Operaicidio di Stato
di Mario Sommella (*)
Perché chi muore in cantiere è già una “vittima del dovere”
In Italia, nel 2024 sono morte sul lavoro 1.090 persone, quasi il 5% in più rispetto all’anno precedente. Significa fra tre e quattro lavoratori al giorno, ogni giorno dell’anno, che escono di casa per guadagnarsi da vivere e trovano la morte.
Nel primo semestre del 2025 le denunce con esito mortale si assestano comunque intorno a quota cinquecento: una media di circa un morto ogni otto ore, mentre i comunicati ufficiali provano a rassicurare parlando di lievi cali percentuali.
Dentro questo numero enorme, c’è un altro dato che dovrebbe togliere il sonno a chiunque: nei soli cantieri edili, nei primi sei mesi del 2025, i morti sono stati 53. Un lavoratore ogni tre giorni.
È in questo contesto che la Fillea Cgil ha lanciato la sua iniziativa “La Repubblica delle vittime del dovere”, chiedendo una cosa che a molti sembrerà persino ovvia: chi muore lavorando dev’essere riconosciuto, anche giuridicamente, come vittima del dovere. Non solo il poliziotto, il militare, il magistrato – giustamente tutelati – ma anche l’operaio che precipita da un ponteggio, l’autista che muore sull’autostrada, il bracciante schiacciato da un trattore.
Dietro questa richiesta non c’è solo un’esigenza simbolica: c’è l’idea, radicale e semplice, che il lavoro non sia una faccenda privata fra datore e dipendente, ma un pezzo di sovranità repubblicana. Se è così, allora chi perde la vita “nell’adempimento dei propri doveri di lavoratore” l’ha persa anche per lo Stato. E lo Stato non può continuare a comportarsi come se fosse un incidente qualunque.
Un Paese che si abitua al sangue
Se guardiamo la curva lunga, ci raccontano che “le morti sono in leggera diminuzione” o “stabili”. Poi però scopriamo che il tributo complessivo resta pesantissimo: oltre 1.200 decessi all’anno secondo la relazione Inail 2024, con l’istituto stesso che ammette un bilancio di 3–4 morti al giorno.
E c’è un altro dato che urla vendetta: nel 2024 l’Italia ha registrato circa 34 morti sul lavoro per milione di lavoratori, contro i 13 della Germania e i 20 della Francia. Siamo stabilmente in cima alla classifica europea, a fianco della Spagna che si ferma comunque sotto i nostri livelli.
Non è una fatalità mediterranea. È un modello produttivo.
Il settore delle costruzioni ne è la cartina di tornasole. Nel 2024, con 176–182 morti in occasione di lavoro (a seconda delle elaborazioni), l’edilizia è il comparto con più decessi in Italia, e in Europa raggiunge quasi un quarto di tutte le morti sul lavoro.
Tradotto: mentre celebriamo il “rilancio delle opere pubbliche”, “l’effetto PNRR”, “la ripresa dell’edilizia”, sappiamo benissimo che ogni crescita di questo settore porta con sé una quota prevedibile di morti. E continuiamo lo stesso.
L’“operaicidio” dei subappalti a cascata
La Fillea Cgil ha il coraggio di chiamare questo fenomeno con un nome crudo: “operaicidio”. Non è solo un modo forte di parlare di “morti bianche”. È il rovesciamento di un lessico ipocrita che per anni ha provato a far passare il lavoro come un terreno neutro, dove al massimo avvengono “incidenti”.
Se andiamo a vedere dove e come avvengono questi “incidenti”, il quadro è chiarissimo: catene di subappalti, ribassi al massimo, turni spezzati, contratti pirata, formazione ridotta a firma su un foglio.
Il meccanismo del subappalto a cascata è presto detto:
un’impresa vince una gara; scarica parte dei lavori a una seconda impresa; che a sua volta subappalta a una terza; e così via, in una giungla di rapporti formali e informali che rende quasi impossibile individuare il vero “padrone del rischio”.
In fondo a questa catena c’è spesso la microimpresa a tre o quattro addetti, magari mono-committente, che regge tutto il peso della produzione e tutti i rischi. Non a caso, gli studi Inail mostrano che oltre il 40% degli infortuni mortali riguarda proprio le microimprese sotto i 10 dipendenti, e un altro 15% le piccole aziende sotto i 50: quasi il 60% dei morti è concentrato nelle realtà più deboli del sistema.
È qui che l’“operaicidio” prende forma: non nei grandi proclami, ma nella quotidiana compressione dei costi. Il ribasso vince, il subappalto scarica la responsabilità, il lavoratore è il punto in cui tutta la tensione della catena si spezza.
“Patente a crediti”: la grande illusione burocratica
Dal 1° ottobre 2024 è obbligatoria nei cantieri la famosa patente a crediti. Sulla carta, doveva essere la svolta: più sicurezza, più controlli, più responsabilità. Ogni impresa parte con un punteggio, che può essere decurtato in caso di violazioni e incidenti gravi, fino alla sospensione dall’attività.
Ma nella realtà, come denuncia la Fillea, il sistema è costruito per non fare male a nessuno (se non ai più piccoli). La norma prevede infatti che la decurtazione dei punti scatti solo dopo un provvedimento definitivo: cioè dopo che tutto il percorso giudiziario – indagini, primo grado, appello, Cassazione – si è chiuso.
In un Paese dove un processo per omicidio colposo sul lavoro può durare sette-otto anni, questa scelta significa una cosa sola: un’impresa può provocare oggi la morte di un operaio e continuare tranquillamente a lavorare per quasi un decennio prima che la patente subisca una decurtazione. Sempre che il reato non cada in prescrizione, o che il fatto non venga derubricato.
In compenso, la patente grava di adempimenti e costi le imprese più piccole che lavorano in regola, mentre lascia sostanzialmente intatto il modello di business di chi campa sul ribasso e sul sommerso. È un perfetto strumento di “scarico in giù”: ai piani alti del sistema tutto resta com’è, ai piani bassi si aggiunge un po’ di burocrazia.
Non è un caso se, nonostante la patente e le promesse di più ispezioni, i morti nel 2024 sono aumentati e il 2025 si apre con numeri che restano drammaticamente alti.
Una Procura del lavoro: mettere l’operaio sullo stesso piano delle vittime di mafia
Fra le proposte più forti avanzate dalla Fillea c’è l’istituzione di una Procura nazionale e di procure distrettuali del lavoro, sul modello di quelle antimafia. Non una trovata simbolica, ma una risposta alla realtà: oggi le indagini sugli infortuni mortali sono frammentate in decine di procure, spesso piccole, spesso prive di competenze tecnico-specialistiche adeguate sui temi della sicurezza, della catena degli appalti, della responsabilità d’impresa.
Il risultato lo conosciamo: fascicoli che si arenano, consulenze raffazzonate, perizie che non ricostruiscono la filiera delle responsabilità ma si fermano al capocantiere di turno. Troppo spesso la morte di un lavoratore viene trattata come un “fatto locale”, un incidente fra tanti, invece che come un fenomeno sistemico che coinvolge appalti pubblici, grandi imprese, catene logistiche, governance del PNRR.
Una Procura del lavoro significherebbe:
indagini coordinate a livello nazionale; banche dati comuni su imprese recidive, modelli di infortunio, catene di subappalto; nuclei stabili di periti e consulenti in grado di leggere i cantieri, i bilanci, i capitolati.
In altre parole: prendere sul serio le morti sul lavoro come prendiamo sul serio mafia e terrorismo. Perché oggi le statistiche ci dicono che in termini di vittime, il “terrorismo del profitto” uccide molto di più.
Vittime del dovere: una questione di giustizia, non di retorica
Riconoscere tutte le vittime del lavoro come “vittime del dovere” non è solo un gesto simbolico. È una riforma che chiama in causa diritti concreti: pensioni di reversibilità, tutele per coniugi e figli, indennizzi, accesso facilitato ai concorsi pubblici, percorsi di sostegno psicologico ed economico.
