Campania: il successo, la speranza e il convitato di pietra

di Mario Sommella (*)

Campania, il giorno dopo:

perché questa vittoria pesa molto più di un cambio di presidente

In Campania non è cambiato solo il nome sul portone di Palazzo Santa Lucia. È cambiato il baricentro politico di un intero pezzo d’Italia, e forse si è incrinata per la prima volta la narrazione dell’“invincibilità” del governo in carica.

I numeri parlano chiaro: il candidato del campo progressista, Roberto Fico, vince con un margine di circa venticinque punti sul rappresentante del centrodestra, attestato intorno al 35 per cento, mentre la coalizione che lo sostiene supera abbondantemente la soglia della semplice “tenuta” e il principale partito del centrosinistra torna ad essere il primo in regione. L’affluenza, invece, crolla poco sopra il 44 per cento.

Dentro questa fotografia ci sono due notizie: una buona e una molto preoccupante. La prima è che la destra ha perso lì dove aveva investito di più. La seconda è che quasi un campano su due ha scelto di non partecipare al voto.

Provo a mettere in fila alcune considerazioni, da militante di sinistra che vede nel Mezzogiorno non una periferia assistita, ma il luogo dove può nascere una risposta politica diversa all’ordine neoliberale che ci sta logorando.

La destra alla prova del Sud: quando la propaganda non basta

La sfida campana non è stata una regionale qualsiasi. Palazzo Chigi l’aveva caricata di un valore simbolico enorme: conquistare la “capitale del Sud” significava dimostrare che il blocco di potere costruito attorno alla premier era capace di penetrare anche nel cuore della storica questione meridionale. Per questo si è scelto un viceministro in carica come candidato, per questo ministri e leader nazionali hanno fatto campagna per settimane, sbandierando il cosiddetto “modello Caivano” come vetrina di efficienza, ordine e sicurezza.

La risposta è stata secca: no.

Il Mezzogiorno non è un fondale per conferenze stampa e passerelle mediatiche. È un luogo in cui, se tu firmi a Roma una legge che istituzionalizza l’autonomia differenziata, e pochi giorni prima del voto sottoscrivi pre-intese con Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria per trasferire nuove competenze alle regioni più ricche, è difficile che qualcuno al Sud ti creda quando parli di “unità nazionale” e “pari diritti”.

La contraddizione è lampante: mentre si chiedeva fiducia agli elettori campani, il ministro competente firmava accordi preliminari che mettono le basi per un ulteriore squilibrio su sanità, protezione civile, professioni e previdenza complementare, aprendo una nuova fase verso il federalismo fiscale di fatto.

Insomma, si veniva a chiedere consenso a chi sarà chiamato a pagare il conto di un processo che rischia di cristallizzare il divario Nord-Sud, come riconosciuto da molti osservatori e perfino da rilievi critici arrivati dalle istituzioni europee.

Non è stato un errore di comunicazione, è stato un errore politico. Perché puoi anche raddoppiare i voti rispetto alle scorse regionali, come rivendica il candidato sconfitto, ma se nel frattempo il progetto nazionale che rappresenti viene percepito come ostile ai diritti dei cittadini meridionali, il conto prima o poi lo paghi.

Il campo progressista quando la smette di litigare può vincere

Il secondo elemento politico, per chi guarda da sinistra, è che quando le forze progressiste smettono di farsi la guerra e costruiscono una coalizione larga su basi programmatiche, la destra non è affatto imbattibile.

In Campania il cosiddetto “campo largo” non è stato un semplice cartello elettorale: ha unito forze diverse – sinistra di governo, Movimento che ha governato il Paese, ecologisti, socialisti, pezzi importanti del mondo civico – intorno ad alcune parole chiave: difesa della sanità pubblica, lavoro, lotta alle disuguaglianze e contrasto frontale all’autonomia differenziata.

Questa convergenza non cancellava le differenze, ma indicava una direzione: o si sta dalla parte di chi vuole spezzare il Paese in regioni di serie A e serie B, oppure si difende l’idea di una Repubblica che deve garantire gli stessi diritti fondamentali – a partire da scuola e salute – da Bolzano a Lampedusa. Il resto viene dopo.

Da tempo sostengo che l’unità non è un valore astratto, ma un metodo: ci si unisce se c’è un progetto riconoscibile, non per salvare carriere politiche o seggi. In Campania questo progetto è stato percepito, tanto è vero che il racconto della “accozzaglia” messa insieme solo per fermare la destra non ha attecchito. Chi è andato a votare ha visto una coalizione in cui si parlava di ospedali, trasporti, lavoro giovanile, ambiente, non solo di equilibri di palazzo.

