né più né meno. Si tratta dunque di ripensare le istanze del mondo per costruire nuovi territori. L’umanità e la biosfera sono interdipendenti. Non vi è avvenire per questa senza quella.

Saremo capaci di riscoprire la nostra appartenenza alla stessa specie, il nostro inscindibile legame con l’insieme del vivente? Questa è forse la domanda giusta, l’ultima prima che non si chiuda una volta per tutte la porta.

[1]Achille Mbembe et Felwine Sarr, Politique des temps, Philippe Rey, 2019, p. 8-9

[2]Alexandre Friederich, H+. Vers une civilisation 0.0, Editions Allia, 2020, p. 50

[3]  Sarah Vanuxem, La propriété de la Terre, Wildproject, 2018 ; et Marin Schaffner, Un sol commun. Lutter, habiter, penser, Wildproject, 2019

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I nemici dell’Africa ( e qualche amico) – Mauro Armanino

Perché era nero o perché umano. Forse le due cose messe assieme con una vistosa prevalenza della prima, vista la reazione in America e altrove in seguito all’efferata uccisione per soffocamento di George Floyd a Minneapolis. Il movimento Black Lives Matter, la vita dei neri importa, ha ‘contaminato’ buona parte del mondo suscitando reazioni, interrogativi e accuse sul ruolo delle polizie e più ancora sul latente razzismo che non finisce di minare l’umana avventura. Reazioni al Covid, alle politiche neoliberali fasciste di Donald Trump, l’impatto dei mezzi di comunicazione, il ruolo degli Stati Uniti e non ultima l’indignazione del ‘morto di troppo’ hanno creato un clima sociale che l’abbattimento di statue sospette esprime a meraviglia. D’altra parte qualcuno scrisse che, al momento di abbattere le statue è sempre meglio lasciare intatto il piedistallo, per il prossimo idolo. Le manifestazioni sono spuntate un po’ dovunque e financo in Africa qualcosa, con qualche ritardo, si è mosso. Nulla di particolarmente eclatante ma almeno sufficiente a farla uscire dalla clandestinità nella quale si trova in queste circostanze. Il presidente della Commissione dell’Unione Africana, il forum dei già capi di stato, il Ghana, il Kenia, l’Africa del Sud, la Tunisia, il Senegal e poi artisti e calciatori di fama che hanno patito cori razzisti negli stadi d’Europa. Ma forse ha ragione Alpha Blondy, cantante ivoriano che ormai da anni usa il reggae di Bob Marley per esprimere il suo pensiero.

Insisto, persisto e affermo/ I nemici dell’Africa sono gli Africani‘Gli imbecilli’ è Il titolo dell’estratto dalla canzone citata e inserita in un album uscito con preveggenza nel lontano 1997. Blondy, nel testo, fa allusione alle varie crisi che hanno scosso il continente in quel periodo. Il primo e grande nemico dell’Africa è la dimenticanza o la censura delle sofferenze del popolo. E’ di questi giorni il rapporto sulle ‘crisi dimenticate’ del mondo pubblicato dal Consiglio Norvegese per i Rifugiati. Nello stilare la ‘classifica’, il rapporto prende in considerazione tre elementi: la mancanza di volontà politica, di attenzione dei media e la mancanza di aiuto economico. Il documento solo analizza le crisi che hanno provocato oltre 200 mila sfollati o rifugiati. Delle 41 crisi prese in esame risulta che tra le prime dieci figurano ben nove Paesi africani. Troviamo al primo posto il Camerun, segue la Repubblica Democratica del Congo, il Burkina Faso, il Burundi, il Mali, il Sud Sudan, la Nigeria, la Repubblica Centrafricana e il nuovo arrivato Niger.

