Astronomia: le donne sul pianeta Venere

Jean Batten e le altre: le storie della nomenclatura astronomica al femminile.

di Maria Teresa Messidoro (*)

Forse per un senso di colpa, forse per rimediare a una nomenclatura astronomica ancora troppo patriarcale, l’Unione astronomica internazionale ha deciso che praticamente tutte le strutture presenti su Venere abbiano un nome femminile. Ci sono solo tre eccezioni: Alpha Regio, Beta Regio e i Monti Maxwell. Le prime due sono vaste regioni del pianeta, che prendono il nome dalle prime lettere dell’alfabeto greco; i Monti Maxwell, dal matematico e fisico scozzese James Clerk Maxwell, sono un massiccio montuoso, che comprende le cime più elevate del pianeta. Per ciò che riguarda i crateri di Venere, quelli con un diametro superiore ai venti chilometri hanno il nome di donne famose, quelli con diametro inferiore sono indicati con nomi propri femminili di diverse culture.

Il cratere Dickinson su Venere, NASA

Analizzando i nomi dei 342 crateri più grandi, si nota che 109 sono dedicati a donne dedite al campo letterario, 92 rientrano nel campo artistico, 68 nel campo scientifico, 43 appartengono alla categoria che ho definito politica (regine, imperatrici, attiviste, nobildonne), 1 sola sportiva, più precisamente pattinatrice, Sonia Henje (Regine del ghiaccio: le pioniere del pattinaggio). Come nobildonna è indicata per esempio Agrippina Maggiore. Tra le letterate, ben 64 sono indicate come scrittrici. Tra le artiste, 23 pittrici, 17 attrici, 11 cantanti, 8 danzatrici; curiosamente ci sono due modelle, di cui una è Monna Lisa. Tra le scienziate, 16 sono astronome, 15 dell’ambito della medicina, 8 nel settore fisica/chimica, 5 matematiche. Sono stati dedicati 28 crateri a donne di professioni diverse, tra cui 1 allevatrice, 6 aviatrici, 1 vittima della Shoa (Anna Frank) e 2 indicate come mogli di: Saskia Von Uylenburgh, moglie di Rembrandt e Xantippe, o Santippe, moglie di Socrate. C’è anche un cratere dedicato, così dice l’elenco, a una suora: Eloisa. Invece Suor Maria Celeste è indicata come figlia di Galileo.

Il cratere Wheatley su Venere, NASA

Da un punto di vista temporale, 230 figure femminili si collocano tra il Ventesimo e il Ventunesimo secolo, 81 tra il Dodicesimo e il Diciottesimo secolo, 15 tra la nascita di Cristo e l’anno Mille, 16 sono vissute prima di Cristo. Merit Ptah è vissuta nel Venticinquesimo secolo a.C., risultando quindi la più lontana da noi (La donna nell’antico Egitto).

Cratere Isabella, il secondo da impatto più grande su Venere, NASA

Se ci soffermiamo sulla collocazione geografica, 80 sono indicate come statunitensi, 38 nate in Gran Bretagna e 37 in Unione Sovietica (viene mantenuta questa dicitura); ben 155 sono europee, di cui 21 italiane, 1 viene indicata espressamente come galiziana, 1 scozzese. Sono 94 le americane nel loro complesso (includendo le statunitensi), tra cui 7 sono indicate come native, 1 soltanto proveniente dal Messico, 4 dal Sud America. Asiatiche sono 41 (escludendo qui le donne nate negli stati appartenenti all’Unione Sovietica), di cui 15 cinesi e 8 giapponesi. Nate nel continente australiano sono 9, soltanto 6 sono invece africane, più precisamente 5 egiziane e 1 keniota. Tra l’altro, viene indicata come keniota Beryl Markham, di origine britannica; oltretutto, è catalogata come allevatrice, anche se è più famosa come scrittrice e aviatrice.

Cratere Margaret Mead, uno dei più grandi crateri ad impatto su Venere, NASA

Tante sono le storie da raccontare, collegate ai nomi dei crateri di Venere. Ho scelto a titolo esemplificativo quella di Jean Batten, neozelandese, una delle aviatrici più importanti della sua generazione: un pugno di donne che negli anni Venti e Trenta del Ventesimo secolo si lanciarono alla ventura, gareggiando tra loro e con gli uomini per dimostrare ciò che si può compiere con un aereo, raggiungendo fama e ricchezza.

