Referendum giustizia: cosa c’è in gioco

di Mario Sommella (*). A seguire alcuni link utili ripresi dalla newsletter di Libertà e giustizia.

La separazione delle carriere come grimaldello del potere: le tre “confessioni” che svelano il rischio per la democrazia

Non riesco a guardare al referendum sulla separazione delle carriere come a un semplice dibattito tecnico tra giuristi o come a una disputa corporativa interna alla magistratura. Per me è un test di tenuta democratica. Perché attorno a questa riforma non si sta discutendo solo di organigrammi, ma della forma concreta dell’equilibrio tra poteri nello Stato. E paradossalmente proprio chi la promuove sta offrendo le prove più chiare di quanto sia pericolosa.

La riforma costituzionale approvata dal Parlamento nel 2025 introduce tre cambiamenti strutturali: carriere separate e non comunicanti tra giudici e pubblici ministeri; due CSM distinti, uno per i giudici e uno per i PM, con membri in parte estratti a sorte; una nuova Alta Corte disciplinare esterna ai CSM. Non essendo passata con i due terzi, andrà a referendum confermativo senza quorum, con voto previsto entro metà marzo 2026. Non è un dettaglio procedurale: quando un governo decide di riscrivere pezzi della Costituzione e chiede ai cittadini di confermarli, ogni parola detta in campagna pesa come piombo.

 

Dentro questo scenario, vedo tre fatti emblematici. Tre segnali che sembrano crepe in un argine: rivelano l’obiettivo reale della riforma e, insieme, la sua fragilità politica.

Primo fatto: la promessa di togliere il “fiato sul collo” ai governi
Il ministro Nordio ha detto, in sostanza, che la principale opposizione dovrebbe sostenere la separazione delle carriere perché, quando tornerà a governare, potrà beneficiarne: non avrà più i pubblici ministeri a controllare, a indagare, a disturbare l’azione dell’esecutivo. Io qui non vedo una gaffe. Vedo una dichiarazione d’intenti. Se una riforma viene difesa dicendo che serve a rendere i PM meno capaci di mettere sotto pressione il potere politico, allora non è una riforma per la giustizia: è una riforma per il governo di turno.

Nella Costituzione italiana il pubblico ministero è parte dell’ordine giudiziario proprio per garantire che l’azione penale resti autonoma dalla politica. Separare rigidamente le carriere può anche essere discusso in astratto, ma nel momento in cui la sua giustificazione diventa “così chi governa respira”, il velo di neutralità cade. Non si sta rafforzando il processo accusatorio: si sta indebolendo un contrappeso democratico.

 

Secondo fatto: la normalizzazione di Gelli e della P2
La seconda esternazione è ancora più grave: Nordio ha dichiarato che anche Licio Gelli diceva cose giuste, e quindi sulla separazione delle carriere si potrebbe perfino seguirne l’impostazione. Qualcuno ha provato a liquidarla come battuta da salotto, il classico “anche un orologio rotto…”. Ma a me interessa il punto politico e storico. La separazione delle carriere era un pilastro del Piano di Rinascita Democratica della P2, un progetto giudicato eversivo, costruito per piegare magistratura e informazione al controllo dell’esecutivo.

E qui va detto con chiarezza ciò che la storia giudiziaria e le sentenze ci hanno consegnato: la P2 non fu solo una loggia “occulta” con un progetto di Stato parallelo. Fu un nodo operativo delle trame che attraversarono la stagione delle stragi. Le indagini e i processi sulla strage del 2 agosto 1980 hanno accertato il ruolo di Gelli e di apparati deviati nel depistaggio e nelle coperture, e nelle motivazioni giudiziarie emerge anche il quadro di relazioni e sostegni finanziari che legavano quel mondo ai circuiti neofascisti responsabili dell’attentato alla stazione di Bologna. Non è un dettaglio di colore: è l’ombra lunga di una rete che ha alimentato, protetto e finanziato quella strategia di morte.

 

Quando il ministro della Giustizia, nel pieno di un referendum costituzionale, cita con benevolenza quel retroterra, sta compiendo un gesto di legittimazione. E in un Paese che ha conosciuto trame, stragi, apparati infedeli e connivenze, quel gesto non è folklore. È un segnale di direzione. È come se si volesse dire: non vi preoccupate se questa riforma ha una genealogia inquietante, prendiamone il “buono” e andiamo avanti. Ma io non ci sto. Perché quel “buono”, in quel contesto, era parte di un disegno di dominio, non di giustizia.