Unico Paese incluso non africano tra i primi dieci è il Venezuela,  mentre di altri Paesi non si hanno statistiche affidabili o sono palesemente occultate. Queste crisi sono prima create e poi in fretta dimenticate, dagli africani e poi dal resto del mondo. E non sarà il pan-umanitarismo che rappresenterà la salvezza da queste crisi, volute, subite, provocate, facilitate, finanziate e infine cancellate. Proprio quest’ultimo, il pan-umanitarismo, potrebbe rappresentare l’altro nemico occulto dell’Africa. C’è chi vive e prospera di crisi e nelle crisi, che, direttamente o meno, rischia di perpetuare la cause e le conseguenze delle crisi stesse. Si sviluppano competenze di crisi umanitarie e si cerca di ‘vendere’ al meglio il prodotto in questione nella spietata concorrenza tra Organizzazioni Umanitarie. Per poter funzionare, questo tipo di sistema, abbisogna dell’osservanza di alcune condizioni prealabili. Una di queste è la riduzione delle persone a vittime più o meno inermi del loro destino e dunque incapaci di intendere e volere ciò che costituisce il loro bene. La seguente e logica operazione consisterà dunque nel fornire progetti e strumenti per realizzare ciò che si crede possa risolvere il problema prima creato e poi coltivato dalla crisi stessa.

I fabbricanti di armi, i venditori di schiavi, i posti di polizia, le dogane corrotte tra una frontiera e l’altra, le elezioni ‘tropicalizzate’, l’incetta delle materie prime, la vendita delle terre, lo sfruttamento dei bambini, le catene migratorie di prostituzione, il commercio di cocaina e falsi medicinali, i mandati presidenziali a durata indefinita e le Commissioni Elettorali Nazionali Indipendenti che fanno eco al potere non potrebbero perpetuarsi senza la complicità degli africani stessi e dei politici presi in ostaggio dai soldi, dal potere e dal prestigio. Certo l’Oriente e l’Occidente sono tutto meno che innocenti e queste operazioni probabilmente non potrebbero avere un buon esisto senza il loro avallo. Tutto vero ma questo non toglie e semmai accusa chi avrebbe dovuto fare sue le parole di un certo Diallo Telli, ucciso da un dittatore di nome Sekou Touré, che disse…’ Noi siamo i popoli che più abbiamo sofferto l’ingiustizia nella storia ed è per questo motivo che non abbiamo il diritto né politicamente, né moralmente, di infliggere ingiustizie agli uomini’…Pochi oggi, qui come altrove, avrebbero il coraggio di concepire e esprimere pubblicamente queste parole di altissimo valore etico. Un Continente che tradisce e spinge i suoi figli a fuggirlo rinnega il proprio passato.

Ancora lo stesso Blondy, nel seguito della canzone citata sottolinea…Ci sono i diamanti a cielo aperto/ c’è l’oro a cielo aperto/ la bauxite a cielo aperto/ l’uranio a cielo aperto/ ma i cervelli sono sepolti a cielo aperto’… Non dovrebbe andare lontano chi vorrebbe identificare e nominare i nemici: per buona parte si trovano qui, nel Continente africano e se proprio vogliamo parlare di razzismo allora cominciamo con fare pulizia e verità qui a casa nostra. Nel Maghreb, e non è un mistero per nessuno, sono proprio gli africani (del nord e quindi di carnagione più chiara) che insultano e rendono spesso schiavi i ‘neri’ dell’Africa sub sahariana. Quanto è accaduto e sta accadendo in Libia e in Algeria, con campi di detenzione e tortura e nel caso dell’Algeria, di espulsioni di migranti, con il furto del frutto di lavoro di anni, poi buttati e abbandonati nel deserto, donne e bambini compresi. Il tutto nel silenzio assordante dei dirigenti africani, gli stessi che poi commentano con amarezza l’uccisione per asfissia di un fratello nero, americano e soprattutto lontano agli occhi e dal cuore e che si incontrano almeno due volte l’anno ad Addis Abeba, nella sede dell’Unione.

I nemici  più pericolosi dell’Africa sono, nondimeno, i mercanti di Dio , un Dio contraffatto da ideologie che arrivano al Continente con le cannoniere e gli accordi commerciali. Trovano in fretta acquirenti per rovesciare sulle spiagge e i deserti le scorie e gli scarti della loro civiltà fatta di cose da vendere in continuazione. Cercano spazi per farne fosse, comuni o private per nascondervi quanto altrove non troverebbe nessun posto. Usano il dio denaro come paravento, comprano e fanno comprare, vendono illusioni, miraggi, utopie consumate dall’uso e promettono un paradiso da centro commerciale, plasmano immaginari e accartocciano i sogni per buttarli al macero. Anch’essi trovano complici  e trasformano la saggezza di un tempo in un’inutile cantilena di pescatori  che hanno dimenticato l’arte della pesca. Fanno delle mercanzie l’unico orizzonte degno per un Mercato Unico, Libero e Globale di rapina dei poveri.