La fine dell’era dei “sindaci sceriffi” e l’apertura di una fase nuova

Questa vittoria segna anche la chiusura di una stagione politica che per anni ha dominato la scena campana: quella dei presidenti-uomini solo al comando, abili comunicatori che trasformavano ogni conferenza stampa in un talk show permanente, costruendo consenso sul carisma personale più che sulla partecipazione democratica.

Roberto Fico eredita un sistema di potere stratificato, fatto di reti di fedeltà, correnti, amministratori locali rimasti per lungo tempo agganciati a un centro politico ben preciso. In campagna elettorale, ciò che ha fatto la differenza non è stata la rottura urlata, ma una promessa di discontinuità nei metodi: toni più bassi, decisioni più collegiali, valorizzazione delle competenze al posto del culto della fedeltà.

Questo punto è decisivo. Se la nuova giunta saprà circondarsi di donne e uomini con competenze reali – in sanità, ambiente, pianificazione territoriale, politiche sociali – e contemporaneamente aprirà varchi alla partecipazione dei territori, allora la “fase nuova” non resterà uno slogan. Altrimenti la regione rischierà di scivolare in una semplice sostituzione di ceti dirigenti, con le stesse dinamiche di prima.

Napoli come motore: l’asse tra città e Regione

Dentro questa storia c’è un altro elemento: il ruolo di Napoli, che negli ultimi anni ha lavorato – pur tra contraddizioni e conflitti – a costruire un quadro politico più largo, unendo forze che per lungo tempo si erano guardate in cagnesco.

Con l’elezione di Roberto Fico si apre la possibilità di un asse virtuoso tra la città e la Regione Campania. Non è un dettaglio tecnico: significa poter concentrare risorse e scelte politiche su alcune priorità concrete.

Per fare solo qualche esempio:

trasporto pubblico e mobilità sostenibile, in una metropoli che vive ogni giorno il caos di collegamenti insufficienti; riqualificazione delle periferie e delle aree interne, spesso tagliate fuori dai grandi flussi di investimento; politiche culturali e turistiche che non riducano Napoli a parco tematico per weekend low cost, ma valorizzino il tessuto sociale, il lavoro, il diritto all’abitare.

Se questo asse funziona, la Campania può diventare un laboratorio di buon governo meridionale, capace di parlare al resto del Paese con la forza dei fatti: ospedali che tornano a funzionare, tempi di attesa che calano, trasporti che migliorano, politiche giovanili che non si limitano a finanziare start-up di facciata.

L’autonomia differenziata come spartiacque politico e morale

Sul fondo di questa partita c’è una linea di frattura netta. L’autonomia differenziata non è solo un tema tecnico, è uno spartiacque politico e morale.

La legge che l’ha resa possibile, votata dal Parlamento nel 2024, è stata esaltata dalla Lega come coronamento di una lunga battaglia e accolta con entusiasmo da alcuni governatori del Nord. Ma fin da subito ha sollevato critiche durissime da parte di molti amministratori meridionali, di giuristi, di economisti, fino ad arrivare a osservazioni critiche da parte delle istituzioni europee per i rischi sulla coesione e sulla tenuta dei conti pubblici.

Nel giro di pochi giorni, alla vigilia del voto, il ministro competente ha sottoscritto quattro pre-intese con Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria, aprendo la strada al trasferimento di nuove funzioni, incluse materie che toccano la sanità e il coordinamento della finanza pubblica in ambito sanitario.

Tradotto: mentre al Sud si fanno i conti con ospedali che chiudono reparti, personale ridotto all’osso e mobilità sanitaria che spinge i cittadini a curarsi altrove, si avvia un percorso che può rafforzare la capacità delle regioni più ricche di trattenere risorse, in un gioco a somma zero sulle spalle dei territori più fragili.

Era inevitabile che questo tema entrasse nel giudizio politico degli elettori campani. E infatti la campagna progressista ha insistito su un concetto semplice: non c’è “modernizzazione” se si spezza l’uguaglianza dei diritti. Non è riformismo, è secessione dei ricchi mascherata.

Per chi, come me, viene da una tradizione di sinistra, questo è un punto non negoziabile. L’unità della Repubblica non è un feticcio patriottico, ma la condizione minima per rendere effettivi gli articoli della Costituzione che parlano di uguaglianza sostanziale, di diritto alla salute, di rimozione degli ostacoli economici e sociali che limitano la libertà e la dignità delle persone.

La grande ombra dell’astensionismo

C’è però un convitato di pietra che non possiamo ignorare: l’astensione.

In Campania ha votato poco più di quattro elettori su dieci, con un calo significativo rispetto alla tornata precedente. Questo dato è in linea con quanto avvenuto anche in Puglia e Veneto ed è talmente alto da trasformare l’astensionismo nel primo “partito” delle regionali.

Vuol dire che mentre noi discutiamo, da una parte, di campo largo e, dall’altra, di egemonia della destra, metà della popolazione ha già deciso che nessuna delle due proposte vale lo sforzo di andare fino al seggio. Non è solo disaffezione: è una sfiducia strutturale verso la politica istituzionale.

Se il nuovo governo regionale vuole essere credibile, dovrà partire da qui. Non bastano le foto di piazza la sera della vittoria, non bastano le conferenze stampa con i leader nazionali. Servono gesti concreti:

trasparenza sull’uso delle risorse; taglio netto con le pratiche clientelari; coinvolgimento reale di comitati, associazioni, territori nelle scelte su sanità, lavoro, ambiente; strumenti di democrazia partecipativa che non siano solo consultazioni online di facciata.

Solo così chi oggi si è sentito estraneo al voto potrà cominciare a pensare che forse vale la pena tornare a contare qualcosa.

Da Campania 2025 a Italia 2027: una possibilità, non una garanzia

Molti si stanno affrettando a leggere il risultato campano come un anticipo delle politiche del 2027. È una tentazione comprensibile, ma rischiosa.

Quello che possiamo dire, senza forzature, è che questa vittoria dimostra tre cose:

La destra non è invincibile, soprattutto quando le sue scelte strutturali – autonomia differenziata, politiche fiscali, smantellamento del welfare – colpiscono direttamente le classi popolari e i territori più fragili. Un’alleanza progressista larga, costruita su contenuti chiari e non su accordi di palazzo, può essere maggioritaria, soprattutto dove la questione sociale e territoriale è più acuta. Senza una risposta seria all’astensionismo, qualunque vittoria rischia di restare sospesa, poggiata su basi troppo strette.

Da qui al 2027 la strada è stretta ma esiste. Passa per alcune scelte nette:

difesa radicale dei diritti sociali, a partire da sanità, scuola, casa, lavoro stabile e non precario; no allo smantellamento della sanità pubblica e stop alla colonizzazione dei servizi essenziali da parte del privato convenzionato, che oggi lucra su liste d’attesa costruite dall’inefficienza programmata; stop ai condoni che premiano l’illegalità edilizia e a ogni forma di voto di scambio mascherato da “pace fiscale” o “sanatoria salvacase”; riconversione ecologica che non sia solo retorica, ma piani industriali, trasporti pubblici e riqualificazione energetica che creano lavoro buono e riducono disuguaglianze; riforma fiscale che redistribuisca ricchezza invece di proteggere rendite e superprofitti.

E, dentro questo programma, un punto dirimente per il Sud e per l’intero Paese: riportare l’acqua e i beni comuni fuori dalla logica del profitto e della finanziarizzazione.

Acqua bene comune, davvero: oltre il referendum tradito

Nel 2011 oltre 26 milioni di cittadine e cittadini hanno partecipato a uno dei pochi momenti di democrazia diretta riusciti nella storia repubblicana recente: i referendum sull’acqua e sui servizi pubblici locali. Su tutti i quesiti venne raggiunto il quorum, con una partecipazione superiore al 54 per cento, e i “Sì” per mantenere il servizio idrico fuori dalle logiche di mercato superarono il 95 per cento.

Quel voto diceva una cosa semplicissima: l’acqua non è una merce, è un diritto fondamentale. Non può essere trattata come un prodotto su cui garantire una remunerazione certa al capitale investito, non può essere schiacciata dentro le stesse regole con cui si gestisce una multiutility quotata in Borsa.

Eppure, negli anni successivi, quel mandato popolare è stato in larga parte tradito. Una fitta produzione normativa, interpretazioni “creative” delle autorità di regolazione e scelte locali hanno mantenuto, e in alcuni casi rafforzato, modelli fondati su società per azioni – spesso a maggioranza pubblica, ma strutturate comunque secondo la logica dell’impresa privata, con tariffe costruite per garantire dividendi e non solo il reinvestimento del surplus.

In parallelo, a livello europeo, la nuova direttiva 2020/2184 sull’acqua potabile e il decreto legislativo italiano che la attua nel 2023 affermano con chiarezza l’obiettivo dell’“accesso universale ed equo all’acqua potabile sicura ed economicamente accessibile per tutti”, richiamando esplicitamente l’iniziativa dei cittadini europei “Right2Water”, che definisce l’acqua “un bene comune, non una merce”.

C’è dunque una contraddizione tra il quadro valoriale che si afferma a parole e la realtà di fatto: l’acqua continua a essere trattata, in molti territori, come un segmento appetibile del business dei servizi locali, in un intreccio spesso opaco tra finanza, grandi multiutility e politica.

