NEL PROFONDO
racconto di Riana Rocchetta
In lontananza si scorgono le luci della città, agghindata a festa per la notte di Halloween. Un paio di zucche intagliate poste sulle colonne all’ingresso del parco lasciano intravedere la luce tremolante delle candele al loro interno.
In piedi, di lato a una panchina, tre personaggi discutono nel buio,
«Hai la roba?» chiede il più giovane dei tre, capello biondo ingellato, diritto sulla testa.
«Certo, ma prima fammi vedere i soldi.» risponde il più alto, sguardo da duro, che comunque, col buio che c’è non si nota.
«Non funziona così,» insiste il primo, «mi prendi per scemo? Adesso mi fai vedere la roba e, casomai, me la fai anche assaggiare.»
Il più basso, calvo e con gli occhiali, si vede che è un gregario, interviene per dar manforte al Biondo:
«Avanti, tira fuori la roba se non vuoi finire male.» e mette una mano in tasca, forse in cerca di un coltello ma Sguardo Da Duro non sta al gioco e gli blocca il gesto stringendolo al polso
Per difendere il compare il Biondo lo spintona, lui perde l’equilibrio, cade all’indietro e non si muove più.
I due lo osservano per un minuto buono, poi il Biondo si china a guardarlo da vicino e lo scuote.
«È morto,» commenta.
«Sei sicuro?» chiede l’altro chinandosi a sua volta.
«È morto. C’è una pietra sotto la sua testa.»
«L’hai ammazzato,» farfuglia il piccoletto.
«Io gli ho solo dato una spinta, è lui che è cascato e ha sbattuto la testa.»
«E ora che facciamo?» il tono della sua voce sta diventando isterico.
«Calmati e fammi pensare,» dice il Biondo al quale la coca lascia credere di essere un genio.
Si china di nuovo e solleva il corpo da sotto le ascelle
«E tiragli su quei piedi, vuoi far fare tutta a fatica a me?» borbotta a denti stretti.
«Ma dove lo vuoi mettere?»
«Laggiù, lo so io. E tiragli su quei piedi.» Indica con un cenno del capo una direzione alle sue spalle. «Là dove stanno facendo i lavori, nel cantiere. lo buttiamo, giù in qualche buco. Hanno sospeso tutto, non l’hai letto il cartello? Per qualche giorno non lo troveranno.»
«Qui,» dice il Biondo lasciando cadere il corpo, «sposta quell’asse. Questa mi sembra proprio una bella fossa.»
«Ma non si vede niente,» brontola il Calvo,
«E che cazzo devi vedere, sposta quell’asse, sbrigati.»
Il morto rotola a terra. Lo colpiscono con un paio di calci poi il Biondo lo spinge col piede per farlo rotolare oltre il bordo. Attendono il tonfo dell’uomo sul fondo della buca ma non si sente niente, nemmeno un piccolo patapunfete.
«Bello profondo,» commenta il Calvo, «magari non lo trovano neppure.»
«Quando gli operai cammineranno in questo pantano si cancelleranno anche le impronte,» sogghigna il Biondo. «Gli hai preso la roba?»
«Che roba?»
«Stava facendo le consegne, di sicuro aveva le tasche piene.»
«Io…,» balbetta il Calvo, «credevo che lo avevi frugato te.»
«Sei proprio un idiota,» dice il Biondo, «andiamo, prima che arrivi qualcuno.»
Sputa nel buco e si allontana barcollando, tallonato dal suo compare.
Badabanghete!
«Ehi,» esclamò il signor Satō. Il tonfo li aveva fatti scattare in piedi in una posizione di all’erta molto improvvisata.
Sopra la tavola stava scomposto, bagnato e sporco di fango, Jimmi Meta, o semplicemente Meta, dove Meta stava per metanfetamina, sua principale fonte di entrate.
Jeans sdruciti, giacca di pelle, testa rasata e imbrattata di sangue, non fosse stato per l’aria perplessa e smarrita con la quale si guardava intorno lo si sarebbe detto un vero duro.
«Ma che cavolo,» disse il signor Satō, cercando di togliere uno schizzo di fango dalla lunga tunica immacolata, «chi ha lasciato aperto il passaggio?»
«Io no di sicuro,» disse la donna, anche lei vestita con una lunga tunica bianca.
«Io neppure,» disse la ragazzina molto incinta, scuotendo come un ventaglio, in segno di diniego, i lunghi capelli neri che le coprivano a tratti il viso molto pallido.
Gli occhi dei tre si puntarono su una bimba piccola e paffutella, vestita di bianco come gli altri, con due buffi codini intrecciati sopra le orecchie che si guardava intorno fingendo disinvoltura
«Ehm, scusate se vi interrompo,» tossicchiò Il Meta, ancora sopra la tavola, «dove mi trovo?»
«Sei stata tu ad aprire il portale?» tuonò il signor Satō rivolto alla piccola, ignorando di fatto la domanda dell’uomo.
«Volevo fare dolcetto scherzetto,» piagnucolò la bambina, «non me lo fate mai fare.» e iniziò a piangere sul serio
«Mi dite dove sono, chi siete voi e cosa ci faccio qui?» ripetè Jimmy Meta alzando un poco la voce
«Io sono Hiroschi Satō,» l’uomo fece un leggero inchino, «questa è mia moglie Izumi Satō,» la donna fece un leggero inchino, «e queste sono le mie figlie Sakura e la piccola Aiko.»
Sakura guardò Il Meta con disprezzo mentre la bimba piccola non smetteva di piangere
«Lei è morto e questa è casa nostra.» disse il signor Satō. «Cara, prendi su Aiko-chan e falla smettere prima che le dia una sberla.»
«Sono morto?» l’uomo parve riflettere sulla parola. «In che senso?»
«Ah, ma allora guardi, gliela dico tutta così si risparmia le altre domande lei stava su di sopra con due tizi a fare nonsoché e poi uno le ha dato un cazzotto, o una spinta, e lei è caduto battendo la testa su una pietra. É morto. Garantito. Se si mette un dito lì, sì, proprio lì può entrare e grattarsi il cervello. Provi.»
Effettivamente il dito gli entrava in qualche modo nella testa; Il Meta lo estrasse e annusò il grumo scivoloso che stava colando sulla mano..
«Me ne vado,» disse scendendo dal tavolo, «dov’è l’uscita?»
«Da dove è entrato.» il signor Satō indicò il buco nel soffitto «Ma se vuole andare lo faccia subito perché noi abbiamo una performance impegnativa, fra poco»
Jonny Meta guardava in alto.
«Lassù, ma non c’è la scala…»
«Non le serve,» disse il padrone di casa, «si concentri e salirà in automatico.»
Spostò un poco il tavolo e lo spinse con gentilezza sotto il buco dal quale era piombato poco prima.
«Si concentri sul fatto che sta salendo, pensi intensamente…»
Niente.
«Ci riprovi, pensi forte…»
Il Meta era ancora visibilmente confuso ma bofonchiò:
«Salgo, vado su. Vado su. Vado su.»
Niente.
«Credo che questa possibilità sia riservata solo a noi.» azzardò la signora Satō. «Caro, non te la prendere, vedrai che andrà tutto bene. Sa,» di nuovo si rivolse all’ospite, «di solito l’apparizione la fa nostra figlia, ci vuole una giovane per questa cosa ma come può vedere, con quella pancia, quella disgraziata…» e qui si interruppe puntando un dito accusatore verso la ragazzina.
Questa era una adolescente graziosa, molto pallida con grandi occhi neri e profondi resi ancora più scuri da una massiccia dose di kajal. I capelli, neri come il carbone le scendevano lunghi fin quasi alla vita.
«Su,» disse la mamma che si era intenerita nel guardarla, «scostati i capelli dal viso, fai vedere al signore come sei bella.»
Mentre Il Meta guardava su in alto, nel buco, e si poteva quasi vedere il suo sforzo di concentrazione per elevarsi dal suolo la signora Satō, depose la figlia piccola, finalmente calma, e continuò dal punto in cui si era interrotta: «Sakura non sarebbe proprio credibile, quindi abbiamo deciso che quest’anno vado su io. Proprio quest’anno» si lamentò la signora, «che mio marito stava per ottenere un contratto con la BBC, perché, basta, va bene l’amore per l’arte ma è ora che anche noi ci tiriamo su qualcosa.»
«Posso andare fuori a fare dolcetto scherzetto?» Ricominciò la piccola.
Il Meta si distrasse un attimo dal suo intento e guardò la bimba con tenerezza, anche lui aveva avuto una famiglia, tanto tempo prima, si frugò nelle tasche e trovò bustina piena di cristalli bianchi
«Tieni», disse alla bimba.
Lei saltellò felice: «Dolcetto,dolcetto».
«Vatti a preparare» intervenne il Signor Satō rivolto alla moglie, «intanto che cerco di spedire questo qua.»
Il questo qua continuava a stare in piedi, malfermo sulle gambe, di nuovo concentrato sul chiarore della luna all’estremità del tunnel dal quale era venuto e ripeteva: «salgo su, salgo su,» come un mantra del tutto inefficace.
La padrona di casa, che era sparita per qualche minuto, ritornò travestita da adolescente molto pallida, con la gonna scozzese a pieghe, la camicetta e i calzettoni bianchi, gli occhi bistrati e una parrucca, di capelli neri in mano.
«Aiutami,» disse al marito, che le sistemò la parrucca in modo che i capelli, lunghi e neri, le ricadessero davanti al viso.
«Come sto?» chiese ai presenti facendo una piroetta
«Grassa e vecchia, non sei credibile.» disse Sakura.
«Qualcuno mi trattenga dall’ucciderla.»
«Non puoi, non sono viva.»
«Silenzio allora,» sibilò la signora Satō rivolta alla figlia. «Allora vado? Accompagnami caro, non so se ce la farò. Ma, scusa,» disse guardandosi intorno, «dov’è la piccola? Non sarà andata fuori? Lei,» si rivolse al Meta con urgenza, «cosa c’era in quel sacchetto che le ha dato?»
«Speed, credo o mdma, o crack…» elencò Il Meta contando sulle dita di una mano
«Oddio,» gridò il signor Satō, «devo andare a cercarla prima che faccia un casino.»
Detto fatto, schizzò come un razzo verso l’apertura del pozzo.
«Ma, ma,» disse Jimmy Meta, «perché io non posso andare fuori?»
«Ma che cazzo ne so.» la signora Satō aveva perduto il suo aplomb e stava diventando scortese «Io devo andare,» disse alla figlia, «tu stai qui a controllare.»
«Ma col cavolo! Io potrei partorire da un momento all’altro e mi lasciate qui da sola con questo energumeno?»
«Devo andare, è tardi» disse Izumi Satō e si incamminò a passo svelto per un corridoio.
«Ma non va su?» chiese Il Meta puntando in alto un dito
«Quella è una delle entrate di servizio,» disse Sakura con un’alzatina di spalle, il numero si fa uscendo dalla porta principale.»
Il Calvo si è addormentato strafatto, accasciato sul divano. Il Biondo gli allunga una spallata ogni tanto onde evitare che gli caschi addosso. Troppo fatto anche per dormire si sta rollando una canna mentre segue con mezzo occhio il film in tv, una pellicola cult in bianco e nero, un classico della notte di Halloween. È il momento clou del film: quello in cui la bambina esce dal pozzo, gattona verso il primo piano mostrando solo la cascata di capelli che le copre la faccia, poi solleva la testa e scopre il volto mostrando tutto il suo orrore di zombie. Ci siamo, sta uscendo dal pozzo, è quasi uscita, lentamente, quand’ecco che una mano, seguita da un braccio, prende la figura per una caviglia. A quel punto lei si volta indietro e inizia a calciare il braccio col piede libero, ma quello non la molla, anzi si aggrappa ancora più forte e mentre la bambina inizia a chiamare aiuto esce dal pozzo anche una testa.
A quel punto il Biondo spalanca tutti e due gli occhi.
«Ehi,» inizia a scuotere il Calvo; lo strattona finché questo non apre gli occhi e allunga in automatico una mano per prendere la canna.
«Che c’è, che cazzo vuoi?»
«Non ci crederai ma c’è Il Meta per televisione.»
Nel frattempo Jimmy Meta è uscito completamente dal pozzo, ha spintonato di lato la signora Satō, nel superarla le ha strappato la parrucca e sta guadagnando terreno, gatton gattoni, verso il primo piano. Quando fissa lo sguardo in telecamera i suoi occhi sono nerissimi, incavati, cerchiati di nero, incastonati in una faccia pallida da cadavere col cranio imbrattato di una sostanza scura che, dato il bianco e nero del film, si suppone sia sangue. Mentre, paralizzati dal terrore, Il Biondo e il Calvo si svegliano di colpo dagli effetti della droga una mano, seguita dal braccio, improvvisamente a colori, esce dallo schermo.
