L’economia di guerra e la cultura

ne scrivono la CUB di Pisa e Giovanna Lo Presti

L’economia di guerra danneggerà anche la cultura

a cura della Cub di Pisa

Non staremo in questa sede a dilungarci sul lungo percorso che da oltre un trentennio sottrae risorse ai beni culturali, precarizzando il lavoro con abusi di appalti, subappalti, aziende in house del ministero, lavoro interinale, partite ive coatte, volontariato sostitutivo, tutto per operare un autentico sradicamento del sistema pubblico in ambito culturale.

In attesa del testo finale della Legge di Bilancio, letta tuttavia la proposta presentata dal Governo e dalla Ragioneria dello Stato che sarà discussa e votata dal Parlamento nelle prossime settimane, siamo consapevoli che non ci saranno cambiamenti epocali, tutto proseguirà nell’alveo delle compatibilità di bilancio, dentro quella austerità salariale che si traduce in cronica disattenzione verso le istanze della cultura. In tempi di economia di guerra il settore culturale corre il rischio di essere la prima vittima sacrificale. Tagli destinati a recuperare risorse per riconvertire aziende civili a produzioni militari. In tempi di guerra poi investire in cultura diventa pericoloso, perché l’ambito culturale per eccellenza è anche il settore in cui il rifiuto dei processi di militarizzazione avviene con particolare forza e prova ne sia l’intervento ministeriale che ha revocato l’autorizzazione a un seminario formativo per docenti su tematiche attinenti alla guerra, al Riarmo e ai processi di militarizzazione.

Il Ministero della Cultura cerca invece di sottomettere musei pubblici a processi di militarizzazioni, utilizzandoli come spazi per eventi totalmente slegati dalla loro funzione. Ricordiamo il caso della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea che nelle giornate del 14 e 15 novembre ha ospitato gli incontri del Processo di Aquiba, un forum militare per il quale il museo è stato chiuso al pubblico e che ah previsto l’allontanamento di 40 dipendenti considerati forse ostili a questa deriva dell’istituto. Stessa sorte per Palazzo Reale di Napoli che dal 14 al 17 ottobre ha chiuso per ospitare il “Med5- Dialoghi del Mediterraneo”, organizzato del Ministero degli Esteri, della Cooperazione Internazionale e dall’ISPI. Sempre a Napoli vi è stata la sventata presenza dell’ex premier israeliano Ehud Olmert, colui che autorizzò la drammatica operazione “Piombo Fuso” sulla striscia di Gaza, presso il museo Reale di Capodimonte per il festival “Falafel e Democrazia”.

Queste azioni di militarizzare degli spazi culturali, a discapito della cultura stessa e di chi vi opera, non nascono oggi, è qualcosa d’imbastito già nel 2023, quando l’allora ministro Sangiuliano volle far rientrare il 4 novembre, Giorno dell’Unità nazionale e Giornata delle Forze Armate, tra le giornate ad accesso gratuito, insieme al 25 aprile e al 2 giugno, “in occasione di ricorrenze dall’alto significato storico” come recita il sito del ministero, sebbene non si tratti di una festa nazionale .

Perpetuare nel solco dell’economia di guerra impoverirà ancora di più tutti quei lavoratori e lavoratrici che con grande fatica, attraverso lotte sindacali osteggiate da leggi ad hoc, hanno potuto presentare le proprie istanze di miglioramento normativo, contrattuale e stipendiale davanti a bandi di appalti e subappalti al ribasso, che non offrono condizioni dignitose per la forza lavoro.

Come CUB siamo consapevoli che anche la cultura rischia di essere strumentalizzata, svilita ma soprattutto impoverita per renderla funzionale al militarismo e ad avallare processi di guerra.

Il nostro impegno è quello di rilanciare la mobilitazione a fianco del popolo palestinese e contro l’economia di guerra che sacrificherà al suo cospetto le figure precarie del mondo culturale

da qui

 

Contro la barbarie ci restano la cultura e l’umanesimo – Giovanna Lo Presti

Sempre più spesso mi viene spontanea e irrefrenabile la voglia di guardare indietro. Saranno gli anni che avanzano, sarà l’insostenibilità di certi aspetti del presente ma mi pare che per tentare di non scivolare in un futuro distopico sia sempre più necessario gettare l’ancora nel passato. Ciò che è stato ha sempre l’efficacia dell’essere stato, avrebbe detto Giovanni Verga, ed ha assunto, avrebbe detto Pirandello, la sua forma, fissata per sempre, analizzabile e, per così dire, istruttiva. E noi da quel che è stato, se avessimo l’umiltà e la pazienza necessarie, potremmo davvero imparare molto e non ripetere il tragico copione che gli umani scrivono e riscrivono senza mai dimenticare di assegnare la parte della co-protagonista a un mostro che ha nome “violenza”: coprotagonista che assicura brividi, sentimenti forti e che, in ultima analisi, genera l’attaccamento alla stessa vita che distrugge.

Il rapporto Oxfam Italia del 2025 ci informa che, secondo i dati dell’Uppsala Conflict Data Program, nel mondo si contano oltre 100 conflitti armati, internazionali o interni ma con implicazioni globali. Il pianeta, quindi, è butterato da guerre; ci sono voluti due anni e il crudele sterminio del popolo palestinese messo in atto da Israele perché le coscienze si smuovessero e i nostri Paesi fossero attraversati da manifestazioni di protesta imponenti. Questo orribile presente per i Palestinesi non è, però, che l’ultima pagina di una storia che, come tutti sappiamo, ha inizio molto tempo fa, con la nascita del sionismo. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale ha inizio la storia di Israele, avamposto dell’Occidente in terra araba; gli insediamenti sionisti avevano avuto inizio ben prima e non certo in modo pacifico.

Mi attengo alla premessa iniziale e faccio un balzo in avanti nel tempo; arrivo al 1969, anno in cui uno dei nostri grandi scrittori, Luciano Bianciardi, scrive un articolo per la rivista Kent – una sorta di succedaneo di Playboy, alla quale lo scrittore collaborò, probabilmente per spirito di contraddizione e per non sentirsi al soldo di una borghesia che aborriva. [Aveva rifiutato le 300mila lire al mese (un mucchio di soldi) che l’allora direttore del Corriere, Indro Montanelli, gli offriva per scrivere sul suo giornale quello che ritenesse opportuno. Luciano dunque rifiutò e, dopo il successo enorme de La vita agra, scelse invece di collaborare con testate molto meno prestigiose, anzi piuttosto dubbie, come Le Ore, ABC, Kent, Playmen]. Nel settembre del 1969 Bianciardi è a Tel Aviv (ricorda ai suoi lettori che il nome della città significa “il colle della primavera”), al seguito di una squadra di “palla al canestro”, come la chiama lui, che fa anche, a modo suo, il cronista sportivo. Bianciardi ha come guida per la visita della città “Ester, una livornese alta un metro e quaranta, con due medaglie al valore”, la quale comincia subito a fare il suo “spiegone” al gruppo di giornalisti italiani in visita a Tel Aviv.

“Ecco gli autocarri che durante la guerra dei sei giorni abbiamo strappato agli egiziani. Ecco i resti, dipinti col minio, degli automezzi andati distrutti durante la guerra del ’48, E ora, gente, eccovi una sorpresa. Questi sono i carri armati che abbiamo strappato agli egiziani durante la guerra dei sei giorni. Vedete quanti sono? Noi siamo contenti che i russi diano carri armati agli egiziani, così ci forniscono i pezzi di ricambio”.
Io comincio ad averne le tasche piene. “Scusi, signora Ester” – chiesi, “se voglio salutare una persona, da queste parti, che cosa debbo dire?” “Lei deve dire scialom”. “E cosa significa?” “Significa pace” “Benissimo, grazie” […]
Ester aveva riattaccato lo spiegone: “Ecco la porta dei Leoni. Di qui durante la guerra dei sei giorni, entrarono a Gerusalemme i nostri paracadutisti. Gli arabi invece fuggirono dalla porta della spazzatura”.
A un certo punto la Ester mi redarguì. “Signor Luciano, perché lei cammina così piano?”
“Ma perché siamo a Gerusalemme”.
“E allora?”
“A Gerusalemme si cammina lemme lemme. E anche a Betlemme. Sempre lemme lemme”.
“Ma lei mi prende in giro!”
“Non è vero. È contenta, cara Ester di vivere qui in Palestina?”
“Vivere dove?”
“In Palestina”
“Cosa è la Palestina?”
“È qui, dove siamo noi”.
“Guardi che noi diciamo Israele”.
“Ma davvero? A scuola mi avevano insegnato in altro modo”.
“Cioè?”
“A dire Palestina. O anche Terra Santa”.
“Ma lei mi prende in giro!” […]
Siamo poi andati in un kibbutz di frontiera, tutto pieno di soldati e soldate (dire soldatesse è sbagliato, altrimenti dovremmo dire pure cognatesse anziché cognate), i quali militari più che altro scavano bunker e coltivano qualche raro pomodoro. La Ester ci fece vedere la piantine appena nate. E il mio amico Arnaldo le chiese: “Scusi, Ester, che grado ha il comandante di questi soldati che coltivano pomodori?”