Jean Batten, New Zeland History

E Jean fu secondo molti la migliore. Era molto meticolosa nella preparazione delle traversate, consapevole delle difficoltà e dei rischi a cui andava incontro. La tecnologia non era quella di oggi, gli aerei erano molto fragili, poco preparati ad affrontare condizioni metereologiche inclementi, gli strumenti di navigazione spesso erano costituiti soltanto da una bussola, abitualmente viaggiavano senza una radio, troppo pesante e a volte inutilizzabile; si usavano allora mappe geografiche che si riferivano soprattutto al suolo terrestre, imprecise quando ci si allontanava dai paesi più industrializzati e quindi poco adatte ai voli. Chi affrontava le alte quote  rischiava la vita, molti effettivamente la persero. L’idea di volare nacque in Jean su spinta di suo padre, convinto che lei fosse predestinata a compiere gesta immortali; ma soprattutto fu sua madre colei che la educò per trionfare sempre e comunque, senza rinunciare a nessun espediente per ottenere i propri successi. Alcuni biografi di Jean descrivono sua madre come una donna manipolatrice, spinta a convertire la figlia in una estensione della propria volontà, trasformando la ragazza in una persona egocentrica ed egoista, incapace di qualsiasi empatia, soltanto con alcune rare eccezioni. I tre uomini che aiutarono Jean nel raggiungere i propri scopi, Fred Truman, Victor Doré e Edward Walter, donandole ingenti quantità di denaro, furono soppiantati l’uno dal successivo una volta ottenuti i risultati sperati, senza ottenere niente in cambio né sul piano affettivo né tantomeno su quello economico. Secondo altri studiosi, Jean non fu esattamente così e il rapporto con sua madre fu in realtà come una profonda amicizia, indelebile e fondamentale nelle sue scelte personali e professionali. Probabilmente si innamorò soltanto una volta, del pilota australiano Beverly Sheperd: quando lui morì in un volo commerciale, lei cadde in depressione, isolandosi per sette mesi dal mondo; quando riprese l’attività, il suo cuore era ancora più indurito, forse incapace di soffrire per amore. La sua prima grande impresa fu nel 1934 la traversata fino in Australia a bordo di una delle Hawilland Gipsy Moth, impresa che le permise di ottenere sostegni economici da parte di grandi imprese commerciali e di persone influenti; la stampa la ricercava continuamente per esclusive giornalistiche, le grandi marche la rincorrevano per spot pubblicitari; si trasformò in una diva, la Garbo del cielo.

Jean Batten, Remuera Heritage Society

Il successo divenne per lei una droga, a cui non voleva né sapeva rinunciare. Poi venne la guerra, e con essa la fine dell’era dorata dell’aviazione e dei grandi record. Alcune aviatrici riuscirono a mettere le proprie abilità al servizio di organizzazioni di retroguardia, come la Ata in Gran Bretagna, il Wasp negli Stati Uniti o la Escuadrilla Blanca in Romania. Jean non fu accettata dall’Ata forse perché troppo famosa (ma fu ammessa Any Johnson, la sua eterna rivale), molto più probabilmente perché ritenuta troppo capricciosa, incapace di accettare ordini o di lavorare in equipe. E così si isolò con sua madre per circa trent’anni: quando sua madre morì, negli anni Settanta, cercò di tornare in società: ma la sua fama era evaporata, considerata soltanto dai super affezionati all’aviazione. Per il grande pubblico non rappresentava più niente; Jean non poteva accettarlo, lei abituata a un ruolo di prima donna, da diva. Si isolò nuovamente e definitivamente, fino alla sua morte, avvenuta in Spagna nel 1982, in seguito alla morsicatura di un cane, quando lei stessa rifiutò le cure mediche. L’ultimo atto del dramma fu che a Palma di Maiorca, dove morì, i giudici decisero di inviare una notifica della sua morte all’ambasciata neozelandese a Madrid, ignorando che non esisteva nessuna ambasciata della Nuova Zelanda in Spagna. Quella lettera rimase probabilmente dimenticata o addirittura distrutta e così, non avendo ricevuto nessuna risposta, le autorità spagnole diedero ordine di seppellirla in una fosse comune, come qualsiasi persona indigente senza famiglia. D’altra parte i suoi parenti in Nuova Zelanda non ricevevano sue notizie da tempo, né si preoccuparono di cercarla; quindi la sua morte cadde nell’oblio, fino a quando, alla fine degli anni Ottanta, il giornalista neozelandese Jan Mckersey scoprì finalmente l’ultima dimora di Jean: nel suo Paese d’origine ci fu una ondata di indignazione di fronte al silenzio che aveva circondato per così tanti anni la figura di una donna che doveva invece essere riconosciuta come eroina nazionale. Per rimediare almeno parzialmente al torto subito dall’aviatrice, si decise di porre il suo nome al terminal internazionale dell’aeroporto di Auckland, di acquistare e quindi installare nello stesso aeroporto l’aereo Percival Gull con cui lei aveva volato verso il Brasile, di erigere un monumento funerario per lei nel cimitero di Palma di Maiorca. Nel patrimonio Archivio luce di Cinecittà, fortunatamente, è ancora possibile vedere un filmato in bianco nero sulla traversata che Jean Batten compì in otto ore dalla Contea di Kent fino al Sud Africa, prima di sorvolare il Mare di Tasmania e dirigersi verso la Nuova Zelanda. In un articolo intitolato El valor extremo de Jean Batten puede servir de inspiración y ejemplo para todos, apparso sul sito del sindacato spagnolo dei piloti Sepla, Dario Pozo, scrittore e amministratore gerente della Fundación Infante de Orleans, sostiene che «Recuperare la memoria di Jean è importante perché, nonostante i suoi gravi difetti come persona, ottenne risultati incredibili, superando perfino alcuni dei suoi colleghi maschi, contribuendo proprio come il migliore di loro a sviluppare l’aviazione in quegli anni in cui molto rimaneva da raggiungere in quel campo».
Mi piace pensare che proprio il cratere su Venere a lei dedicato, con un diametro di sessantacinque chilometri, possa rappresentare un ultimo regalo di immortalità a chi ha voluto sfidare i cieli.

(*) Link all’articolo originale: https://vitaminevaganti.com/2025/04/12/le-donne-sul-pianeta-venere/ E’ il primo articolo di una piccola serie perciò ci vediamo fra qualche giorno.

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