Ward-Goodway: «Lo sguardo anarchico»

recensione di Francesco Masala dell’intervista/conversazione fra Colin Ward e David Goodway

 

Eleuthera ha ripubblicato pochi mesi fa una intervista/conversazione di Colin Ward con David Goodway (al prezzo di 16 euro) con una bella prefazione di Goffedo Fofi e postfazione di Francesco Codello (nota 1)

 

Una piccola premessa

I misteri delle parole e del senso che gli si dà sono veramente strani, e siccome sono importanti, come diceva Nanni Moretti, vanno ben pesate.

Se uno ascolta sui media e vede la tv anarchia è propria una parola di cattiva fama.

Infatti secondo la Treccani uno dei significati di anarchia è “disordine, confusione, stato di un luogo dove ciascuno agisce a suo arbitrio e senza ordine o regola” (qui)

 

Invece secondo wikipedia “L’anarchia (dal greco anticoἀναρχία, ἀν, senza + ἀρχή, principio o ordine; o ἀν, senza + ἀρχός, sovrano o potere; o ἀν, senza + ἄρχω, comandare)[2][3][4] è la tipologia d’organizzazione sociale agognata dall’anarchismo, basata sull’ideale libertario di un ordine fondato sull’autonomia e la libertà degli individui, contrapposto a ogni forma di potere costituito, compreso quello statale[5]. L’anarchia, come proposta da Pierre-Joseph Proudhon, è un’organizzazione sociale che rimpiazza la proprietà (un diritto esclusivo di individui, gruppi, organizzazioni e stati) con il possesso (occupazione e uso); Proudhon rifiutò la violenza come mezzo rivoluzionario.[6]”(

(da qui)

 

Passiamo al libro Lo sguardo anarchico

Scrive la casa editrice “Con peculiare occhio anarchico Colin Ward, da oltre mezzo secolo, guarda alla società e cerca, negli interstizi e nelle pieghe lasciati liberi dalle istituzioni, le espressioni della resistenza popolare, della persistente creatività solidale, dell’uso alternativo dello spazio e delle risorse. Uso alternativo ai modelli gerarchici e burocratici, all’assistenzialismo e alla mercificazione. Uso comunitario e tendenzialmente egualitario e libertario, in cui il suo occhio vede il seme di un’anarchia reale, un’anarchia cioè che è già – per lo meno potenzialmente – nel “fare”, nelle cose che vengono fatte e nel modo in cui vengono fatte. Un “fare” che risponde non a sogni palingenetici ma a reali bisogni di abitazione, di lavoro, di gioco, consumo, trasporto.” (qui)

 

Il libro attraversa la storia e la cultura inglese a partire dalla seconda guerra mondiale, quando Colin Ward era un giovane soldato, e cominciava il suo rapporto con gli anarchici e l’anarchia.

Dopo la guerra divenne redattore di Freedom, rivista e casa editrice nella quale lavorava, tra gli altri, Maria Luisa Berneri, e riuscì a tessere rapporti importanti con i militanti della sinistra inglese, Alex Comfort e George Orwell, per esempio. Dice Colin Ward (p.86) che “gli anarchici hanno concepito l’organizzazione sociale nel suo insieme come una serie di reti interconnesse di gruppi autonomi”, alternativa ad altre forme di organizzazione basate di rapporti gerarchici.

Racconta dei suoi rapporti con l’Italia e dell’interesse per Ignazio Silone e Carlo Levi e delle influenza sul suo pensiero delle idee di Kropotkin, di Martin Buber e Alexander Herzen.

All’inizio degli anni ’60, per una decina d’anni, lavorò della redazione di una nuova rivista, Anarchy, nata come costola di Freedom, poche copie vendute ma molto influente e stimata.

Lavorò soprattutto come architetto e urbanista, ma si è interessato di mille cose, dai trasporti, all’acqua, dagli animali ai beni comuni, e a mille altre cose.

