“Vogliamo il pane, ma anche le rose”: domestiche messicane in lotta

di David Lifodi

Yoloxochitl Solís ha lavorato per cinque anni, dal 2000 al 2005, come collaboratrice domestica nel quartiere di Villa Olímpica, una zona di Città del Messico abitata dalla media borghesia. La donna aveva il compito di pulire la casa di una signora di oltre 80 anni e accudirla: dal lunedì al sabato lavorava senza limiti di orario per la miseria di venti dollari al giorno. Maltrattata dalla famiglia dell’anziana, oltre ad essere stanca delle due ore per andare a tornare da dove viveva, Yoloxochitl  decise di abbandonare il lavoro.

L’esperienza successiva, sempre come collaboratrice domestica, fu addirittura peggiore: la donna si ammalò, ma la sua assenza non era tollerata dai datori di lavoro e, anche in questo caso, fu costretta ad abbandonare l’impiego per non essere più costretta ad ascoltare insulti di ogni tipo nei suoi confronti. Storie come queste, in Messico, purtroppo sono la norma. Le trabajadores del hogar sono sottoposte ad uno sfruttamento che rasenta la schiavitù, spesso lavorano per salari da fame e, non di rado, sono vittime di abusi sessuali. Finora il Messico non ha sottoscritto una legge che tuteli le lavoratrici domestiche e, come evidenzia il Sindicato Nacional de Trabajadores y Trabajadoras del Hogar (Sinactraho), non godono di alcun tipo di tutela. I dati dell’Instituto Mexicano del Seguro Social (Imss) sono allarmanti: il 96% di lavoratrici e lavoratori domestici non ha alcun diritto ad accedere ai servizi sanitari. L’Instituto Nacional de Estadística y Geografía, invece, rileva che sugli oltre due milioni di collaboratori domestici presenti in Messico, almeno un milione e novecento sono donne, gran parte delle quali indigene. Sono loro ad essere le più sfruttate, evidenzia la Confederación Latinoamericana y del Caribe de Trabajadoras del Hogar, sottolineando inoltre come la maggior parte di loro provenga dagli strati sociali più poveri della società messicana. A questo proposito, non è un caso che la maggior parte delle collaboratrici domestiche arrivi dal Chiapas, uno degli stati più poveri e sfruttati dell’intero paese: le donne lasciano la regione chiapaneca quando sono ancora giovanissime per cercare fortuna in megalopoli come Città del Messico, ma spesso finiscono per trovarsi in condizioni di schiavitù e sfruttamento, tra giornate di lavoro senza un orario definito, bassi salari, razzismo e discriminazioni di ogni tipo. Eppure, nonostante tutto, il lavoro di collaboratrice domestica spesso continua ad essere ambito dalle giovani messicane, anche se la loro situazione, solo per fare un esempio, è ben lontana da quella brasiliana. Nel paese verdeoro le trabajadores del hogar hanno garantiti la giornata di otto ore di lavoro, il riconoscimento degli straordinari e, più, in generale, tutti i diritti che spettano al resto dei lavoratori, dopo che per anni erano state considerate come persone di seconda classe. In ogni caso, la maggiore priorità del Sinactraho risiede nel far avere alle domestiche l’accesso obbligatorio al sistema di previdenza sociale, che permetterebbe loro il riconoscimento di una pensione minima garantita e migliori servizi in campo sanitario in un contesto sociale in cui il solo fatto di essere povere le trasforma automaticamente in carne da macello di cui i datori di lavoro si possono approfittare. Nella maggior parte dei casi non esiste alcun contratto scritto che regola il rapporto di lavoro tra una domestica e la famiglia per la quale lavora. Spesso le donne vengono licenziate in maniera arbitraria e senza alcun preavviso, oppure sono pagate (poco) a cadenze non regolari. Addirittura, è capitato che le domestiche siano state accusate di furti mai avvenuti, oppure spinte a farlo tramite trappole, ad esempio quella di lasciare fasci di banconote in bella vista per poi accusarle di furto e trovare così il pretesto per licenziarle. In questo contesto passa la brutta equazione “ladra perché povera”, senza che nessuno riconosca il valore sociale del loro lavoro. Soprattutto in megalopoli come Città del Messico, le disuguaglianze sociali tra le domestiche e le famiglie della classe medio alta per cui lavorano si accrescono quotidianamente. Se l’età media di una collaboratrice domestica è di 35 anni, sono molte le giovanissime che vengono assunte ancor prima dei 16 anni, l’età minima stabilita dalla legge per poter cominciare a lavorare. La situazione è così allarmante che il Consejo Nacional para Prevenir la Discriminación (Conapred) ha stilato un rapporto in cui si afferma che il 14% delle domestiche è stata picchiata o ha subito abusi sessuali, mentre il 17% di loro è stata accusata ingiustamente di furti o ha subìto un licenziamento ingiusto. Inoltre, dalle collaboratrici domestiche indigene intervistate da Conapred, è emerso che è stato vietato loro di parlare la propria lingua sul posto di lavoro: quelle che lo hanno fatto ugualmente hanno ricevuto così tanti insulti che per anni non hanno più proferito parola, inibite dal terrore: quel poco di spagnolo che sono riuscite ad apprendere è dovuto ai bimbi delle famiglie per cui lavorano. È stato grazie al parlare tutti i giorni con i piccoli che molte domestiche hanno imparato lo spagnolo basilare per capire e farsi capire.  Le trabajadores del hogar lavorano in media 11 ore al giorno, solo il 30% di loro ha le ferie pagate, ma soprattutto i datori di lavoro vietano alle donne di poter proseguire i loro studi, che spesso si fermano ai livelli più bassi.

Il Centro de Apoyo y Capacitación para Empleadas del Hogar, il primo sindacato nazionale composto e diretto dalle stesse collaboratrici domestiche, è visto come la peste da una società patriarcale e machista come quella messicana, che considera poveri e indigeni alla stregua di bestie su cui è possibile far valere tutto il loro potere. La lotta delle domestiche per un trattamento degno contro la piaga del classismo che affligge la borghesia messicana si ritrova anche nei racconti di Paco Ignacio Taibo e nella celebre lettera del subcomandante Marcos del 28 maggio 1994: “Marcos è gay a San Francisco, nero in Sudafrica… casalinga un sabato notte in una casa qualsiasi di una periferia qualsiasi di un Messico qualsiasi…”.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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