Questo per dire, con una lunga e arguta citazione, che da troppo tempo le cose in Palestina vanno male. Da troppo tempo la Palestina ha perso pure il nome e si parla ormai di Terra Santa soltanto nei dépliant dei pellegrinaggi.

Traggo, da un passato più vicino al nostro presente, una citazione di Edgard Morin. È del 1997.

Israele ha ritrovato un paese che era diventato straniero per duemila anni e, facendolo suo, ha fatto sì che il Palestinese che lì viveva da secoli diventasse straniero. Israele ha accolto centinaia di migliaia di rifugiati che fuggivano dall’Europa e una parte della diaspora ebraica. Ha provocato l’esilio di centinaia di migliaia di Palestinesi, che da allora sono stati ammassati nei campi profughi o dispersi nel mondo. Chi avrebbe mai pensato, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, che, dopo secoli di umiliazioni e rifiuti, dopo l’affare Dreyfus, il ghetto di Varsavia, Auschwitz, i discendenti e gli eredi di queste terribili esperienze avrebbero sottoposto i palestinesi occupati a umiliazioni e privazioni? Come possiamo comprendere la transizione dall’ebreo perseguitato all’israeliano persecutore?

Se le cose vanno male per un periodo piuttosto lungo, si può dire, con una certa sicurezza, che andranno sempre peggio. E nelle more, tra una fragile tregua e l’altra, se non si organizzano saldi presidi contro il disastro, a qualcuno, più fanatico di altri, potrà venire in mente l’organizzazione della soluzione finale, quella che affermerà in modo definitivo le ragioni di una parte. È già successo, ed ecco che accade di nuovo.

D’altronde, cosa ci si poteva aspettare se la nascita dello Stato ebraico tra il 1947 e il 1948 che viene denominata dagli israeliani “guerra di indipendenza” provocò per i Palestinesi la Nakba – cioè la Catastrofe? Quale risarcimento prevederà la comunità internazionale per i Palestinesi a fronte di una terribile ingiustizia che attraversa gran parte del Novecento per dilagare nel primo quarto del nostro secolo? Non basterà certo la vieta formula “due popoli, due Stati”, impraticata e impraticabile.

Ha ragione Daniel Baremboim, che dal 1999 conduce la West-Eastern Divan Orchestra, in cui suonano musicisti provenienti da tutto il Medio Oriente e che ha fondato, insieme con Edward Said la Barenboim-Said Akademie, che prosegue l’intento della West-Eastern Divan Orchestra di definire un terreno comune in cui israeliani e palestinesi possano riconoscersi reciprocamente e lavorare fianco a fianco. Baremboim sostiene che l’umanesimo sia l’unica (e l’ultima) “resistenza che abbiamo contro le pratiche disumane e le ingiustizie che sfigurano la storia umana”.

Quanto tale affermazione sia dissonante dal cinismo crudele dei nostri tempi è evidente: eppure, sino a che non si riconoscerà l’essere umano anche nel nemico le cose non cambieranno. La regola vale per tutti, tranne che per i tiranni, quelli che fanno ciò che a loro pare decretandone senza appello la giustezza; essi sono colpevoli di vivere in uno stato di eccezione e quindi non meritano la nostra pietà.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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