Perché neri o perché poveri, forse è bene non sbagliarsi di identificare il nemico. Il torto principale dei migranti che sbarcano ( o prima annegano nel mare), o arrivano in aereo o per impervie strade, non è anzitutto il colore della pelle, la forma degli occhi o la lingua e gli usi differenti, ma è la povertà che disturba. E lo stesso si riproduce in questa parte del mondo: si è se si HA…chi non HA non è nessuno. Poco importa il colore dell’abito indossato per l’occasione. Pure l’Africa di adesso, neocolonizzata a suo piacimento e finché le conviene, discrimina i poveracci, i democratici, i diritti umani, i giornalisti, gli artisti e i giudici che fanno il loro mestiere. L’Africa abbisogna e allo stesso tempo teme la verità di sé e del suo destino. Magari, come tutti del resto, ha bisogno di amici veri e sinceri. Non molti ma esistono ancora oggi.

Gli amici dell’Africa tacciono, fanno silenzio e buttano via il tempo che avevano prima di arrivare. Gli amici dell’Africa non vengono per aiutare quanto per essere aiutati a declinare altrimenti la vita. Gli amici dell’Africa sono coloro che si lasciano contagiare dal sapore del vento e hanno intuito quanto la sabbia sia importante per interpretare la storia umana. Non hanno ricette, progetti, strategie, fondi di primo intervento, consigli da dare, foto da prendere o giudizi da imporre. Gli amici dell’Africa sanno bene che alla fine sono gli analfabeti che scriveranno, nella polvere, le parole che più contano. Gli amici dell’Africa vivono nell’attesa che proprio loro, i bambini, senza saperlo, salvino il mondo.

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Les Imbéciles – Alpha Blondy

Tout change,tout évolue
Seuls les imbéciles, ne changent pas
Tout change tout évolue
Seuls les imbéciles ne changent pas

J’insiste, je persiste, et je signe
Les ennemis de l’Afrique
Ce sont les Africains
J’insiste, je persiste, et je signe
Les ennemis de l’Afrique
Ce sont les Africains

Les imbéciles ont décidé d’entrer dans l’histoire à reculons
Les peuples baillonés écoute la “synfolie” des canons.

Les Algériens égorgent les Algériens
Les Somaliens fusillent les Somaliens
Les Rwandais génocident Rwandais
Les Burundais découpent les Burundais
Les Congolais massacrent les Congolais
Les Angolais brûlent l’Angola

On a le diamant à ciel ouvert
On a l’or à ciel ouvert
La bauxite à ciel ouvert

L’uranium à ciel ouvert
Mais les cerveau se sont enfuis à tombeau ouvert

Tout change,tout évolue
Seuls les imbéciles, ne changent pas
Tout change tout évolue
Seuls les imbéciles ne changent pas

On a le fer à gogo
Le pétrole à gogo
Le cobalt à gogo
Le nickel à gogo

J’insiste, je persiste, et je signe
Les ennemis de l’Afrique
Ce sont les Africains
J’insiste, je persiste, et je signe
Les ennemis de l’Afrique
Ce sont les Africains

Malgré les richesses agricoles, minières et minéralières,
Nous sommes victimes de l’endettement à croissance exponentielle et baignons dans l’économie sous perfusion

C’est la mondialisation de l’économie à sens unique avec la pensée du Maître à pensée!!

Réveille-toi Afrique!

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Aspettando Godot – Mauro Armanino

Un’opera degna del miglior Samuel Beckett. I benefattori globali e alcuni agenti locali l’avevano annunciato, pronosticato e perfino quantificato. L’impatto del Coronavirus in Africa in generale e nel Sahel in particolare sarebbe stato oltremodo devastante. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva infatti affermato, in una intervista ai microfoni di Radio France Internationale (RFI) et France 24, che secondo lui, erano necessari almeno 3 mila miliardi di dollari e un’azione concertata a livello internazionale per evitare una ecatombe in Africa, dove una propagazione del virus, poteva condurre a milioni di morti e persone infettate. Nella stessa prospettiva aveva saggiamente invitato, in un solenne appello, a ‘un cessate il fuoco immediato, dappertutto nel mondo’ al fine di preservare, a monte della furia del Covid-19, i civili più vulnerabili nei Paesi in conflitto.

