Fiano, il sionismo e l’antisionismo

di Sergio Sinigaglia

La contestazione alla Ca’ Foscari nei confronti di Emanuele Fiano ha sollevato un diluvio di condanne, commenti, e quant’altro.

C’è chi come Anna Foa evoca gli anni Settanta, “gli autonomi” e spiace che una studiosa e una storica del suo livello inciampi per la seconda volta in un paragone piuttosto azzardato e improbabile, dopo che in questi mesi ha gradualmente rivisto le sue posizioni su quanto accadeva a Gaza, arrivando alla fine a pronunciare la parola tabù “genocidio”.

Michele Serra come sempre, professorino in prima fila, alza il ditino e sottolinea come sia stata messa in discussione «la libertà di espressione non solo quella di Fiano, quella di tutti». Evidentemente si è fatto prendere la mano e si è scordato che esiste il reato di apologia di fascismo, quindi non proprio “tutti” hanno diritto alla parola, a meno che Serra non consideri fascisti e nazisti degni di rispetto.

Il contestato sproloquia evocando il fascismo, intervistato da quel campione di cerchiobottismo che risponde al nome di Aldo Cazzullo, che da anni ha fatto proprio il «ma anche» di stampo veltroniano.

Da che mondo è mondo le contestazioni si sono sempre verificate, le università ne sono state spesso teatro, come ben sanno quelli della mia generazione.

Non fanno certamente piacere a chi le subisce, ma forse questi dovrebbe anche riflettere se nella sua visione delle cose ci sia qualcosa che non va; se di fronte a un genocidio basti evocare come un mantra la soluzione dei “due Stati” che ormai, visto lo scenario, suona ipocrita e una presa in giro.

Sgombrato il campo da valutazioni campate in aria, veniamo a quello che a mio avviso è il nocciolo della questione.

Premesso che considero l’iniziativa sbagliata perché nulla aggiunge alle centinaia di mobilitazioni di questi due anni, che hanno vissuto il loro apogeo nelle manifestazioni in sostegno alla Flotilla, così come non aiuta la causa palestinese, ritengo che alla base ci sia la mancata conoscenza storica della complessità delle origini del sionismo, che come tutti i movimenti di stampo nazionalistico è stato attraversato da varie componenti politiche e culturali, al di là del suo “peccato originale”, una visione messianica, suprematista ed etnocentrica che ha avuto un esito catastrofico per i palestinesi e per gli stessi ebrei, sia della diaspora, sia israeliani.

Soprattutto le giovani generazioni felicemente protagoniste in questi mesi, ma anche chi ha alle spalle anni di militanza politica, ignorano quelle origini e sono portati alla equazione errata di sionismo uguale fascismo.

Che l’esito finale dell’esperienza sionista sia emblematicamente rappresentata dall’attuale Governo Netanyahu e dal genocidio in corso, credo sia sotto gli occhi di chi voglia vedere.

Ma questo non comporta bypassare le origini del fenomeno che per una parte del percorso ha fatto riferimento alle istanze socialiste e comuniste, per poi implodere nel corto circuito tra identità nazionalista e quella classista-internazionalista.

Nei primi decenni dello Stato di Israele – come temo i contestatori di Fiano ignorano o trascurano – l’asse portante della realtà sionista sono stati i kibbutz nati sul modello sovietico dei kolchoz; gli stessi contestatori altrettanto probabilmente non sanno che l’estremizzazione ideologica aveva portato i loro fondatori ad abolire la famiglia, per cui i neonati venivano sottratti ai legittimi genitori e fatti crescere fino all’adolescenza nelle strutture collettive. I padri e le madri naturalmente potevano andarli a trovare e stare con loro alcune ore, ma poi la separazione rimaneva. Non c’è bisogno di essere psicologi dell’infanzia per intuire i problemi che ciò creava.

Sempre a proposito di corto circuito la contraddizione lacerante e rimossa era che il socialisteggiante progetto collettivista nasceva contemporaneamente alla Nakba, la pulizia etnica subita da chi su quella terra viveva da sempre.

La criminale politica di discriminazione ed espulsione ha diffuso ampiamente i suoi veleni, edificando non una democrazia ma una etnocrazia, un regime di apartheid fino all’esito finale di questi mesi.

Nonostante questo, tanti ebrei della diaspora continuano, ignorando la contraddizione, a dichiararsi di sinistra e sionisti. Tra loro le posizioni sono variegate.

Per esempio Fiano si è guardato bene dopo il 7 ottobre da firmare gli appelli delle rete “Mai indifferenti Voci ebraiche per la pace”, dove non pochi tra coloro che hanno aderito e ne fanno parte si definisco sionisti e hanno un legame viscerale con Israele, vedi Gad Lerner e Stefano della Torre, senza che ciò abbia loro impedito di prendere anche singolarmente posizioni piuttosto radicali e coraggiose, che hanno attirato le scomuniche e gli insulti delle comunità israelitiche italiane, viceversa queste appiattite su posizioni oltranziste e unilateralmente filo israeliane.

In base a queste sintetiche considerazioni, se dichiararsi antisionisti significa essere contro l’ideologia nazionalista che caratterizza il sionismo sin dalle sue origini, rivendicare una visione internazionalista perché “nostra patria è il mondo intero”, allora non possiamo non essere antisionisti. Ma se invece è frutto della equazione che lo equipara al fascismo si incorre in un clamoroso errore.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *