CPR: una confessione di chi ci lavorava

ripreso dalla newsletter di «NO CPR»

«CONOSCEVO LA REALTA’, PENSAVO DI CAMBIARLA» CONFESSIONI DI UN EX OPERATORE DI CPR
Non sono molte le volte in cui ci è capitato di entrare in contatto con qualcun* che al CPR ci avesse lavorato.

Ogni volta l’incontro è stato molto emozionante; le parole, dopo le prime esitazioni, scorrevano a fiumi. E abbiamo ritrovato sempre lo stesso rammarico di aver creduto di poter cambiare qualcosa in un luogo invece poi confermatosi come irreversibilmente concepito per schiacciare tutto e tutti, con il quale si è finiti per diventare complici e insieme sue vittime.

Fino alla rottura di qualcosa, fino al raggiungimento del limite psichicamente sopportabile da una coscienza umana. Per chi ce l’ha.

Quasi tutt* loro ci hanno riferito di aver dovuto far ricorso ad un aiuto psicologico, alcun* a distanza di anni, perseguitat* dagli incubi ne hanno ancora bisogno.

L’altra sera, su instagram, ci è arrivato un altro «sono venuto via, ho deciso che voglio parlare».

Ed eccoci qui, ancora una volta, con un lucido spaccato di questa realtà, ma vista da un’angolazione diversa.

E anche da qui, è spietata.

Sta per iniziare il mio turno…un altro giorno al Cpr, sono stanco e so che uscirò ancora più stanco…non tanto per i turni da 12 ore, per la mancanza di luce, per il cibo scadente…so che uscirò stanco mentalmente, affranto, senza speranze…

Conoscevo la realtà quando ho deciso di accettare il lavoro, è stata una mia scelta..sarai un mediatore…amo il mio lavoro, amo poter aiutare, ho pensato “posso cambiare qualcosa”, “ posso aiutare, posso far bene”.

Poi sono entrato e ho capito. Non posso fare nulla. Non posso cambiare niente.

Le cooperative cambiano, piccole modifiche, piccole finte migliorie di qualche giorno e poi torna tutto uguale…il posto senza speranza, senza luce, senza futuro.

Quando si parla del Cpr ci si concentra sui casi di pestaggi, sulle violenze e sui soprusi, sull’illegalità, sui diritti non rispettati…ed è giusto che sia così.

Ma cosa vuol dire vivere in quel posto al netto degli episodi di cui si parla, al netto degli episodi giustamente urlati, al netto di ciò che fa notizia?

Gli utenti, chi sono gli utenti?

Sono numeri, solo numeri..nessuno conosce i loro nomi, nemmeno i lavoratori, nemmeno gli operatori, men che meno l’ufficio, la polizia.

E allora quando li chiami con il loro nome cambia l’espressione nei loro volti..cazzo mi chiamo così, cazzo lui mi ha visto…

Perché in quel posto nessuno vede nulla, ci si gira dall’altra parte e si finge di non sentire, di non ascoltare.

La realtà è quella di persone confinate in stanze, con una finestra che dà su un mondo che si può solo sognare.

Persone senza autonomia che devono chiedere di ricaricare il telefono, di accendere una sigaretta, di avere una bottiglietta di acqua rigorosamente senza tappo, di aver il loro pasto, un caffè..qualsiasi cosa.

Certo, norme antisuicidio le chiamano.

Peccato che ogni giorno qualcuno lo tenti il suicidio, nei modi più disparati, mangiando le batterie, tagliandosi con oggetti di fortuna, provando ad impiccarsi, facendo scioperi della fame.

E la soluzione qual è?

Tranquillanti, terapie, medicine.

State zitti, non parlate.

Urlate, chiedete? Vi battete per i vostri diritti?

Vi tolgono la voce.

L’unico modo per essere visti è tentare di togliersi la vita, è tagliarsi, è farsi del male.

E comunque nemmeno questo tentativo disperato funziona.

La realtà è questa…persone che stavano rientrando dal lavoro e si ritrovano in un Cpr, persone che lasciano una famiglia e si ritrovano al Cpr, persone che rimpiangono il carcere dove magari avevano anche i permessi per lavorare e si ritrovano improvvisamente senza nulla.

Vorrei l’avvocato. Vorrei parlare con la Direttrice. Vorrei l’acqua. Vorrei caricare il telefono. Vorrei parlare. Vorrei la dieta che mi spetta. Vorrei la terapia nell’orario prestabilito.

Vorrei, vorrei ma non ottengo nulla.
Non ottengo nulla, urlo, mi arrabbio, me la prendo con i compagni, alzo la voce perché è l’unico modo per essere ascoltato.