Il movimento verso la pacificazione è stato in buona parte disatteso, buon esempio in Libia e in Siria ma soprattutto dai mercenari e dai commercianti d’armi. In effetti, secondo l’ultimo rapporto dall’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace ( SIPRI) di Stoccolma, le spese militari hanno superato la somma di 1.900 miliardi di dollari. Il presidente del Niger, da parte sua, in un’altra conversazione esclusiva con RFI e France 24, affermava di dar ragione ad Antonio Guterres sulla possibilità di milioni di morti a causa dell’epidemia in Africa. Per questo motivo, il capo di Stato chiamava ad un nuovo ‘Piano Marshall’ da parte della comunità internazionale con lo scopo di aiutare i Paesi del continente ad affrontare l’inedita crisi sanitaria. Qui nei Paesi del Sahel, che una nota confidenziale del Ministero degli Esteri francese,  a causa del Covid-19, avrebbero dovuto affossarsi, stiamo ancora aspettando Godot.

Da 83 000 a 190 mila persone potrebbero morire di Covid-19 in Africa e da 29 a 44 milioni potrebbero essere infettati nel primo anno della pandemia se le misure di confinamento alla pandemia falliscono. Questo è il risultato di un nuovo studio dell’Ufficio Regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Questa ricerca si basa sui modelli di previsione operata su 47 paesi dell’Africa, dove la popolazione totale è di un miliardo di abitanti. Secondo un altro modello provvisorio operato dall’OMS, i casi di Coronavirus potrebbero passare da qualche migliaio a 10 milioni in sei mesi anche se Michel Yao, capo delle operazioni di urgenza per l’OMS Africa, ha dichiarato giovedì che si trattava di una proiezione che potrebbe cambiare. Aspettando Godot la nostra Africa inizia a deconfinare e in particolare nel Niger, dopo aver riaperto i luoghi di culto martedì, è stata tolta anche la misura che isolava la capitale Niamey dal resto del Paese e per il coprifuoco, è ormai del tutto soppresso. Quanto all’Africa, a tutt’oggi secondo le cifre fornite dal Centro di Prevenzione delle malattie dell’Unione Africana (CDC), il continente contava 78 613 casi confermati di Covid-19 e 2 642 decessi dovuti alla malattia. L’Africa del Sud è il Paese più colpito, seguito dall’Egitto e dal Marocco. Gli altri Paesi stanno ancora aspettando Godot.

Nella splendida opera di Beckett, Godot, sconosciuto personaggio importante, arriverà quasi certamente domani e tutta l’opera gira attorno ad un’attesa che rimane tale. Godot rappresenta proprio l’attesa allo stato puro e senza sconti o scorciatoie, l’attesa di un possibile che rimane sulla soglia. Così è per il Covid-19 in Africa, verrebbe da dire. Si sono proiettati, come anche in altri casi, sul continente immaginari che, dopo aver dipinto il continente in perenne stato di abbandono e disperazione, si incastonavano a pennello nell’idea di catastrofe annunciata. Non è così perché, nella nostra nave di sabbia non si confina  né la povertà né la speranza. Entrambe nascono dallo stesso grembo di cui l’Africa ha saputo, almeno finora, conservare il segreto. Aspettiamo da venti mesi padre Pierluigi e il suo compagno di sventura Nicola Ciacco, tenuti in schiavitù da falsi combattenti in cerca di denaro, da qualche parte nel vicino Mali. Si aspetta l’acqua per bere e per lavarsi le mani e poi mantenere le poche distanze possibili che possono avere i passeggeri dello stesso veliero che naviga nella sabbia. Si aspetta il Dio a parte che capi di stato, comuni cittadini e migranti bloccati dai confinamenti invocano ogni giorno. Germaine, una parrucchiera disoccupata da mesi, assicura che, da quando si dice che il virus viaggia assieme al vento, ogni mattina, appena sveglia, comincia a danzare.

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https://www.youtube.com/watch?v=qwjQOtGJ5Kc

 

Héi…hou la la la la la
Sankara
Thomas sankara
Capitaine sankara
Ce sont tes baramogo qui t’ont dja
Mal mal dja
Sankara
Thomas sankara
Capitaine sankara
Ce sont tes baramogo qui t’ont dja
Un coup d’état appelle d’autres coup d’états
Et les frères d’armes tot ou tard deviennent ennemies
Et ça je vous l’ avais déjà dit
Le pouvoir se prend par les urnes et non par les armes
(et non par les armes)
Sankara
Thomas sankara
Capitaine sankara ce sont tes baramogo qui t’ont dja dja
Mal mal dja
Une trahison appelle toujours d’ autres trahisons
Il n’y a pas de saison
Et là j’ ai raison
Le pouvoir se prend par les urnes (et ça je vous l’avais déjà dis)
Et non par les armes(et non par les armes)
(le linge sale se lave en famille mais pas dans le sang)
Héi hou la la la la la
De vengeance en vengeance l ‘afrique est tombé dans la décheance
Vouloir venger sankara
C ‘est perpétuer la bétise
La bétise politique
Anti démocratique
Soif de pouvoir
C’est la boulimie du pouvoir
C’est la gourmandise du pouvoir
(le linge sale se lave en famille mais pas dans le sang)
(le linge sale se lave en famille mais pas dans le sang)
{sankara
{thomas sankara
{sankara
{thomas sankara
Hou la la la la la
(Sankara)

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“Aiutiamoli a casa loro”, l’urlo arrogante degli illusi – Antonella Sinopoli

Toni Iwobi, 63 anni nato in Nigeria, naturalizzato italiano, primo nero eletto senatore della Repubblica italiana;  Idy Diene, 54 anni, ambulante senegalese con regolare permesso di soggiorno ucciso a Firenze per nessun motivo, tranne il colore della sua pelle; Segen (di lui non si sa neanche il cognome), 22 anni eritreo, morto di fame appena sbarcato in Italia a seguito di mesi di sofferenze, privazioni e torture nei centri libici. È successo tutto nel giro di poche settimane, tutto in Italia. E questo tutto, queste tre generazioni di africani concentrano in sé tante storie. La storia dell’Africa degli ultimi decenni (migliorata molto ma peggiorata per molti); la storia dei rapporti umani completamente distorti e in una fase regressiva che sembrerebbe senza ritorno; la storia delle disillusioni di un’Europa e di un mondo occidentale fondato sullo sfruttamento, sull’ingiustizia, sul doppio binario dei diritti.

Erano gli anni Ottanta del secolo scorso e dopo solo un paio di decenni dall’indipendenza molti Paesi africani cominciarono ad essere investiti da una forte crisi economica. Diversi i fattori: tra i principali il calo drammatico del prezzo del petrolio innescato dalla guerra del Kippur; la scelta di continuare l’errore delle amministrazioni coloniali di investire a livello agricolo sulla monocultura; l’emergere dei Big Man, leader impegnati a creare un’immagine di sé simile a quella degli ex colonizzatori – paternalistica,  non criticabile e tendente ad accumulare beni e prestigio per sé e per il proprio entourage – che stava quindi creando sempre più uno spartiacque tra l’élite al potere e la popolazione.

Fu a quell’epoca che cominciò per l’Africa la neo-colonizzazione fatta di “aiuti allo sviluppo” e soprattutto di prestiti “condizionati” da parte degli IFI, Istituti Finanziari Internazionali (leggi Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale). Alcune delle condizioni furono: svalutazione delle monete locali e riduzione della spesa pubblica. Come si può immaginare i tassi di disoccupazione – derivati anche all’allontanamento dalle aree rurali verso le città – aumentarono notevolmente ed è in questa fase che cominciò la prima ondata di emigrazione verso i Paesi europei. Paesi europei – Italia compresa – che erano invece in piena espansione economica e dove il nero era qualcosa di esotico, non ancora percepito come una minaccia. Di questa fase felice si sono avvantaggiate tante classi medio alte africane o ragazzi al seguito di  congregazioni religiose o missionari. È di quella stagione che fa parte il fortunato Toni Iwobi, che oggi farebbe parte della categoria del “migrante economico”.

