Zaza Calzia: esplosiva, creativa e jazz dalla A alla Z

In mostra a Cagliari sino al 25 marzo

di Maria Paola Masala (*)

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Un’esplosione di gioiosa anarchia creativa: ecco che cosa è la mostra di Zaza Calzia allo Spazio (In)visibile di Cagliari, ed ecco Zaza Calzia. Con la sua zazzeretta bianca, la sua irruenza, e quegli occhi guizzanti come i collages, trasparenti come certi oli (talmente leggeri da sembrare acquarelli). «Un’infanzia infinita», li ha definiti Marinella Cosseddu, cogliendone lo sguardo pieno di attese. C’è colore, ritmo, materia, tempo in movimento, musica, in questi sedici quadri che sintetizzano, dal ’61 al 2014, il percorso dell’artista, cagliaritana di nascita, quartiere Marina, dove suo padre aveva una cartolibreria (e chissà che tutto non sia nato lì), sassarese di formazione e romana d’adozione.

È una piccola rassegna antologica di grande rigore, quella che potrà essere visitata in via Barcellona 75 sino al 25 marzo (dal giovedì alla domenica, ore 19-21). Si intitola «Dalla A alla Z», le lettere che più ricorrono nel suo nome, è curata da Anna Oggiano ed Efisio Carbone: propone l’evoluzione di questa straordinaria artista appartenuta alla generazione che negli anni Cinquanta ha sovvertito i canoni estetici in Sardegna. Allieva (e poi docente) all’Istituto d’Arte di Sassari di Filippo Figari e Mauro Manca («mi ha insegnato il gesto») e in seguito partita per la capitale, dove ha diviso fino a tre anni fa la vita col pittore Nino Dore, suo marito e padre dei due figli, scomparso a 81 anni.

Chi conta sulla sua presenza all’inaugurazione per capire qualcosa in più di quella meraviglia color indaco del 1965 costellata di segni, che forse un giapponese troverebbe sensati, resta deluso. L’autrice non ha nulla da dire neppure di quel dipinto del 1961, cupo nei colori eppure pieno di tenerezza e di speranza. Né commenta i due oli dello stesso periodo, dominati dal blu, altre vie di fuga verso la luce. «Come posso spiegare? Ognuno li vede come vuole. Io non penso mai a quello che faccio. Lavoro e basta, posso cominciare alle sei del pomeriggio e accorgermi all’improvviso che sono le due del mattino». Superfluo chiederle che cosa unisca lavori così diversi tra loro: oli e collages, pittura e carta stampata. «Tu sei sempre uguale a te stessa? No, eppure sei sempre tu. Io pure».

Già, Zaza Calzia è sempre lei, sia che dipinga le sue tele, sia che utilizzi la carta dei giornali: tanti colori insieme, ai quali le parole scritte danno vibrazione e movimento. Quanto ai significati delle parole ritagliate, «non mi interessano, io bado al segno». «Fanno pensare al free jazz» commenta Anna Oggiano nel raccontare le nove opere più recenti, un impazzimento di cerchi colorati che si rincorrono esaltandosi a vicenda, o i tre grandi collages degli anni Ottanta. Ricordano un po’ la New York descritta da Nivola ed evocano le musiche di Gershwin. Zaza Calzia oggi gioca soprattutto con la carta, ma non c’è un salto fra quello che dipingeva nel ’60 e quello che fa oggi.«Cambia il mezzo. Lei è sempre lei, sanamente anarchica. Istintiva, a tratti fauve, non ha mai ceduto alle mode e alle pressioni».

Che cosa unisce questi lavori? «La totale mancanza di drammaticità. Anche in questo quadro dai colori cupi, “il giapponese”, come lo chiamo io, perché evoca il Mu, l’infinito, c’è un accenno di color rosa che ispira una tenerezza tipicamente femminile. Zaza dipinge il buio ma poi ti fa intravedere la luce».

Calzia è un’artista che non si muove mai in linea retta, anche se il suo lavoro è rigorosamente geometrico. Così, se è vero che oggi lavora molto al collage, non disdegna di trascorrere intere serate a dipingere i tramonti di Cala Liberotto o le nuvole. Si è divertita a fare una mostra con Pastorello, a Lodine, «lui faceva alberi io tramonti», ne ha in programma un’altra questa estate, a Orosei.

Fra le opere in mostra un’installazione occupa tutta la parete centrale della galleria di Thomas Lehner: ventuno tubi di cartone rivestiti di carta stampata che – scrive Efisio Carbone nella presentazione – «sembrano precipitare in questo mondo direttamente dall’immaginazione di quest’artista». Gli “shanghai”, come li chiamano gli amici, sono stati esposti anni fa con le “Stanze” del Man Ray al Castello di San Michele, e fu proprio il Man Ray di Wanda Nazzari, nel 1997, a dedicare la prima delle sue tre mostre cagliaritane all’artista: cento piccole splendide “Lettres decoupées”.

Ora, prosegue Carbone, «questa piccola antologica pretende di indagare il progressivo rarefarsi del linguaggio informale verso segni intesi come unità estetiche, le lettere, che stabiliscono un nuovo alfabeto senza mai perdere la forza del gesto e la drammaticità del racconto.

«I tubi» spiega Zaza Calzia «me li hanno dati al supermercato vicino a casa. Sono quelli di cartone su cui si infilano le buste di plastica. Li ho rivestiti con la carta e poi li ho incollati». Quanto alle lettere ritagliate, provengono tutte dalle pagine dell’Espresso. Abbonata dagli anni Settanta, epoca del suo trasferimento a Roma, lo fa a pezzi sin dai tempi in cui era un lenzuolo. «Adesso è anche meglio, ha una carta bellissima». Fedele alla testata (meriterebbe un abbonamento ad honorem) l’ha tradita qualche anno fa per i suoi lavori sugli sguardi femminili esposti allo Spazio P di Paolo Gras, in via Napoli. Le servivano occhi di donna, ha dovuto cercarli su Gioia. Avrebbe mai potuto scegliere una rivista con un altro nome?

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(*) Articolo uscito sul quotidiano «L’unione sarda». Le due foto – bellissime è dir poco – sono di Mauro Moledda che la “bottega” ringrazia. (db)

 

 

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