Askatasuna bene comune
di Sergio Sinigaglia
Quando si parla di centri sociali, mi tornano sempre in mente, le parole che molti anni fa, nel periodo d’oro del movimento ambientalista, mi disse un funzionario della Digos di Ancona che conoscevo da molti anni. “Sono un presidio di democrazia”. Un’affermazione che ritengo essere una perfetta sintesi degli spazi autogestiti.
Anche Askatasuna – sgomberato con un’operazione alla cilena, o se preferite all’italiana – è sinonimo di democrazia, punto di riferimento imprescindibile per chi, in passato come oggi, non si arrende alla cappa oppressiva che sempre più grava sule nostre vite. A un contesto in cui quotidianamente la violenza del potere si esercita in mille modi, nei posti di lavoro dove si muore ogni giorno, in cui si galleggia nella precarietà e nello sfruttamento, nei quartieri militarizzati dove il diritto alla casa è strutturalmente negato, nei centri per migranti, nelle scuole e nelle università che si vorrebbero piegare completamene a una didattica di regime degna di tempi che si pensava lontani. E nelle pieghe di un vissuto quotidiano con i giovani, ormai minoranza, i quali sfogano contro i coetanei frustrazione, rabbia, isolamento, dando vita ad una specie di strisciante “guerra civile” tra adolescenti.
Per non parlare di un’altra guerra, quella di genere, come attestano drammaticamente le cronache.
In questo scenario sicuramente lugubre, i centri sociali cercano con enormi difficoltà, facendo i conti con mille nemici, di continuare ad essere appunto “presidi di democrazia”… una democrazia sociale, praticata fuori dalle istituzioni, dai presunti partiti, se così si possono chiamare le consorterie protagoniste della politica ufficiale.
Una democrazia che fa da argine alla deriva del mondo che ci circonda.
Si plaude allo sgombero a Torino di Askatasuna, dalle file fasciste dell’attuale governo sino agli indegni esponenti del “centrosinistra”, i quali vigliaccamente si guardano bene dal condannare esplicitamente la chiusura del centro sociale (anzi c’è chi lo approva) e al massimo balbettano “anche Casa Pound”, riesumando la sempre verde teoria degli “opposti estremismi. Chi plaude vada a parlare con la gente del quartiere torinese dove da anni Askatasuna attua pratiche di welfare dal basso; vada a parlare con la moltitudine che dall’inizio degli anni Novanta si oppone in Val di Susa d un’opera inutile e disastrosa per il territorio; vada a parlare con le migliaia di persone che in trent’anni si sono formate in uno spazio che è stato scuola, luogo di formazione politica e culturale per generazioni di giovani.
Alla ricorrente ipocrita litania sulla “violenza”, va rivendicato il diritto al conflitto linfa vitale di una vera democrazia. E pensassero alla loro di violenza, quella vera, a partire dalla criminale corsa al riarmo che sta caratterizzando le politiche della maggior parte dei governi dell’Unione Europea, dal criminale sostegno al genocidio palestinese, dalla strage perpetrata in mare nei confronti dei migranti.
L’Askatasuna è un bene comune, come tutti i centri sociali, gli spazi autogestiti, i movimenti che lottano contro questo sistema. A loro va il nostro appoggio incondizionato.


Una riflessione su conflitto e democrazia partecipata da una fonte apparentemente lontana da questo blog: Sara Zambotti su Avvenire.
“Preferiamo spesso cambiare noi stessi per non soffrire troppo nell’interazione con il mondo fuori. Invece di provare a cambiare le regole che ci fanno soffrire”
Quanta paura di protestare (manco fosse un reato):
https://www.avvenire.it/rubriche/di-elefanti-e-topolini/quanta-paura-di-protestare-manco-fosse-un-reato_102216