Salute: prestazioni universali, favori, diritti e Meloni

di Mario Sommella (*)

La cura negata: il flop della “prestazione universale” e la sindrome del cambiare tutto

L’idea era potente sulla carta: unire accompagnamento e un aiuto aggiuntivo per gli ultraottantenni più fragili. Nella pratica, però, la “prestazione universale” ha toccato pochissimi, lasciando in sospeso migliaia di famiglie e mostrando una tendenza politica ormai chiara: mettere mano ai diritti sociali e sanitari senza rafforzare davvero ciò che serve ai cittadini più fragili . È solo incompetenza o c’è una precisa regia che sposta costi e responsabilità dai livelli garantiti per Costituzione a quelli più deboli e negoziabili?

Il quadro politico: la spinta a riscrivere la Carta e a comprimere i diritti dei più deboli

Qui sta il punto che non va eluso. L’attuale maggioranza, erede di una tradizione che non partecipò alla costruzione della Costituzione repubblicana, coltiva una pulsione a “cambiare tutto”: non per aggiornare i diritti, ma per riscrivere gli equilibri in favore dell’esecutivo e contro i contrappesi. È la stessa logica che ritroviamo nel premierato, nell’autonomia differenziata, nella separazione delle carriere dei magistrati, nelle strette d’ordine pubblico: si sposta il baricentro dall’universalismo dei diritti alla gerarchia del comando. In questa cornice, i diritti sociali non sono più garanzie esigibili ma concessioni condizionate, erogate a platee via via più ristrette. È una sindrome, sì, ma non casuale: è la continuità culturale di chi, per storia e riferimenti, non riconosce nella Costituzione il patto antifascista di cittadinanza eguale e tende a ridurla a carta di governo. Il risultato lo vediamo proprio sulla non autosufficienza: si introducono ostacoli anagrafici, reddituali e burocratici che violano lo spirito dell’articolo 3 (rimuovere gli ostacoli), colpendo i più fragili e gli ultimi, mentre cresce il potere discrezionale dei livelli amministrativi e si depotenziano i Livelli Essenziali di Assistenza. “Cambiare tutto” diventa così un programma politico: comprimere l’universalismo, selezionare i beneficiari, normalizzare l’idea che i diritti siano privilegi revocabili. E i “nipotini del Duce” (per usare l’immagine tanto diffusa quanto efficace) si rivelano bravissimi nel governare con l’arma dell’esclusione: più regole per i deboli, più libertà per chi già ha potere.

Che cos’è davvero la “prestazione universale”

La misura, introdotta in via sperimentale nel 2025, unifica la quota fissa pari all’indennità di accompagnamento e una quota integrativa fino a 850 euro al mese per acquistare lavoro di cura o servizi. Ma l’accesso è strettissimo: età almeno 80 anni, ISEE sociosanitario non oltre 6.000 euro e condizione di bisogno “gravissimo” definita da criteri clinici molto selettivi. Dal 2 gennaio 2025 al 31 dicembre 2026 è possibile fare domanda all’INPS.

I numeri della delusione

Sulla platea teorica di circa 25 mila aventi diritto, i beneficiari effettivi sono risultati intorno a duemila nei primi mesi, con un numero di domande nettamente inferiore alle attese. Anche stime intermedie parlano di poche migliaia di richieste e di esiti positivi sotto la metà. Un fallimento di design, prima ancora che di spesa.

Perché ha funzionato così poco

Il cuore del problema sta nel paradosso normativo. La riforma anziani (legge 33/2023) ha alimentato il rischio di spostare la tutela delle persone non autosufficienti dall’area dei diritti sanitari esigibili ai livelli sociali, meno garantiti. Giuristi come Giovanni Maria Flick lo hanno detto chiaramente: comprimere la presa in carico sanitaria in favore dell’assistenza sociale significa indebolire una protezione costituzionalmente presidiata. Anche analisi indipendenti hanno segnalato incoerenze dei decreti attuativi rispetto ai principi della delega.

Il caso RSA, Alzheimer e “quote” che non tornano

Quando la gravità clinica rende indistinguibili prestazioni sanitarie e sociosanitarie, la retta nelle RSA dovrebbe essere coperta secondo riparti fissati dai LEA. In generale, la regola è la compartecipazione al 50 per cento tra Servizio sanitario e persona, ma in diversi territori le famiglie si ritrovano a pagare più del dovuto, fino all’intero importo. La giurisprudenza ha riconosciuto in più casi che, per i malati più gravi, la spesa è integralmente sanitaria. Non a caso, le Regioni hanno chiesto di “riconoscere progressivamente il livello di sanitarizzazione” delle demenze fino alla totale presa in carico del SSN, mentre prosegue il riparto del Fondo Alzheimer 2024-2026.

Intenzione o incapacità? La sindrome del cambiare tutto

Il filo rosso è semplice: si annuncia una svolta, si restringe l’accesso, si lascia intatto il deserto dei servizi domiciliari e del personale. Intanto si spingono riforme di sistema che toccano i contrappesi costituzionali e l’unità dei diritti: autonomia differenziata già in legge, premierato in itinere, separazione delle carriere dei magistrati. È un pacchetto che, nell’insieme, aumenta diseguaglianze territoriali e rende i diritti più mutevoli. Gli atti ufficiali parlano da soli.

Il conto lo pagano sempre gli stessi

Nel nostro paese “il grosso” dell’assistenza lo fanno le famiglie, in primis le donne. Nella popolazione 50+, i caregiver sono per il 65 per cento donne. Ridurre la presa in carico pubblica significa scaricare più costi economici e di salute su chi già regge la rete di cura, con effetti che si vedono su occupazione, povertà e disuguaglianze.

Che cosa servirebbe, davvero

Non bastano bonus con paletti che quasi nessuno supera. Servono quattro mosse concrete, riprese anche dal Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza: uno sportello unico che semplifichi l’accesso ai sostegni, un aiuto economico stabile per chi regolarizza il lavoro di cura, più personale specializzato nelle strutture residenziali e veri servizi domiciliari di base ovunque, non solo in poche Regioni. È l’ABC di un sistema che parte dalle persone, non dai comunicati.

Il punto politico

Se un governo cambia per cambiare, senza ascoltare chi vive la non autosufficienza, finisce per chiamare riforma ciò che è solo una riduzione degli aventi diritto. La “prestazione universale” è l’emblema di questa sindrome: promessa di universalismo, esito micro-selettivo. Correggerla è possibile, ma va rovesciato l’approccio. Prima i servizi e i LEA sociosanitari, poi gli incentivi economici. Prima la certezza dei diritti, poi la sperimentazione. Altrimenti il cambiare tutto resta un esercizio di potere, non una politica per i più fragili.

FONTI ESSENZIALI

Criteri, importi e istruzioni INPS sulla prestazione universale.

Analisi e critica tecnico-giuridica della riforma e dei decreti attuativi.

Dati sul flop iniziale e sulla platea: rassegna e titoli de Il Sole 24 Ore; stime intermedie su domande e accoglimenti.

Quote sanitarie in RSA, giurisprudenza e priorità delle Regioni; Fondo Alzheimer 2024-2026.

Autonomia differenziata, premierato, separazione carriere: atti e dossier istituzionali.

Peso dell’assistenza familiare e profilo dei caregiver.

(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com

 

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