Carceri più capienti? No, arrestiamo meno
Meloni e il piano carceri 2025-27, il taser, la morte di Igor Squeo, la mancata democratizzazione della Polizia.
di Marcello Pesarini (*)
In pieno agosto la Presidente del Consiglio promuoveva alcuni provvedimenti governativi affermando “che in passato si adeguavano i reati al numero dei posti nelle carceri. Viceversa, uno Stato giusto ha il compito di adeguare la capienza delle carceri al numero di persone che devono scontare una pena”. Conseguentemente, la Prima ministra dichiara che così avremo finalmente la certezza della pena, inserendo fisicamente moduli abitativo-detentivi simili a quelli che si stanno sperimentando nei CPR in Albania negli istituti attuali. Il Piano carceri per il triennio 2025-2027 prevede la creazione di circa 10.000 nuovi posti letto in strutture carcerarie, intervenendo su circa 60 istituti con manutenzioni, ristrutturazioni e costruzione di nuovi moduli, per un investimento di oltre 750 milioni di euro, con l’obiettivo di ridurre il sovraffollamento e migliorare le condizioni di detenzione. Parallelamente, si punta anche a colmare il deficit di personale della Polizia Penitenziaria, partendo da 1.000 agenti in più.
Nessun riferimento al recupero durante la pena.
Allarghiamo lo sguardo sulla logica di creazione dell’immagine di criminalità che ci assedia, straniera e giovanile oppure legata alla diffusione delle droghe. Oggi addossiamo la colpa al governo di destra, ma per quanti anni il centrosinistra ha cercato di inseguire un’opinione pubblica assediata dai “mostri” di cui sopra, invece di rialzare le coscienze?
Le scelte attuali assegnano ai settori “marginali”, “reietti” un posto di prim’ordine nella costruzione dell’ideologia della paura, l’altra faccia dello sgretolamento della solidarietà e del senso di comunità.
I provvedimenti come il decreto Caivano che si voleva occupare della descolarizzazione e del degrado giovanile ha per ora prodotto un incremento di presenze del 48% negli istituti penitenziari minorili, e non è molto utile l’istituzione del reato di “femminicidio” in presenza di riduzione dei finanziamenti dei centri antiviolenza e dei consultori.
Venti anni fa, il 25 settembre 2005, fra le 5 e le 6 del mattino, su segnalazione di cittadini che avevano udito schiamazzi, Federico Aldrovandi di 18 anni, al ritorno da una discoteca di Bologna, veniva ucciso a Ferrara nei pressi di Via Ippodromo, dopo l’intervento di due successive gazzelle della Polizia.
Sulla violenza gratuita dei 4 poliziotti, sulla morte per “asfissia da posizione”, sui due manganelli spezzati, sulle foto del viso tumefatto che tanto ricorda quello di Stefano Cucchi (ucciso il 22 ottobre 2009 mentre era in custodia cautelare) si è scritto, detto, rappresentato rispettivamente nei film E’ stato morto un ragazzo e Sulla mia pelle.
Se da una parte vanno lodate la caparbietà e il coraggio dei familiari, in primis Patrizia Moretti madre di Federico e Ilaria Cucchi sorella di Stefano e poi dei loro legali, nel muoversi contro l’indifferenza o la possibile contrarietà dell’opinione pubblica, dall’altra penso non sia mai stata valutata come gravissima la ferita che viene continuamente inferta nei confronti della rispettabilità e salute delle istituzioni italiane. Sembra che le condanne comminate ai quattro agenti di Ferrara, poi reintegrati come dipendenti dello Stato, e ai carabinieri di Roma, nonché ai condannati per depistaggio, non abbiano causato nessuna riflessione nei corpi dello Stato.
L’abitudine consolidata di intervenire in maniera premeditata, come a evitare di affrontare i comportamenti che possano turbare il quieto vivere mettendo a tacere i soggetti, si è rafforzata ad esempio nel 2022 con l’introduzione della pistola a impulsi elettrici (taser) che anche recentemente ha visto morire Giampaolo De Martis, Elton Bani e Claudio Citro.
Cosa avevano fatto i soggetti colpiti da taser? Erano in evidente stato di agitazione, infastidivano i passanti, aggredivano persone. Invece di chiedere rinforzi, o di creare un cordone sanitario attorno a queste persone, le forze dell’ordine hanno tentato di bloccarli usando una pistola che è garantita pur con evidenti limiti dalla ditta produttrice Axon. Amnesty International Italia ha affermato al proposito: “La conseguenza più grave che vediamo nel lungo termine è che le taser vengano usate come arma di routine per far rispettare la legge in assenza di una minaccia di lesioni gravi o morte, dunque in modo non conforme agli standard”1.
Citando Vito Totire, medico del lavoro/psichiatra-portavoce del Centro studi “Francesco Lorusso” la pistola taser viene usata frequentemente proprio “sulle” persone che potrebbero più probabilmente manifestare gravi effetti collaterali, come peraltro sostiene un cardiologo del Policlinico Gemelli (Perna) in un’intervista all’agenzia La Presse. Il dottor Totire, oltre a una moratoria sul suo uso, propone una formazione diversa delle forze dell’ordine tesa ad affrontare le persone nell’ottica del miglior rispetto e del miglior risultato sicuro, dove la sicurezza è intesa come collettiva e non come annullamento a caso di vite.
L’escalation nell’utilizzo di soluzioni estreme, dai trattamenti sanitari obbligatori non autorizzati, si è passati agli episodi di soffocamento spesso noti come “mossa Floyd”, la cui similitudine con l’assassinio di Aldrovandi è evidente.
Mettiamo in evidenza, con la ferma intenzione di tornarci al più presto, la triste vicenda di Igor Squeo, morto il 12 giugno 2022. Leggiamo dall’interrogazione dell’on. Marco Grimaldi, AVS: “da quanto si apprende da alcuni articoli di giornale, all’una di notte il coinquilino di Squeo chiama la polizia preoccupato per lo stato di agitazione in cui versa l’uomo. Gli agenti, dopo averlo ammanettato, lo avrebbero messo in posizione laterale di sicurezza. Circostanza però smentita dagli operatori sanitari che, intervenuti in un secondo momento, avrebbero affermato di essersi trovati di fronte a un uomo ammanettato, in posizione prona, tenuto fermo da un agente che gli comprimeva il torace sul pavimento; nonostante una crisi respiratoria in atto, a Squeo viene somministrato un Propofol, un sedativo utilizzato in anestesia generale, dopo due minuti l’uomo va in arresto cardiaco e muore alle 6:45; sempre da organi di stampa si apprende che il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione in base agli esiti della consulenza secondo cui l’uomo sarebbe morto per l’assunzione di cocaina. Il Gip, però, ha rigettato la richiesta e disposto nuove indagini ritenendo necessario approfondire le cause della morte; risulta all’interrogante, infatti, che dalla memoria depositata dalla legale della famiglia Squeo emergano varie discrepanze su orari e trattamenti di quella notte”.
La vicenda giudiziaria è ancora in corso, grazie all’impegno della madre Franca Pisano e dell’avvocata Ilaria Urzini, e la nostra speranza è che siano chiarite circostanze e responsabilità, ma la domanda è sempre la stessa: a cosa hanno giovato le lotte per la democratizzazione del corpo di Polizia iniziate negli anni ’70, le giuste richieste degli agenti stessi di svolgere un lavoro utile alla società, non in una inutile prima linea senza fine?
Relegare la civica convivenza a un affare di barriere da imporre senza spiegazione, e di armi di sola difesa delle forze dell’ordine e offesa verso i cittadini, è una scelta perdente in partenza per la giustizia.
Una scelta votata solo ad inasprire il clima di un paese nel quale la crisi sociale e i livelli di povertà e disoccupazione sono in crescita, e vengono ridotte continuamente le politiche attive di ricostruzione di tessuto sociale.
(*) ripreso da https://transform-italia.it/non-facciamole-piu-capienti-arrestiamo-meno/