Chi non urla, chi non chiede, chi non conosce i propri diritti non ottiene nulla.
Chi urla, chi chiede, chi conosce i propri diritti non ottiene nulla.

AI lavoratori cosa si chiede?

I ragazzi non devono fare casino e quando provi a fare in modo che questo avvenga semplicemente dando loro una voce, facendo notare le cose che non vanno allora non va bene.

Quando chiedi per l’ennesima volta una ricarica per un ragazzo che aspetta da giorni…beh non è fondamentale, non è urgente.

Quando chiedi quando è l’appuntamento per un tale ragazzo chiamandolo per nome la risposta è “Chi è? Mi serve il numero”.

E comunque “Non è urgente, domani, tra 1 ora, tra 2 giorni….”

Cosa allora è urgente?

Nulla, solo numeri, nessuna urgenza, solo silenzio e urla che non vengono ascoltati.

Conoscevo la realtà, pensavo di cambiarla.

Nessuna equipe, nessuna formazione, nessun sostegno.

E allora me ne vado, me ne vado perché non reggo più, perché la notte devo dormire, perché il mio corpo e la mia mente non reggono più.

E sono fortunato perché io da operatore me ne posso andare ma i ragazzi utenti non se ne possono andare.

E io sarei potuto essere lì dentro perché che sia chiaro, è una questione di fortuna.

Non sempre di delinquenza, non sempre di chissà quale crimine.

Spesso è una questione di burocrazia.

L’ultimo giorno ci salutiamo, è un saluto sincero, commuovente, è un saluto rassegnato.

Li saluto con un nodo in gola, perché so che in un Paese giusto dovrebbero essere loro a salutarmi dall’altra parte del cancello.

Le parole di questo ragazzo sono tra le più profonde tra quelle che abbiamo mai raccolto. Sarà forse quel “sarei potuto essere io al loro posto, se la burocrazia e la fortuna fossero girate diversamente, e invece io ora vado e li lascio dietro a quelle sbarre”.

Le condividiamo sperando che aiutino a prendere consapevolezza del fatto che i CPR non possono essere sanati e che la loro chiusura passa anche dalla presa di coscienza collettiva che tale chiusura è un’urgenza; e che, per ottenerla, un primo importante passo sarebbe quello di evitare di contribuire al meccanismo perverso che li fa funzionare.

Dal personale che ci lavora in qualsiasi mansione alle dipendenze del gestore privato (medic*, psicolog*, operator*, mediator*, informator* legal*, assistent* social*), a* dottor* degli ospedali che fanno le visite di idoneità all’ingresso o che ricevono corpi martoriati al pronto soccorso e li rispediscono al mittente; a chi si presta anche solo per il catering o quant’altro; a* pilot* delle deportazioni.

Sono i granelli di sabbia che inceppano il sistema, piccoli grandi atti di coraggio – questi sì – in grado di cambiare le cose.

Grazie a chi l’ha fatto e ce l’ha raccontato perché altri lo seguano.

QUI IL NOSTRO POST

«SALUTE E DETENZIONE AMMINISTRATIVA»: LA REGISTRAZIONE

Grazie a tutt* coloro che il 19 novembre hanno dato il proprio contributo di analisi sull’ossimoro –
salute e detenzione – che aveva il ispirato il titolo della serata: un filosofo, due medici, un antropologo, una psicologa, una operatrice legale, un regista e due sindacalisti hanno denunciato la patogenicità della detenzione amministrativa e la sua pericolosa deriva manicomiale, sulla base di evidenze ormai incontrastabili, e chiamato alla mobilitazione.

Non è più il tempo di analisi fini a loro stesse, di riesumare simboli del passato dalla naftalina per riporveli subito dopo, né di limitarsi a “monitorare” una realtà che è irredimibile, marcia e corrotta, così come ai vertici si vuole ormai da 27 anni.

Inutile appellarsi alle forze politiche, dobbiamo appellarci alle nostre e subito: questi luoghi di tortura di Stato pseudolegalizzata non sono un incidente di percorso ma un vero e proprio modello di razzismo istituzionale e neocolonialismo, nel quale ora l’Italia si fregia di essere all’avanguardia, davanti ad USA e UE.

Un modello del quale tutt* noi (alcun* più di altr*: chi presta la propria attività per il loro funzionamento) siamo complici e insieme vittime.

Qui la registrazione della serata, mozza del documentario di Lorenzo Giroffi, che youtube ha respinto, probabilmente perchè troppo “violento” a causa delle immagini tratte dai nostri video (…)
https://youtu.be/ul0hFgXsgnc

Grazie, come sempre, ad Armando Piti di NexTV per la registrazione e a Maurizio Anelli per le foto.

QUI IL NOSTRO POST

 

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *