L’altra faccia del lusso e della moda
di Deborah Lucchetti (ripreso da volerelaluna.it)
Non è stata una passerella né un evento glamour quello che ha recentemente riportato sulle prime pagine dei giornali nomi come Armani, Loro Piana, Valentino e Tod’s. Ma l’ennesima inchiesta della Procura di Milano che ha svelato l’altra faccia del lusso italiano: fabbriche nascoste, lavoratori pagati pochi euro l’ora, turni massacranti e condizioni degradanti. Dietro l’etichetta “Made in Italy” si nasconde un sistema di sfruttamento strutturale, dove i grandi marchi si avvalgono di fornitori e subfornitori che violano le leggi e i diritti fondamentali. Ora, mentre la magistratura fa luce su questa catena di abusi, il Parlamento rischia di fare il passo opposto.
Con il disegno di legge sulle piccole e medie imprese (Ddl Pmi), già approvato al Senato, il Governo propone una certificazione volontaria di conformità della filiera che, dietro la facciata della trasparenza, nasconde un pericoloso scudo penale per le aziende capofila, anche in caso di caporalato nella subfornitura. Una proposta che non tutela il Made in Italy, ma lo tradisce, secondo le organizzazioni firmatarie di un appello urgente ai deputati e alle deputate affinché non votino un testo che legalizza l’impunità dello sfruttamento. L’appello è stato firmato da oltre 35 realtà, tra cui organizzazioni della società, sindacati e imprese.
Le inchieste milanesi hanno mostrato che le case madri non possono dirsi estranee agli abusi nelle proprie filiere. Eppure, invece di rafforzare le responsabilità e introdurre obblighi di due diligence vincolante, il disegno di legge Pmi propone una certificazione su base volontaria, l’ennesimo bollino che rischia di diventare un paravento per comportamenti irresponsabili e un ulteriore onere burocratico per i fornitori. A maggio la Regione Lombardia ha firmato un Protocollo per la legalità nella moda, che prevede una piattaforma di filiera sviluppata dal Politecnico di Milano, ma anche in quel caso l’adesione resta volontaria. Eppure gli accordi volontari non bastano, come dimostrano le ricerche e le denunce che da almeno 20 anni le organizzazioni della società civile producono, mettendo in evidenza l’inadeguatezza di strumenti che servono principalmente a proteggere la reputazione dei brand e la loro capacità commerciale, invece di contribuire a migliorare le condizioni di lavoro nelle fabbriche, perché qualsiasi misura volontaria, che non sposta l’onere di controllo e prevenzione, e i relativi costi, in capo ai committenti stessi (due diligence) è destinata ad avere impatti molto limitati. Ciò che occorre all’industria della moda per intraprendere una giusta transizione verso la sostenibilità ecologica e sociale è l’introduzione di un obbligo di trasparenza e responsabilità in capo alle imprese committenti, quelle che hanno il potere di cambiare le cose perché dettano le condizioni commerciali nelle filiere globali.
Le organizzazioni promotrici dell’appello chiedono al Parlamento di eliminare lo scudo penale dal disegno di legge Pmi perché il vero Made in Italy non nasce dallo sfruttamento, ma dal lavoro dignitoso. Per dare l’opportunità anche alle persone di fare sentire il proprio dissenso è stata lanciata una petizione pubblica, già sostenuta da oltre 50 personalità provenienti dal mondo accademico, legale, dell’anticorruzione, della tutela dei migranti, legato alla divulgazione e alla moda etica, della musica e del teatro, a testimonianza del consenso plurale espresso dalla società civile all’abolizione dello scudo penale nella moda. È arrivato il momento di trasformare la moda italiana in un settore giusto e compatibile con i limiti del Pianeta, che promuova sviluppo e benessere per tutti gli attori coinvolti.
Per firmare la petizione: https://actionnetwork.org/petitions/no-caporalato-made-in-italy?source=direct_link&
https://volerelaluna.it/societa/2025/12/02/laltra-faccia-del-lusso-e-della-moda/