 

Un libro che racconta un’avventura intellettuale che attraversa la seconda metà del ‘900, non deluderà nessuno, promesso.

 

ps:

nella rivista Gli Asini, nel numero 90-91 si legge:

“Nel suo intervento al celebre convegno sulla “Dialettica della liberazione”, prendendo probabilmente in contropiede molti dei giovani arrabbiati, hipster e radicali che nel 1967 si erano dati appuntamento a Londra nella speranza che lui, Laing, Cooper, Marcuse, Bateson, Ginsberg e altri guru del movimento controculturale indicassero la via per la “rivoluzione”, Paul Goodman concluse il suo intervento con un inaspettato elogio delle professioni. Fare bene il proprio mestiere – di insegnante, ingegnere, assistente sociale, psicologo, medico, operatore o funzionario pubblico, artigiano o imprenditore – questa la tesi del filosofo americano, porta inevitabilmente a scontrarsi con squilibri, conflitti, oppressioni che sono sempre, anche, di matrice politica: “… quando la società funziona male, e oggi tutte le società più importanti funzionano male, essere un ‘professionista autentico’, o tentare di esserlo, è un fatto in sé stesso rivoluzionario. Esso induce immediatamente in conflitto un’istituzione, e poiché esse sono strettamente collegate l’una all’altra, il conflitto di una si tramuta in contraddizione generale”.”

 

Secondo me Colin Ward sottoscriverebbe le parole di Paul Goodman, una per una.

 

Note:

(1)Colin Ward su Arivista:

Un filosofo contro (e per)
di Colin Ward, a cura di Francesco Codello

Scomparso recentemente, il sociologo, architetto, urbanista e militante anarchico Colin Ward è stato una delle figure più interessanti e stimolanti del pensiero e della pratica libertaria. Ce ne siamo occupati spesso: questa volta ne pubblichiamo la biografia (inedita in italiano) del filosofo Martin Buber (1878-1965), massimo esponente di quell’originale filone di pensiero tra ebraismo e anarchismo

http://www.arivista.org/riviste/Arivista/366/86.htm

 

di e su Colin Ward:

http://www.arivista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=4&Itemid=33&key=Colin+Ward

 

 

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

2 commenti

  • Andrea Appetito

    Grazie per la recensione, per me interessantissima soprattutto in relazione alle mie esperienze lavorative.
    Fare bene il proprio mestiere, tentare di farlo bene, in condizioni difficili o assurde di lavoro (penso in particolare alla scuola dove organizzazione e funzionalità contano più della didattica e del cosiddetto diritto allo studio) fa venire al pettine inevitabilmente tutte le contraddizioni più o meno latenti. Le manifesta, spesso suscitando reazioni estremamente violente da parte di chi dirige gli ambienti di lavoro (a sua volta diretto dall’alto, in una organizzazione del lavoro sempre più verticistica) mettendo in luce meccanismi di potere, assurdità e oppressioni che molto spesso chi lavora, per quieto vivere per conformismo per interesse, lascia essere e agire. Salvo poi manifestare la propria “conflittualità” lontano dai luoghi del lavoro o lamentando quella opprimente e “inspiegabile” stanchezza che affligge sempre di più chi lavora.
    Insomma fare bene rende evidenti contraddizioni, apre fessure e genera movimenti sani e creativi dentro il corpo sociale del lavoro, grigio apparentemente monolitico ed eterodiretto. Il fare bene nei luoghi di lavoro come azione diretta oggi può innescare movimenti virtuosi creativi e libertari.

    Grazie ancora per gli stimoli e la preziosa recensione.

    • Francesco Masala

      Fare bene il proprio mestiere – di insegnante, ingegnere, assistente sociale, psicologo, medico, operatore o funzionario pubblico, artigiano o imprenditore – (uso le parole di Paul Goodman), in questo mondo dove i mediocri imperversano e dettano legge, è un modo per essere rivoluzionari.

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