I peggiori nemici degli africani sono i  ‘fratelli’ africani”.  Non sono io a dirlo. Di questa “inimicizia” gli africani fanno le spese da secoli. A cominciare dalla tratta degli schiavi, quando i mercanti bianchi dovevano necessariamente trovare appoggi e accordi con i chief locali per il rifornimento della merce e per avere strada libera sui territori di caccia. Si passò poi alla colonizzazione. Epoca in cui lo sfruttamento si spostava dalla forza lavoro, le braccia negre, alla terra e ai suoi prodotti, compresi quelli minerari. Ma anche la colonizzazione – come era stato per i mercanti di schiavi – aveva bisogno di “alleati” in loco. Il cambiamento delle strutture sociali e comunitarie africane provocato dall’indirect rule di stampo britannico, ad esempio, fu enorme, come sempre più enorme fu il divario che si determinò tra i “capi” e il resto delle popolazioni.

Era di questi capi che il potere coloniale si serviva per controllare, amministrare, gestire, sfruttare i territori. Questo lungo, eppure sintetico, preambolo storico, è necessario per sottolineare che solo chi non conosce la storia – o non vuole farci i conti – può salire su un palco (o palcoscenico…) e urlare “Aiutiamoli a casa loro!” E questo vale se l’urlo viene da uno di pelle bianca o di pelle nera. Anzi no, se viene da un africano non è affatto una presa di coscienza della realtà contemporanea, è piuttosto prova di chiusura e mancanza di conoscenza. Se non fosse così Iwobi – e quelli che la pensano come lui – saprebbe che il federalismo nel suo Paese di origine ha forse funzionato in qualche misura, poi sono cominciati i drammi, comprese le parcellizzazioni del potere, gli estremismi religiosi – che spesso coprono gli estremismi di casta (non uso questo termine a caso) e di appartenenza tribale (e anche questo termine è adeguato alla realtà africana voluta dai colonizzatori). Se il senatore nero avesse coscienza di ciò che dice non oserebbe dire ai fratelli neri di restarsene a casa, laddove il loro presidente lascia la gestione dello Stato per mesi e mesi per andarsi a curare all’estero perché non si fida – e a ragione – degli ospedali del Paese che dirige. E questo non vale solo per la Nigeria.

Da qualche anno gli africani hanno ricominciato i viaggi della speranza in Europa, ma dagli anni Ottanta del secolo scorso molte cose sono cambiate. E gli africani di tutte le età si sono incrociati con un numero imprecisato di volontari venuti a salvarli e probabilmente molti giovani si sono domandati (e si domandano): perché lui può venire qui da me e io non posso? Perché devo farmi accudire e fotografare e trattare con superiorità da lui (o lei) che ha 18-20 anni come me ma sembra saperla lunga su tutto? Intanto la globalizzazione è scoppiata anche in Africa, peccato che però abbia reso i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Nel frattempo la prima ondata di migranti ha continuato a spedire soldi a casa e con quelle rimesse ci hanno vissuto intere famiglie i cui figli pensano: posso farlo anch’io, anch’io posso andare a lavorare in Europa e mantenere la mia famiglia.

In seguito dopo l’allontanamento forzato dei primi anni dell’indipendenza i coloni bianchi sono tornati, sotto forma di prestiti degli IFI, sotto forma di aziende e multinazionali, sotto forma di espatriati – non me ne vogliano visto che lo sono anch’io. Si sono stabiliti, hanno aperto uffici, aziende, business vari e siamo solo all’inizio perché, per chi non lo sapesse, l’Africa negli ultimi anni è una delle mete preferite dagli italiani.

Ovvio che poi tra i neri che stanno a casa loro ci sia qualcuno che si domanda: Perché il mio Paese apre le porte a tutti ma gli altri ci chiudono le porte in faccia? Perché è proprio questo quello che succede. Gli africani sono in realtà prigionieri in casa loro. Il sistema dei passaporti (che in molti casi valgono niente) e dei visti (spesso rifiutati) e la chiusura sistematica delle frontiere rende impossibile alla maggior parte di loro viaggiare in modo regolare. Essì perché quando si urla all’”immigrato clandestino”, all’”immigrazione illegale”, si dimentica che sono le leggi europee a farne un clandestino.

