Io e le mie madri

Rita Nadir Nicotra, ventitrenne laureanda in Graphic Design, racconta la sua storia, delle sue due madri, dei fratellastri scoperti col raffronto del DNA

“Una mia rielaborazione grafica di un documento che le mie due mamme hanno dovuto firmare prima di procedere alla PMA” 

Io e le mie madri, da qui https://www.ilpost.it/2025/10/15/nicotra-io-e-le-mie-madri/

Gli scaffali di casa mia sono pieni di libri per bambini in francese. Non perché da bambina sapessi parlare francese – non lo parlo nemmeno ora – ma perché in Italia, nei libri per l’infanzia, famiglie come la mia non esistevano.

“Rielaborazione grafica di una mia foto da bambina con la mia mamma non biologica” 

Ogni volta che le mie madri, con me al seguito, tornavano in Belgio per un altro tentativo di PMA, cioè di Procreazione Medicalmente Assistita, e per mostrarmi la clinica dove ero stata concepita io, le librerie erano sempre una fermata di routine. Da quei viaggi tornavamo cariche di libri, che la sera mia madre, quella tra le due che invece il francese lo parlava, traduceva per me. E mentre lei leggeva, io imparavo per la prima volta che, nella mia lingua, per la mia famiglia mancavano le parole. Quelle scritte sui libri per l’infanzia, quelle che avrei voluto avere per spiegare la mia famiglia agli altri, quelle che ancora oggi mi mancano per nominare senza equivoci ogni figura della mia storia.

Attingevo spiegazioni da una lingua che non conoscevo per rispondere alle domande dei miei compagni di scuola confusi.

In che senso dicevo di avere due mamme? Ma ero proprio sicura di non avere un padre? Non è che stavo raccontando, o le mie madri mi avevano raccontato, una bugia?

“Un disegno che ho fatto a Parigi mentre aspettavo i miei “nati dallo stesso donatore” (mi serve davvero un’espressione più breve per definirli)”

Nonostante le mie madri mi abbiano sempre dato le informazioni sufficienti per rispondere a tutti i dubbi con i miei libri in francese, con le visite alla clinica belga dov’ero stata concepita, con le loro spiegazioni più o meno dettagliate, in ogni caso consone per la mia età, capitava che gli altri bambini non riuscissero a convincersi che quello che dicevo fosse vero.

Di pomeriggio correvano a casa per chiedere conferma ai genitori, e il giorno successivo correvano da me per darmi la sentenza finale: i loro genitori dicevano che non era vero che avessi due mamme, perché i bambini possono nascere solo da una mamma e un papà.

Un giorno, all’età di sette o otto anni, mia madre mi venne a prendere come tutti i pomeriggi nel campo estivo che frequentavo. Una bambina con cui avevo fatto amicizia mi rincorse fino al parcheggio dove mia madre mi stava aspettando e chiese: «Rita, ma è vero che hai due mamme?».

Forse pensava che questa domanda, davanti a mia madre, avrebbe definitivamente smascherato la mia messa in scena e che mi sarei anche beccata una sgridata per aver mentito in modo così audace.

Invece mia madre, senza scomporsi, rispose solo: «Sì, è vero. Rita ha due mamme».

Fu un momento trionfale per me. Avevo appena vinto la mia prima battaglia sulla grande spiegazione.

Col tempo, però, mi accorsi che i problemi linguistici erano solo l’inizio.

Imparai presto che c’erano persone a cui la mia famiglia proprio non piaceva, per com’era composta, e a cui, per tutelarsi e tutelarmi, le mie mamme non cercavano neanche di spiegare. Lo scoprii quando, incontrando colleghi o conoscenti delle mie madri in coda al supermercato o in giro per la città, all’improvviso diventavo la figlia di un’amica, la nipotina al seguito della zia. La formula in codice era: «Rita, loro non lo sanno».

Questo succedeva soprattutto con la mia mamma non biologica, e davanti a persone che sapevano che lei non aveva mai partorito, compresi alcuni parenti lontani. Una delle volte in cui, invece, mi presentò come sua figlia, capitò che qualcuno commentasse su quanto ci somigliassimo, suscitando un po’ di imbarazzo e un po’ di ilarità in entrambe, perché questo, com’era ovvio, non era possibile.

Entrambi i casi, comunque, sottolineavano come la maternità passasse sempre dal parto e dal legame genetico, così come ribadiva la legge che, fino alla sentenza della Corte costituzionale del 22 maggio di quest’anno, non riconosceva la madre “intenzionale”, ovvero non gestante, di una coppia omogenitoriale.