Terzo fatto: la strumentalizzazione di Falcone e Borsellino da parte della destra
Il terzo elemento non riguarda una frase di Nordio, ma un comportamento politico diffuso nei partiti di destra che sostengono il sì: Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia continuano a evocare Falcone e Borsellino come se fossero testimonial postumi della riforma. È una pratica che trovo sgradevole e pericolosa. Prendere frammenti di pensiero, estrapolarli, piegarli a uno slogan referendario significa usare la memoria come clava.

Falcone e Borsellino non sono bandierine da piantare sulla riforma. Sono un metro severo con cui misurare il rapporto tra giustizia e potere. E quel rapporto oggi torna al centro proprio perché la riforma ridisegna l’architettura della magistratura: due corpi separati, due CSM meno rappresentativi per via del sorteggio, e un’Alta Corte disciplinare esterna che rischia di diventare un giudice speciale mascherato. Se si vuole discutere di questa roba, lo si faccia nel merito. Senza tirare per la giacca i morti.

 

Il problema reale è minuscolo, l’effetto è gigantesco
C’è poi un dato che rende tutto ancora più chiaro: il passaggio di magistrati da PM a giudice, o viceversa, è numericamente ridotto. Parliamo di poche decine di casi l’anno. Allora perché una riscrittura costituzionale così profonda? Perché rifare le fondamenta della casa se la finestra cigola? A me pare evidente che il punto non sia correggere un difetto marginale, ma cambiare l’equilibrio generale: isolare il PM, renderlo più vulnerabile a un controllo politico diretto o indiretto, spostare l’asse del potere verso l’esecutivo.

Le ragioni del sì e la loro debolezza politica
So bene cosa dicono i sostenitori della separazione. Parlano di terzietà del giudice, di parità delle armi nel processo accusatorio, di fine del correntismo grazie al sorteggio nei CSM. Argomenti che, sulla carta, hanno una loro dignità e andrebbero affrontati seriamente.

Ma oggi il sì campa su una contraddizione fatale. Per vincere deve presentarsi come riforma “liberale”, garanzia per l’imputato, modernizzazione del processo. Però le parole e i riferimenti simbolici del campo governativo la svelano come riforma “di controllo”, utile a chi governa per avere meno inchieste, meno disturbo, meno vigilanza. Questa doppia anima rischia di esplodere nelle urne, perché spaventa non solo l’opposizione, ma anche settori garantisti che non vogliono consegnare ai partiti un pubblico ministero indebolito.

 

Un referendum sul presente, non sul Codice
Ecco perché, a mio avviso, questo referendum non parla di tecnica giudiziaria. Parla di presente. Parla di quanto potere vogliamo lasciare a chi governa senza controlli effettivi. Parla della qualità della nostra democrazia. Se il PM viene separato culturalmente e istituzionalmente dal giudice, e se la narrazione politica che accompagna la riforma è “così i governi non avranno più il fiato sul collo”, allora non siamo davanti a un aggiustamento del sistema. Siamo davanti a un cambio di passo costituzionale che spinge nella direzione di uno Stato più verticale, meno controllabile, più impermeabile alle indagini sui piani alti.

Per questo dico con chiarezza che questa riforma è un grimaldello del potere. E le stesse parole di chi la guida lo dimostrano. Non perché abbiano sbagliato una battuta, ma perché hanno lasciato intravedere il cuore dell’operazione: meno controllo sul potere, più potere sul controllo. In un’Italia che ha già pagato carissimo le sue stagioni di opacità e di Stato parallelo, questo è un rischio che non possiamo permetterci di sottovalutare.

(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com

LINK ripresi newsletter@libertaegiustizia.it

Lo svilimento della revisione costituzionale per scopi di maggioranza 
di ANTONIO D’ANDREA. Sarà un referendum politico: oppositivo per l’opposizione e confermativo per la maggioranza che lo ha fortemente voluto. L’impegno è difendere la Costituzione e il suo sapiente equilibrio tra poteri. A tutela di tutti i cittadini. Non solo della magistratura.

Silvia Albano “Giudici deboli e Pm docili: il nostro No a garanzia dei cittadini” ▫︎ L’Espresso

✒️ Nino di Matteo “Una legge contro l’autonomia e l’indipendenza della magistratura” ▫︎ Radio Popolare

✒️ Alfiero Grandi Il no al referendum per difendere la democrazia ▫︎ Strisciarossa

✒️ Rino Formica Quei magistrati troppo disponibili col regime di destra ▫︎ Domani 

✒️ Editoriale QG Referendum: retorica della comunicazione e “partecipazione invisibile” ▫︎ Questione Giustizia

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