Non si fermano le barche
apparso su «Chiedo ai sassi che nome vogliono» (*)
“Tenuto su da quella bara, quasi per tutto il corso d’un giorno e d’una notte fluttuai su di un oceano molle e funereo. Inoffensivi, i pescicani mi guizzavano accanto come se avessero un catenaccio alla bocca; i selvaggi falchi marini trascorrevano via col becco inguainato. Il secondo giorno, un veliero si avvicinò e mi raccolse, finalmente. Era la Rachele che incrociava raminga e che, tornando sui suoi passi alla ricerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano.” (Herman Melville, Moby Dick)
Ho trascorso non so quanto tempo della mia vita, soprattutto quand’ero ragazzo, fermo a non far niente, solo a guardare una bocca di porto, un orizzonte perduto, da quando il giorno scompare dietro le paure della notte, attraverso il rosso sangue dei tramonti, il grigio piombo della bufera. Ogni istante ho sperato di vedere la barca, non una precisa, una qualsiasi barca. Lì c’era il sogno del viaggio, certo, ma anche la speranza del porto salvo. Una barca che avvista terra ce l’ha fatta. E non so perché, quasi quella barca fosse mia, appena entrava nel mio fronte di vista, sapevo che avrebbe toccato terra e tiravo un sospiro di sollievo. Le barche fanno questo, partono per cercare un porto dove scaricare ciurme esauste, merci che altri aspettano.
Io non aspettavo merci dalle barche, ma c’era quel gran rigirio intorno alle bitte ed alle cime tese che pareva chiaro che c’era ansia d’attesa, forse anche il senso di liberazione nel rivedere quel guscio di noce che aveva scampato la bufera, la mano inconsulta e vigliacca dell’uomo che prova ad affondarla, un tradimento del principio di Archimede. E i porti a questo servono, a far attraccare le barche. Non si respingono le barche indietro, si crea un precedente, si perde il senso del porto salvo, si perde il senso dell’attesa, la speranza dell’attracco, per chi arriva, per chi attende. Non c’è porto dove non si racconta che arrivò la nave giusta, col carico preciso che salvava le anime derelitte di chi s’era messo in attesa del miracolo. Per questo le barche che partono devono arrivare, chi le ferma non capisce molto d’umani desideri di vita, di viaggio, di partenze, di speranze. Una volta che andavo al porto, passai davanti alla casa dove nacque mia madre, che aveva questo nome di Via Capodieci. Da bambino non mi spiegavo come fosse che avessero dedicato una strada a quel pittore scalcinato che in cambio d’un quadro si metteva a chiedere un piatto di pasta. Più in là seppi che invece si trattava d’un tale che raccontava della storia della città, tra Sette e Ottocento. Poi, a casa d’una zia, trovai un libro con una storia che egli scrisse: «Occorre in quest’anno (1763) una grande carestia sino al 9 gennaio, in cui suole esporsi il Simulacro di S. Lucia, per la commemorazione del terremoto del 1693. Nel farsi al solito la predica, esce di bocca al predicatore che S. Lucia poteva provvedere al suo popolo col mandare qualche bastimento carico di grano. In effetti, il giorno dopo, arriva dall’Oriente nel porto una nave carica di frumento e sul tardi un bastimento, che era stato noleggiato dal Senato; poscia un vascello raguseo, seguito ancora da altri tre, sicché Siracusa, con tale abbondanza che appare a tutti miracolosa, può provvedere molte altre città e terre di Sicilia. Il padrone di una delle dette navi dichiarò che non aveva intenzione di entrare in questo porto, ma vi fu obbligato dai venti e seppe che era in Siracusa dopo aver gettato l’ancora; aggiungendo che, appena entrato in porto, si era guarito di una malattia agli occhi che lo tormentava da qualche tempo». (Giuseppe Capodieci)
Non si fermano le navi, possono trasportare cose giuste, anche solo idee che servono.
(*) ripreso da chiedoaisassichenomevogliono.wordpress.com dove potete ascoltarlo guardando immagini molto belle e ascoltando buon jazz. Alla redazione della “bottega” risuta faciile credere che questa storia ci parli anche d’altro: di noi e della Flottilla in viaggio verso Gaza, di noi e delle barche di migranti che ogni giorno affrontano acque, maree, venti ma soprattutto sfidano governi e un’ingiusta divisione del mondo.