Anche la scelta della parola “intenzionale” tradisce, in fondo, una gerarchia: come se la madre che non partorisce debba dimostrare un di più di volontà per colmare la mancanza del legame biologico.

Invece l’intenzionalità, credo, accomuna qualsiasi progetto genitoriale, indipendentemente dal modo in cui un figlio arriva. Le mie madri hanno modi diversi di essere madri, ma nessuna delle due è per me un “genitore d’intenzione”. Sono madri di fatto, nell’avermi cresciuta, educata, accudita.

Forse è stato anche questo, il ripetuto impedimento a usare le parole giuste per definire il mio legame con le mie stesse madri davanti ad altri, ad avermi reso oggi così sensibile alla necessità di nominare le cose nel modo corretto.

Prima di arrivare a maturare la necessità del “dire”, però, sono passata attraverso le varie sfumature del “non dire”.

Estenuata dalle domande dei miei compagni di scuola, ormai consapevole che non a tutti piacesse come e da chi ero nata, decisi che non era necessario dire di avere due madri proprio a tutti. Nella mia mente creai una categoria di persone a cui era meglio parlare genericamente di “genitori”, o al limite sineddoticamente di “madre” singolare invece che di “madri” plurale, e a cui, solo a domanda diretta sul padre – e arrivava, la domanda, perché al mio parlare di “genitori” al plurale corrispondeva il solo riferimento alla “madre” singolare – era meglio rispondere che semplicemente non lo conoscevo.

Questa, tuttavia, non era la verità. Non è corretto dire che non conosco mio padre, perché la parola “padre” non fa e non ha mai fatto parte del mio “lessico familiare”. Non ho un padre, nemmeno un padre biologico che non conosco. Semmai, ho un donatore. Le due parole non sono nella mia mente in alcun modo sovrapponibili.

Naturalmente, ogni persona nata da donazione di gameti ha le proprie esperienze e i propri vissuti, molto diversi tra loro, che condizionano anche il linguaggio usato per riferirsi alle varie figure. Alcuni hanno scoperto le loro origini da adulti, altri fin da bambini; alcuni ne parlano con entusiasmo, altri con rabbia o disagio. Alcuni non hanno problemi a riferirsi al donatore come “padre”, altri, come me, rifiutano del tutto questa parola.

Secondo un sondaggio condotto nel 2020 da We Are Donor Conceived, un magazine che si occupa della vita delle persone nate come me, non esiste un termine prevalente: il più citato è donor father/mother (31%), seguito da genetic father/mother (19%) e dal semplice mother/father (12%). Altri ricorrono a espressioni come dad/mom (7%), bio dad (7%), progenitor (4%) o genetic contributor (4%).

Io stessa, confrontandomi con altre persone nate da donazione, mi sono resa conto di quanto sia difficile trovare un linguaggio condiviso.

Sono convinta però che uno sforzo immaginativo e linguistico in questo senso sarebbe di enorme beneficio per tutti. L’equivalenza tra parentela e genetica nel nostro sistema culturale e familiare è talmente radicata che spesso non abbiamo le categorie mentali e gli strumenti linguistici per scinderla e rielaborarla in forme nuove di famiglia.

Separare i piani, trovare termini che distinguano senza equivoci genetica e famiglia diventerebbe anche un modo per abbattere il tabù ancora forte sulla PMA: molti genitori che ne fanno ricorso, a volte con imbarazzo, scelgono di non raccontare ai figli le loro origini per timore che la consapevolezza dell’assenza di legame genetico possa minare il loro ruolo genitoriale.

Anche io, pur avendo sempre avuto tutte le informazioni sulla mia storia, ho vissuto per gran parte della mia adolescenza con uno strano senso di solitudine. Di colpa, più che altro, perché, nonostante amassi le mie mamme e la nostra famiglia, pensavo costantemente alle mie origini genetiche. Di tradimento, perché pensavo di avere più curiosità di quanto fosse normale. E di estraneità, perché ogni volta che incrociavo la mia immagine nello specchio dell’ascensore di casa non riuscivo a riconoscere nessuno dei tratti di mia madre in quelli del mio viso.

Avevo tante domande e nessuno che mi potesse dire se fosse normale averle. Quanto assomigliavo al mio donatore? Perché aveva deciso di fare il donatore? C’erano altre persone nate grazie a lui? Era giusto che volessi sapere queste cose? Avrei pagato oro per poter parlare con persone che condividessero la stessa esperienza.

Le mie madri, con i libri in francese che si erano accumulati sugli scaffali, mi avevano implicitamente detto che non ero la sola al mondo. E allora dov’erano queste altre persone?

Tre anni fa decisi infine di cercare di soddisfare le curiosità e comprai un test del DNA che mi avrebbe rivelato se qualcuno con il mio stesso patrimonio genetico aveva avuto la mia stessa curiosità. Quando mi arrivarono i risultati, aprii la mail con il fiato sospeso e le gambe che tremavano. Rimasi a fissare lo schermo del telefono per un po’, senza credere a quello che vedevo. Non avevo mai realmente creduto di trovare qualcuno e, invece, la mia prima corrispondenza di DNA recitava la scritta “fratellastro”.

Fu una rivelazione. Era vero che non ero la sola al mondo! Ed era altrettanto vero che questa persona, di cui allora non conoscevo neanche il nome, aveva avuto le mie stesse curiosità.

Iniziammo a scriverci, poi ci incontrammo a Parigi, dove viveva con sua sorella, anche lei nata dallo stesso donatore.

La mia famiglia volle vedere i selfie che ci facemmo insieme e tutti rimasero impressionati da quanto ci somigliassimo.

Per un po’ di tempo mi andò bene riferirmi a loro chiamandoli “fratellastri biologici”, perché, essendo figlia unica, non c’era rischio di confusione.

Poi una domenica a pranzo, appena tornata dal nostro primo incontro a Parigi, mio nonno mi accolse in casa esclamando: «Rita, ho visto le foto! Ma che bei fratelli che hai!». Quella parola mi suonò talmente inappropriata e stridente, sulla bocca di un mio familiare, che decisi che non mi andava più bene essere costretta a usare dei termini di parentela per delle persone che miei familiari non erano.

In inglese si chiamano donor siblings, che è forse un’espressione più neutra e tuttavia mantiene una connotazione di familiarità che mi mette a disagio.

Continuo a cercare un termine che descriva questo legame genetico senza trascinarlo dentro l’idea di parentela. Continuo a non trovarlo.

Mentre cerco ancora che parola usare per definirli, ne parlo come «le persone nate dal mio donatore». Dopo averli incontrati, comunque, la mia curiosità si è spenta all’improvviso. Non ho mai più provato quel senso di estraneità davanti allo specchio, perché scoprire una somiglianza nelle loro facce ha completato i tasselli che mi mancavano per riconoscere la mia. Né quel senso di colpa verso la mia famiglia, che ha invece accolto e condiviso la gioia della mia scoperta.

Purtroppo non tutti comprendono e accolgono questa gioia. Da quando ho abbandonato la strada del non dire e un po’ come atto politico, un po’ come forma di cura per me stessa, ho ripreso a spiegare senza troppi problemi da chi e come sono nata, più volte sono stata contattata da persone o coppie che avevano nei loro progetti più o meno futuri quello di diventare genitori tramite PMA con donazione di gameti. Di solito, vogliono sapere che problemi ho avuto crescendo, come e quando mi sono state spiegate le mie origini.

Quelli che prendono coraggio, abbassando la voce e irrigidendo il tono, mi chiedono se ho mai avuto curiosità di conoscere il donatore. Ho sempre l’impressione che questa domanda sia un po’ retorica, che le persone che me la pongono si aspettino di essere rassicurate con un “no” secco, salvo poi rimanere deluse quando da parte mia segue il racconto entusiasta della mia ricerca fruttuosa e dell’incontro di Parigi. Ecco, io sono rimasta delusa quando il mio entusiasmo non è stato compreso. Sono rimasta amareggiata quando, una volta, una coppia mi ha detto che la ricerca delle origini era un’eventualità a cui proprio non avevano pensato. Sono rimasta addirittura ferita quando una neo mamma mi ha risposto che sua figlia sicuramente non avrebbe avuto curiosità del genere, perché lei l’avrebbe educata bene, qualsiasi cosa ciò significasse.

Di queste conversazioni mi resta sempre addosso un senso di frustrazione. Perché, anche se cerco di raccontare con chiarezza quanto questo percorso sia stato importante per capire me stessa, mi sembra comunque una verità che nessuno vuole ascoltare?

Fino a pochissimi anni fa, mi sono impegnata scrupolosamente nel tentativo di bilanciare la volontà di parlare della mia storia e della famiglia in modo autentico e sincero con la necessità di non confermare in nessun modo gli stereotipi e i pregiudizi che vi girano intorno. In queste occasioni mi sembra sempre di fallire.

A dire la verità, forse in questo ho fallito fin dal principio.

Lo scrivo come una confessione tardiva: non ho mai chiamato “mamma” entrambe le mie madri. A quella non biologica ho dato, fin da piccola, un nomignolo nato dall’unione tra la parola “mamma” e il suo nome di battesimo, che non riuscivo a pronunciare.

Per anni ho temuto che quel nomignolo fosse il segnale più evidente della mia anomalia, il sintomo della malattia familiare della non biologia: come se non chiamarla “mamma” tradisse una mancanza strutturale della mia famiglia, come se la mia curiosità verso le origini genetiche fosse la conferma di un sospetto già inciso negli occhi degli altri, la prova definitiva del mio fallimento nel tentativo di non assecondare nessun pregiudizio.

La storia della mia famiglia si è svolta nel segno di una serie di parole mancanti, di parole sbagliate, di parole non pronunciate. Di parole che sembravano pensate per essere adatte per tutti, tranne che per me.

Ora che sono più o meno adulta, quel nomignolo non mi sembra più un difetto da giustificare. Mi sembra, piuttosto, un primo, impulsivo atto di ribellione verso un linguaggio che costringeva la mia famiglia in categorie a cui non apparteneva e un piccolo atto fondativo di un linguaggio in cui potesse stare più comoda.

 

Rita Nadir Nicotra. Il Post, Storie/Idee, 15 ottobre 2025, da qui https://www.ilpost.it/2025/10/15/nicotra-io-e-le-mie-madri/

Rita Nadir Nicotra, dalla sua pagina Instagram

Rita Nadir Nicotra è nata nel 2002, ha due mamme e sta per laurearsi in Graphic Design. Si interessa di temi sociali e ambientali, le piace scrivere, viaggiare e fotografare. Prima o poi capirà come unire tutti i pezzi, intanto cerca di usarli tutti per raccontare storie, a partire dalla sua.

Rita Nadir Nicotra, dalla sua pagina Instagram

Rita, come detto nella scheda biografica presa da Il Post, è attiva nelle battaglie sociali, anche in quelle sui diritti civili e nelle battaglie per l’identità di genere.

Il 29 giugno scorso, sulla sua pagina Instagram, ha detto la sua sulla sentenza n° 68 del 22 maggio 2025 “con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il divieto per la madre intenzionale di riconoscere come proprio il figlio nato in Italia da procreazione medicalmente assistita legittimamente praticata all’estero.”:

Grazie per la sentenza. Sì, perché sia mai di non ringraziare per aver ottenuto, dopo anni di lotte estenuanti, diritti civili e umani fondamentali.
Grazie per la sentenza, perché non vorrei mai, aggiungendo un ma a questa svolta storica, sentirmi dire che non ci accontentiamo mai, che abbiamo già avuto fin troppo.
Quindi certo, grazie per la sentenza.
 Ma oggi mi sembra il giorno giusto per aggiungerlo, quel ma.
Perché sì, la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza davvero importante. Ma l’ha emessa la Corte, non il Parlamento, che su questo tema era stato più volte richiamato a legiferare.
Quindi grazie, eh.
Ma il matrimonio egualitario dov’è? I diritti per i figli di due papà? L’accesso all’adozione per le coppie omosessuali? La possibilità di intraprendere un percorso di PMA in Italia?
Sì, proprio una sentenza storica, ma io ho due mamme da 22 anni, non dal 22 maggio.
Quindi grazie per la sentenza, ma ci sono ancora tante cose per cui combattere.
Però, davvero eh, grazie.
Immagino capirete se oggi non festeggio e basta.

Instagram 29.06.2025

Rita Nadir Nicotra, dalla sua pagina Instagram

@vanityfairitalia

Rita Nadir Nicotra, 20 anni e una domanda che le rimbomba in testa da alcuni giorni: “Cosa spaventa di una famiglia con due mamme?”. «Non ho mai avuto dubbi sul fatto che la mia fosse una famiglia, anche se non è scritto da nessuna parte, sopra nessun pezzo di carta e ammetto che a pensarci, è un po’ bizzarro. Come persona adulta lo capisco, come figlia trovo che sia inaccettabile». di @Alessia Arcolaci #NoiSiamoLAmore #giùlemani #famigliearcobaleno

♬ original sound – Vanity Fair Italia

Le didascalie delle prime 3 foto sono della stessa Rita, salle foto che accompagnano l’articolo su Il Post

 

Redazione
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