La Campania, e Napoli in particolare, hanno rappresentato per anni un laboratorio opposto: durante l’esperienza del sindaco Luigi de Magistris, con la trasformazione dell’ARIN in ABC Napoli – Azienda Speciale Acqua Bene Comune – la città ha sperimentato uno dei pochi tentativi concreti di dare attuazione allo spirito referendario, sottraendo il servizio alla forma societaria per azioni e restituendolo a un ente di diritto pubblico controllato direttamente dalla comunità locale.

Proprio per questo le spinte, negli anni successivi, a trasformare esperienze come ABC in società per azioni, aprendo la strada a logiche di mercato e a possibili ingressi di capitali privati, hanno suscitato allarme e mobilitazioni diffuse: non si tratta di un dettaglio tecnico, ma del rovesciamento di un simbolo politico costruito nel tempo, in coerenza con il mandato del referendum del 2011.

Se la vittoria del campo progressista in Campania vuole essere qualcosa di più di una parentesi felice, deve mettere nero su bianco una scelta di fondo: il servizio idrico integrato deve tornare pienamente nell’ambito di soggetti di diritto pubblico, non in società per azioni travestite da “pubbliche” perché formalmente controllate dagli enti locali. È una differenza enorme.

Le società per azioni, anche a capitale interamente pubblico, nascono dentro il codice civile e dentro le logiche della concorrenza: devono “stare sul mercato”, garantire equilibrio economico-finanziario, spesso distribuire utili. L’azienda speciale o l’ente di diritto pubblico, invece, sono costruiti giuridicamente intorno a un’altra logica: quella del servizio universale, della copertura dei costi e del reinvestimento del surplus nel miglioramento della rete, nella riduzione delle perdite, nella tutela della risorsa e nella lotta alla povertà idrica.

Un programma di governo regionale serio, oggi, deve dire chiaramente:

fuori l’acqua dai giochi di Borsa, dai pacchetti azionari delle multiutility e dalle cartolarizzazioni del debito locale; piani industriali pluriennali per rifare le reti, ridurre le perdite – che in molte aree del Mezzogiorno superano il 40 per cento – e garantire qualità del servizio e tariffe socialmente sostenibili; strutture di gestione di diritto pubblico, con consigli di amministrazione scelti per competenza e non per appartenenza di corrente, e con forme di controllo dal basso che coinvolgano utenti, comitati, lavoratori.

Non è un sogno velleitario: è la traduzione istituzionale di ciò che milioni di persone hanno chiesto nel 2011 e che la stessa normativa europea oggi rende non solo possibile, ma coerente con l’idea dell’acqua come diritto umano fondamentale.

Democrazia, beni comuni e dignità

Soprattutto, passa per un’idea di democrazia che non si limiti a cambiare i volti al vertice, ma metta al centro le persone che oggi non votano, non perché sono pigre, ma perché da anni vedono promesse tradite.

Difendere l’acqua come bene comune, sottrarla alla finanziarizzazione, scegliere aziende di diritto pubblico per gestirla, non è una bandierina identitaria: è un pezzo di questa ricostruzione di fiducia. Significa dire a chi vive in un quartiere popolare, a chi aspetta da mesi una visita specialistica, a chi paga bollette pesantissime per servizi spesso scadenti, che almeno su ciò che è vitale – acqua, salute, ambiente – non si scherza, non si specula, non si fa profitto.

È da qui che passa la possibilità di un nuovo patto tra istituzioni e cittadini, tra Sud e Nord, tra generazioni. Un patto in cui i beni comuni non sono slogan da corteo, ma architravi materiali di una società che ha deciso di rimettere al centro la dignità, e non il margine di profitto.

Da campano, questa vittoria non la leggo come il riscatto di un Sud che chiede elemosina o assistenza. La leggo come un messaggio chiaro: non accettiamo di essere la riserva di manodopera a basso costo di un Paese diviso in regioni forti e regioni di scarto. Non accettiamo la retorica moralista che ci descrive come “palla al piede” mentre le politiche nazionali continuano a drenare risorse, giovani, intelligenze verso Nord o all’estero.

Il Sud non è solo disagio: è anche un’enorme energia sociale, culturale, economica. Napoli e la Campania lo dimostrano ogni giorno, nonostante tutto. Se questa energia trova finalmente un governo regionale capace di ascoltarla e di metterla a sistema, allora sì, questa non sarà stata solo una sconfitta del governo in carica, ma l’inizio di qualcosa di più profondo.

Una stagione in cui, come diceva Pino Daniele, “l’aria s’adda cagna’”. Non per sostituire un padrone con un altro, ma per restituire a milioni di persone la sensazione di avere di nuovo voce, diritti, futuro.

Il voto campano ci dà una possibilità. Sta a noi, tutti, non sprecarla.

(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com

 

Redazione
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