Leggi ingiuste, create ad hoc per controllare una parte del mondo, leggi che – se ci fosse una norma di incostituzionalità con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – sarebbero leggi illegali.  All’africano medio non è permesso viaggiare per turismo – metti che uno voglia andare a Roma a vedere il Colosseo… Macché, solo gli africani ricchi e quelli sponsorizzati possono accedere alla cultura.

All’africano medio non è consentito guardare al resto del mondo come un luogo “normale” ma solo come una terra promessa, un luogo magico dove tutto diventerà possibile. Ma sappiate che comunque non tutti gli africani medi stanno lì a sognare l’America e, pensa un po’, c’è anche chi sa bene che l’Europa non è una cuccagna, ma… ci si prova, finché si ha la forza, la speranza, finché si ha un sogno. Finché la parola giustizia ha un senso. Perché questo termine, giustizia, non può essere spiegato. Non è un termine giuridico. Viene da dentro e anche chi non è mai andato a scuola, non ha mai letto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo o non sa cosa sia il diritto ne percepisce il senso, ne conosce profondamente il significato. La giustizia, il senso del giusto, quella sì che non ha colore.

Nadine Gordimer era una bianca, una bianca sudafricana, ha scritto tra le pagine di impegno civile più belle che abbia letto. E non si limitava a scrivere, marciava. Marciava con i neri e per i neri, e certo non ne avrebbe avuto bisogno. I diritti civili erano tutti dalla sua parte. Ma lei marciava con gli altri, i neri, e scriveva. Contro l’apartheid, contro la discriminazione razziale. Contro una legge disumana. Raccontando cosa accadeva. Questo è un esempio reale in cui il nero e il bianco davvero si fondono, si fondono in una parola: giustizia.

Ma per applicare la giustizia, per sentirla dentro come valore morale assoluto oggi che sembriamo vivere e agire in stato confusionale abbiamo bisogno di agganci, di supporti forti e sicuri. Uno di questi è la conoscenza. “Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza è l’illusione della conoscenza” – Stephen Hawking. Con questo torniamo al lungo preambolo di apertura. L’arroganza di sapere impedisce di studiare, di approfondire, di leggere, e quindi di capire. “Siamo condannati a vivere non solo con quello che abbiamo prodotto ma anche con quello che abbiamo ereditato”, scrive Achille Mbembe, uno dei più lucidi intellettuali contemporanei.

Il passato non è affatto archiviato, per due semplici motivi. Il primo è che il passato è tuttora presente, faccio solo un esempio: 14 Stati africani sono ancora obbligati a utilizzare la moneta francese con conseguenze che hanno a che fare con la sovranità politica ed economica del Paese e con la – reale – percezione di essere rimasti sotto il controllo coloniale. Il secondo è che solo il passato può spiegare le dinamiche e i rapporti di forza tra Europa e Africa oggi. Ritorno a Mbembe: “Non si può fare come se la schiavitù e la colonizzazione non fossero esistiti o come se le eredità di queste tristi epoche fossero state totalmente superate. Per fare un esempio, la trasformazione dell’Europa in ‘Fortezza’ e le leggi anti-straniero di cui si è dotato il Vecchio Continente all’inizio del secolo affondano le loro radici in una ideologia della selezione tra differenti specie umane, ideologia che continua a rafforzarsi, bene o male, mascherata”.

Dunque, a proposito di aiutarli a casa loro, se li lasciassimo per esempio gestire i propri affari a casa loro come noi pretendiamo per noi stessi sarebbe un primo passo verso la normalizzazione. Ma non sarà così perché ci piace la botte piena e la moglie ubriaca.  O, per dirvela a modo mio, ci piace l’Africa ma non ci piacciono gli africani. Ma questi africani, comunque la mettiate, non se ne staranno con le mani in mano aspettando le vostre decisioni. Continueranno ad essere la vostra spina nel fianco come noi lo siamo stati – o lo siamo ancora – per loro.

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