È il modo per dire che lo Stato riconosce una verità elementare: chi muore in un cantiere pubblico o in una fabbrica che produce per il mercato interno non stava “facendo un affare personale”, stava contribuendo – nel suo piccolo – alla ricchezza collettiva. Tanto quanto chi indossa una divisa.
Oggi, invece, le famiglie delle vittime si trovano spesso in una doppia condanna: quella della perdita affettiva ed economica, e quella di dover pagare di tasca propria avvocati, periti, spese di causa, mentre dall’altra parte siedono assicurazioni, grandi gruppi, strutture tecniche. La richiesta di patrocinio legale gratuito per i familiari delle vittime del lavoro – sul modello di quanto già previsto per le vittime di violenza sessuale – è il minimo che lo Stato possa fare dopo non essere riuscito a proteggere i suoi cittadini.
Se chi muore lavorando diventa a pieno titolo “vittima del dovere”, allora lo Stato è costretto a guardare in faccia le proprie omissioni e a farsi carico non solo dell’indennizzo Inail, ma di un percorso di giustizia.
La radice del problema: quando il costo della vita pesa meno del costo del lavoro
Le statistiche Inail raccontano anche un’altra verità scomoda. L’incidenza maggiore degli infortuni mortali cade:
nei settori a più alta intensità di sfruttamento fisico: costruzioni, agricoltura, trasporti e logistica; nelle regioni dove il tessuto produttivo è più fragile, il lavoro più precario, i controlli più rari; nelle micro e piccole imprese che spesso vivono perennemente sul filo del ribasso, schiacciate dalla concorrenza di grandi gruppi e appalti al massimo ribasso.
In questo quadro, parlare solo di “educazione alla sicurezza” o di “comportamenti imprudenti dei lavoratori” è una colossale ipocrisia. La verità è che in troppe filiere il costo della vita pesa ancora meno del costo del lavoro: un parapetto in meno, un ponteggio montato in fretta, una formazione saltata “perché non c’è tempo”, un DPI non acquistato “perché costa”.
Se guardiamo i numeri freddi, li chiamiamo “infortuni mortali”. Se ascoltiamo i racconti dei compagni di cantiere e dei familiari, vediamo spesso una sequenza ripetuta di allarmi inascoltati, segnalazioni ignorate, “così si è sempre fatto”, “così lavorano tutti”. È questo che rende il termine “operaicidio” così aderente alla realtà: non è l’incidente imprevedibile, è la cronaca di una morte annunciata.
Da emergenza a scelta politica
Riconoscere le vittime del lavoro come vittime del dovere, creare una Procura del lavoro, limitare i subappalti a un solo livello con responsabilità solide del committente, superare la patente a crediti per costruire un vero sistema di sanzioni rapide ed efficaci: tutto questo non è un “pacchetto tecnico”.
È una scelta politica di campo.
O continuiamo a ripetere, ogni volta che un decesso apre un buco nella cronaca, le solite frasi di circostanza – “mai più”, “serve più sicurezza”, “stiamo studiando nuove norme” – mentre le statistiche restano inchiodate su tre o quattro morti al giorno. Oppure decidiamo che la vita di chi lavora non è una variabile indipendente del Pil, ma il parametro fondamentale con cui giudicare la salute di una democrazia.
Chiamare “vittime del dovere” gli operai che muoiono in cantiere significa, in fondo, una cosa molto semplice: dire che la Repubblica si regge sul loro lavoro almeno quanto sulle uniformi che aprono le parate del 2 giugno. E che ogni volta che uno di loro cade da un ponteggio, non è solo un caso di cronaca: è una sconfitta dello Stato.
Fino a quando non avremo il coraggio di dirlo apertamente, continueremo a contare i morti, a discutere di percentuali e a consolarci con i decimali. Ma un Paese che accetta un “operaicidio” permanente non è un Paese normale: è una democrazia che ha deciso, giorno dopo giorno, che la vita di chi lavora vale meno del profitto di chi appalta.
(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com
