Sullo sciopero generale del 12 dicembre

riflessioni di Mario Agostinelli

La cronaca di questi giorni è attraversata dalla tenacia degli operai dell’ILVA a Genova e Taranto e da una costellazione di vertenze sull’occupazione che punteggiano il Paese; e tuttavia l’opinione pubblica viene distratta da un dibattito politico che non restituisce la gravità del momento. Una componente che fu ossatura della nostra democrazia – la classe operaia – appare come dispersa dentro l’ansia di una collettività smarrita, mentre si torna, con irresponsabile leggerezza, a evocare il riarmo in previsione di una guerra che faccia dimenticare l’incombere di quella ingiustizia climatica e sociale così cara a papa Francesco.

Quando il lavoro torna a parlare, come sta avvenendo nelle manifestazioni e negli scioperi generali, l’avviso è serio e non eludibile per chi governa una democrazia sociale ispirata alla Costituzione repubblicana. La nostra economia ristagna: in trent’anni la politica non ha costruito una strategia, le imprese hanno frenato sugli investimenti e il progresso tecnico si è inaridito; i salari reali sono scivolati, e la sostituzione del capitale con lavoro precario e sottopagato ha generato occupazione fragile, non all’altezza dei giovani che infatti se ne vanno. Dentro questo scenario, uno sciopero generale non è un rito, ma un giudizio sulla direzione del potere, un segnale d’allarme nei luoghi di lavoro ed un argine contro una deriva a destra che si alimenta del vuoto di proposta. La mancata innovazione delle imprese trova nell’attendismo del governo Meloni un quieto approdo.

Per questo è tutt’altro che scontato il gesto di chi rinuncia a ore di un salario magro per difendere la barra della democrazia: è un investimento collettivo su una rotta che si vorrebbe praticabile per i cittadini più esposti alla crisi, quelli che non hanno scudi e non dispongono di rendite.

Resta la domanda: dove si intravede una prospettiva di buona occupazione su scala nazionale, con un Mezzogiorno protagonista e non ridotto a retrovia dei territori più forti, minacciato come è dall’autonomia differenziata? Occorre rovesciare l’assenza di politica industriale in un Paese manifatturiero, uscire dalla retorica di una crescita astratta e misurare le scelte su un futuro desiderabile e compatibile con il quadro di nuove contraddizioni che caratterizzano un cambiamento d’epoca. Il quadro globale è mutato: tornano i nazionalismi, pesano le grandi potenze, la crisi climatica accelera e l’ombra della guerra rende più fragile ogni equilibrio. Com’è possibile che milioni di lavoratrici e lavoratori entrino in fabbrica, in ufficio, nei capannoni della logistica, nella distribuzione, nella scuola o nei campi coltivati con salari inadeguati e senza un orizzonte di emancipazione, di riconoscimento di senso e del ruolo di libertà dentro e attraverso il lavoro?

Le mobilitazioni e gli scioperi di questi giorni parlano anche alla politica nel suo insieme: chiedono che la condizione materiale e la sicurezza si saldino alla dignità di essere utili alla società, restituendo al lavoro il carattere di energia creativa e non di fonte di frustrazione e precariato. Nulla più di una politica economica e industriale rivolta al futuro – non ridotta cioè alla contabilità miope di una legge di Bilancio prona al liberismo adottato dalla Commissione UE – può rimettere al centro la programmazione, l’innovazione, la qualità dell’occupazione.

Questa fine d’anno, segnata da vertenze trascurate, dovrebbe diventare occasione per una riflessione radicale sulla crisi del nostro modello di sviluppo, sulla illusione della crescita materiale, per cogliere nella discontinuità del tempo presente le emergenze, i rischi, ma anche le tecnologie disponibili nonché l’opportunità di rilanciare la solidarietà come pratica, a partire da chi ogni giorno sacrifica energie e reddito non soltanto per il proprio destino individuale.

È inevitabile interrogarsi sulla crisi climatica e sull’inadempienza di classi dirigenti nazionali e globali che riproducono il paradigma fossile, rinviando quella transizione alle rinnovabili che potrebbe rappresentare un contributo decisivo alla rigenerazione di un senso del lavoro. Cosa c’è di credibile in un orizzonte nucleare evocato come totem, privo di realismo industriale e di autonomia energetica per il Paese, quando vento, sole, accumuli e pompaggio offrono già oggi filiere, mestieri, qualificazioni nuove? Che cosa significa per la politica il caso bloccato da anni della riconversione dell’ex-GKN, o quello dell’eolico offshore di Civitavecchia tenuto in stand by, o ancora, il taglio e il ritardo colpevole dei sostegni alle comunità energetiche, con danni alle prospettive dell’occupazione e alla riqualificazione dei territori?

Occorre un salto di prospettiva che il governo rimuove, scaricando sulle generazioni giovani il prezzo dell’inerzia. Serve una visione che collochi il lavoro nella pace, non nella guerra: lì sta la misura di una maturità politica che il Paese non può più rimandare. Una politica industriale ed energetica capace di incoraggiare il lavoro – e con esso la ricerca, la formazione, la partecipazione – può rompere le pigrizie che rendono questo passaggio uno dei più insidiosi del secolo.

Da questa stagione di mobilitazione può nascere un programma chiaro, capace di generare una nuova maggioranza sociale: salariate e salariati, pensionate e pensionati, contribuenti, piccoli risparmiatori, i fragili, tornino a riconoscersi nel voto e nel conflitto democratico; tornino a sentirsi parte di un Paese che non li dimentica e che anche nei week-end parla di solidarietà.

Come spesso ci capita… abbiamo rubato due vignette a Mauro Biani.

Redazione
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