Libertà di stampa: 30 denari al chilo
di Mario Sommella
Repubblica e Stampa all’asta: quando i padroni vendono anche l’Agorà
C’è un modo molto semplice per capire cosa sta succedendo: quando per settimane ti raccontano che “la libertà di stampa” è minacciata dai ragazzi che protestano, liquidati con l’etichetta sprezzante di “poveri comunisti”, e poi nel giro di pochi giorni la proprietà mette in vendita due giornali storici come fossero un ramo secco da potare, capisci che il racconto era rovesciato. La vera minaccia non è la contestazione, è la proprietà. Non è il corteo, è il consiglio d’amministrazione. E quella frase, oggi in Italia, non è un insulto: è una radiografia morale di chi sta dalla parte del potere proprietario, non dalla parte del lavoro e del diritto a essere informati.
È in questo cortocircuito che si incastrano due testi che mi sono passati sotto gli occhi in questi giorni e che mi hanno lasciato addosso la stessa sensazione: che il punto non sia mai stato la “libertà di stampa”, ma la libertà del padrone di fare ciò che vuole. Da un lato la denuncia frontale: l’applauso al padrone in redazione, la retorica della “solidarietà” trasformata in scudo mediatico, e poi la notizia che taglia la scena: GEDI (controllata da Exor della famiglia Elkann-Agnelli) tratta la vendita delle attività editoriali italiane con il gruppo greco Antenna, guidato da Theodoros/Thodoris Kyriakou, includendo La Repubblica, La Stampa e radio come Deejay e Capital.
Dall’altro lato un ragionamento più lungo e più amaro: la storia industriale e politica che sta dietro a questi giornali, il “peccato originale” di un Paese che ha fatto coincidere per decenni il destino nazionale con quello di una dinastia e delle sue aziende, fino a scoprire che, quando cambia il vento, la dinastia cambia porto. E non lascia dietro di sé una strategia: lascia macerie, precarietà, e un bene comune ridotto a merce.
Il punto politico, oggi, è questo: l’informazione non viene colpita soltanto quando viene intimidita. Viene colpita anche quando viene svuotata, normalizzata, spezzettata e venduta. Perché la libertà di stampa non è solo un diritto astratto: è anche una filiera concreta fatta di redazioni, contratti, autonomia, cultura professionale, memoria storica, e perfino di conflitto interno. Se quella filiera la governa chi la considera una linea di costo o una pedina di influenza, la libertà diventa una parola da convegno, buona per i discorsi e inutile per chi lavora.
Non a caso i giornalisti hanno scioperato e protestato: La Stampa ha fermato le pubblicazioni, Repubblica è entrata in agitazione, con una domanda che suona banalissima e per questo è micidiale: quali garanzie? su lavoro, identità, indipendenza, trasparenza dell’operazione.
E lo stesso governo, pur con tutti i suoi doppi standard, ha dovuto convocare e mettere sul tavolo almeno la questione dell’indipendenza editoriale e della trasparenza, richiamando perfino le regole del “golden power” per gli asset ritenuti strategici.
Ma qui arriva la parte che brucia davvero, e che va detta senza anestesia: i padroni restano padroni. E non perché “sono cattivi”, ma perché sono coerenti con la logica del potere economico. La loro libertà è la libertà degli affari. Se un asset non serve più, si vende. Se serve in altro modo, si usa. Se diventa ingombrante, si scarica. Se bisogna fare una bella foto con il lessico della “responsabilità” e della “libertà”, si fa. Poi, finito lo scatto, si passa alla cassa.
Ed è qui che bisogna essere più caustici, perché la scena non è solo grottesca: è istruttiva. Pochi giorni prima gli applausi al padrone, come se fosse un benefattore venuto a distribuire democrazia a mano. Un applauso che non è ingenuità: è servilismo, è l’abitudine a confondere l’editore con il diritto, la proprietà con la libertà, il possesso con la legittimità morale. Poi, dopo qualche giorno, gli stessi che applaudivano scoprono di essere merce di scambio in una trattativa: svenduti non solo nei bilanci, ma nell’immaginario. Perché il padrone, quando vende, non vende un’idea: vende un pacchetto. E dentro al pacchetto ci finiscono i marchi, le redazioni, le carriere, la dignità di un mestiere.
A quel punto viene voglia di dirlo con brutalità: il padrone non tradisce. Fa il padrone. È chi lo applaude che si mette nella posizione sbagliata. Perché applaudire chi ti possiede è come ringraziare il guinzaglio per la passeggiata. Finché il guinzaglio non viene ceduto a qualcun altro, insieme al cane.
Ed è qui che il ragionamento storico diventa la lente che ingrandisce il paradosso. Perché La Stampa non è solo un giornale: è un simbolo torinese, legato alla lunga stagione Fiat, alla città-fabbrica, alla disciplina sociale costruita attorno a Mirafiori. E quando si rievoca la grande rottura dell’autunno 1980, la marcia dei “quarantamila”, la frattura delle relazioni industriali e il capovolgimento dei rapporti tra impresa, politica e sindacato, si sta dicendo una cosa precisa: in Italia si è normalizzata l’idea che la modernizzazione passi sempre da una resa del lavoro. Prima gli operai, poi gli impiegati, poi i quadri, poi i giornalisti. Cambiano i reparti, non cambia lo schema. E spesso, dopo gli operai, arriva anche la beffa: chi ieri si sentiva “dalla parte dell’impresa” oggi scopre che l’impresa non ha parti, ha interessi.
La domanda che resta appesa è quella più scomoda: quanti di quei linciaggi morali contro chi contestava, contro i ragazzi scesi in piazza, contro chi denunciava omissioni e conformismi, erano difesa della libertà e quanti erano difesa dell’ordine? Un ordine in cui il proprietario è intoccabile e il dissenso deve essere disinnescato, ridotto a “violenza”, così non si parla più del punto vero: chi decide la linea, chi decide i tagli, chi decide la vendita.
Poi c’è Repubblica. Qui si riapre una storia che molti fingono di non vedere: Repubblica come “Agorà” sostitutiva della crisi della politica, e poi come bussola, vincolo e perfino dipendenza del campo progressista post-PCI. È una storia che spiega tante cose: la forza culturale di un giornale che per anni ha dettato agenda e lessico, ma anche la fragilità di una sinistra che, invece di costruire organizzazione e radicamento, ha spesso cercato legittimazione nello specchio mediatico. Il risultato è che oggi quella “Agorà” può essere impacchettata e spostata. E con lei si sposta un pezzo di ecosistema democratico. Il paradosso è feroce: per decenni si è creduto di poter fare politica anche attraverso l’aria condizionata delle redazioni, e ora quell’aria viene semplicemente rivenduta, come un impianto in dismissione.
Attenzione: questo non significa assoluzione. Né per Repubblica, né per La Stampa, né per la filiera dei talk show “di opposizione” che in tanti casi ha trasformato la critica in routine, l’indignazione in format, e la guerra in sfondo permanente. Significa però riconoscere una cosa: anche quando un giornale ti fa arrabbiare, il fatto che esista una redazione, una responsabilità legale, una cultura di verifica (imperfetta, contraddittoria, ma reale) è diverso dall’oceano digitale dove ognuno si nutre solo di ciò che lo conferma. L’autarchia informativa ci divide e ci rende deboli. E infatti il potere contemporaneo adora due cose insieme: la concentrazione proprietaria e la frammentazione sociale. Un editore forte sopra, un pubblico atomizzato sotto. Un padrone che compra e vende, e un Paese che si sfoga a pezzi, ognuno nella sua bolla, mentre la proprietà resta intera, compatta, lucida.
E allora questa riflessione non può limitarsi al lamento. Deve arrivare alla domanda pratica: che si fa?
Una risposta sta già, in controluce, dentro questo ragionamento: se l’Agorà non può più essere “servizio pubblico” soltanto perché lo dichiara un marchio, allora bisogna inventare forme nuove di proprietà e di garanzia. Non slogan. Strumenti. Perché la democrazia, se non ha strumenti, diventa un sentimento. E i sentimenti, come sappiamo, non valgono niente in un bilancio.
Alcuni punti, secchi:
1. Statuti di indipendenza editoriali blindati, con potere reale delle redazioni sulla nomina dei direttori e sulle carte etiche.
2. Trasparenza totale su struttura societaria e “catena del controllo”, soprattutto quando entrano gruppi esteri o veicoli con partecipazioni extra-europee, tema già richiamato nel dibattito politico e istituzionale.
3. Modelli di azionariato diffuso e cooperative di giornalisti e lettori, non come favola romantica ma come architettura concreta: meno costi fissi inutili, più inchieste, più verifica, meno opinionismo industriale e meno servitù volontaria.
4. Politiche pubbliche non “a pioggia” ma condizionate: se lo Stato considera l’informazione un asset strategico, allora la tutela del pluralismo non può ridursi a un comunicato. Serve una cornice di garanzie, altrimenti “strategico” diventa solo un’etichetta buona quando conviene.
5. E, soprattutto, una resa dei conti culturale: smettere di chiamare “libertà di stampa” la libertà del proprietario di ristrutturare, tagliare, vendere. Quella è libertà d’impresa. La libertà di stampa è un’altra cosa: è il diritto dei cittadini a non essere governati dall’ignoranza, dalla propaganda e dalla paura di disturbare il padrone.
Perché qui sta l’evocazione più cupa: non è solo una vendita. È un segnale. Un altro. L’ennesimo. Di un pezzo di classe dirigente che, dopo aver legato per decenni il proprio nome a un Paese, ora tratta quel Paese come un mercato qualsiasi: si investe dove rende, si disinveste dove pesa, si lascia la retorica ai comunicati. E se serve, si usa perfino la parola “libertà” come una carta di credito morale: una passata veloce sul lettore, e via.
E in mezzo restano i lavoratori. Operai ieri, giornalisti oggi, precari sempre. E resta un’opinione pubblica che viene invitata a commuoversi a comando: solidarietà quando “serve”, indignazione quando “conviene”, silenzio quando bisogna guardare in faccia il fatto che il problema è strutturale.
Se la democrazia è anche una conversazione collettiva, oggi quella conversazione è in mano a chi la può mettere all’asta. E questo, scusatemi la brutalità, non è un incidente: è un modello. Sta a noi decidere se accettarlo come metodo, o trattarlo per quello che è: un conflitto politico. Non ci interessa essere compatibili con chi compra e vende tutto. Ci interessa essere utili a chi non vuole essere comprato e venduto.
Fonti essenziali
Reuters (11–12 dicembre 2025) sulla trattativa GEDI-Exor con Antenna Group e sulle richieste del governo italiano.
RaiNews sulla trattativa esclusiva e sull’agitazione delle redazioni.
Il Post sulla conferma interna e sulle proteste dei giornalisti.
Corriere della Sera sui dettagli dell’offerta e sulle tensioni.
(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com
LA VIGNETTA – scelta dalla redazione della “bottega” – è del nostro Chief Joseph: vecchia di qualche settimana ma sempre vera.
