Scor-data: 26 gennaio 1943

La battaglia di Nikolajewka

di Natale Pia (*)  

L’anniversario è d’importanza particolare, perché questo durissimo scontro nel gelido inverno russo ha segnato uno dei punti di svolta della guerra, e, per molti italiani – come Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli – anche un passo decisivo di maturazione di una coscienza civile antifascista.

Solo 232.000 soldati italiani, con poveri mezzi completamente inadeguati, erano stati spediti in Russia da Mussolini, per  voler esserci a tutti i costi in quella folle guerra d’invasione iniziata da Hitler. Nel gennaio ’43 i nostri soldati dell’Armir  come si chiamava il corpo di spedizione in Russia formato dagli alpini, soprattutto, ma anche da fanti e da altri militari – si ritrovarono accerchiati dai sovietici: in quarantamila tentarono una ritirata a piedi, per duecento disperati chilometri, in mezzo al gelo e agli stenti. Moltissimi morirono nei continui combattimenti, per il freddo atroce, la fame, e poi in prigionia: a Nikolajewka solo in pochi riuscirono a sfondare e a tornare poi, ancora camminando per centinaia di chilometri, verso l’Italia.

I brani seguenti sono ripresi da: «LA STORIA DI NATALE: sopravvissuto alla ritirata di Russia, alla Resistenza partigiana, alla deportazione a Mauthausen-Gusen» di Natale Pia, Ed. FADIA, curatrice Primarosa Pia, prefazione Lucio Monaco (info: e-mail: iosapia@yahoo.it).

RUSSIA 1942: LA RITIRATA

Più ci avvicinavamo alla Russia, più le cose si complicavano e s iniziarono a vedere i segni lasciati dai passati combattimenti: carri armati distrutti, camion incendiati, materiale fuori uso abbandonato. Noi giovani non eravamo preparati ai primi veri contatti con la realtà che ci aspettava, e il nostro morale, rendendoci conto che le cose erano più serie di quanto avevamo previsto, diventava via via sempre più simile a quello degli anziani.

Dopo undici lunghi giorni di viaggio arrivammo nei pressi di Stalino dove la tradotta si fermò bruscamente; la distanza tra i binari delle linee ferrate dell Unione Sovietica era più larga di quella tra i nostri; fino lì i binari erano stati modificati per adattarli al nostro materiale ferroviario, ma da lì in avanti il lavoro di adattamento non era ancora stato fatto e non c era più la possibilità di proseguire. Dovevamo scendere e andare avanti con le nostre forze. Eravamo nei pressi di una zona industriale, con un terreno costellato da enormi mucchi di terra rossa, scorie ottenute dalla lavorazione del ferro; distante una ventina di chilometri c era il nostro Reggimento, che raggiungemmo. […]

Nuovamente solo

La scelta di avvolgermi i piedi con la coperta era stata ottima perché, senza saperlo, ridussi di molto il pericolo di congelamento: anche se la gamba affondava sovente nella neve fino al ginocchio, la stoffa non si bagnava perché la neve asciutta e farinosa non si compattava; la morbidezza della lana, inoltre, consentiva al piede di muoversi, favorendo così la circolazione del sangue e mantenendolo sempre caldo. Le scarpe invece, gelando s indurivano molto riducendo la possibilità di movimento del piede mentre, non ultimo, i chiodi di ferro delle suole erano un ottimo veicolo per il freddo ad arrivare a contatto con la carne; anche per questa ragione il congelamento dei piedi e delle gambe fu fatale per molti.

Raggiunta la coda della colonna era nostro obiettivo sorpassarne perlomeno la parte centrale per sentirci più al sicuro, e non ci riuscimmo che verso sera.

Quella notte la colonna non si fermò mai, e l indomani mi sentii chiamare dal sergente maggiore il quale mi disse che erano trentasei ore che io camminavo e nel medesimo tempo dormivo, mentre con la mano aggrappata alla briglia del cavallo lo seguivo e mi facevo trascinare da lui. Mi confessò che lui si era accorto di questo e non aveva voluto disturbarmi ma ormai non ce la faceva più a rimanere in groppa e mi chiese di aiutarlo a scendere.

Aiutai a scendere il mio sergente, ma solo per accorgermi insieme a lui, con orrore, come dal ventre in giù il suo corpo fosse completamente congelato, ridotto un unico blocco di ghiaccio. Non ebbi alternativa che cercare un isba dove ricoverarlo, consapevole che per lui non c era alcuna speranza di farcela. Fu lui stesso a ordinarmi di andarmene, di lasciarlo lì, e pur se  con il cuore morto addosso dovetti ubbidire; rimanere ancora fermo in quel luogo avrebbe significato per me perdere i contatti con il resto della colonna.

Fuori dall isba il cavallo non c era più e io con santa pazienza ripresi il cammino, di nuovo solo pur tra migliaia di persone.

Mi tenevano compagnia i miei ricordi, il pensiero ben vivo della mia casa e della famiglia e la speranza di farcela a tornare mi dava la volontà e il coraggio di prendere ogni volta la difficilissima decisione di abbandonare il calore accogliente delle isbe che incontravo sul mio cammino e di ributtarmi, senza che nessuno me lo imponesse, solo, sfinito dalla stanchezza e dalla fame, tra quella neve infinita, a quelle temperature impossibili.

La fame era un handicap al pari del freddo e la sete non era da meno: sembrava un paradosso, calpestavo neve tutto il giorno e avevo sete, eppure appena ci si avvicinava un po di neve alle labbra ci si provocava un ustione, e poi non ne valeva la pena, era talmente gelata che di liquido non ne usciva niente.

Con la speranza di liberarci al più presto dalla sacca non facevamo altro che marciare tutti nella stessa direzione, attraversando gli stessi villaggi, perciò i primi che arrivavano erano quelli che potevano trovare qualcosa da mangiare, per gli altri rimaneva solo una fame indescrivibile.

Un pomeriggio, giunto in cima ad una salitella mi fermai per riposare un momento e mi venne istintivo voltarmi a guardare indietro, anche per rendermi conto meglio della quantità di persone che marciava insieme a me.

Non avrei mai potuto immaginare la tragedia che si stava svolgendo alle mie spalle, e da quel momento sotto i miei occhi: un intera batteria di soldati tedeschi, con i loro monumentali cavalli e tutte le slitte era finita sul ghiaccio di una palude; probabilmente a causa del grande peso improvvisamente calato sulla superficie già danneggiata dai proiettili il ghiaccio aveva ceduto e tutti i soldati e le loro cavalcature stavano precipitando nell’acqua sottostante, non molto alta ma certamente micidiale. Pochi minuti di strepito e terrore ed era già tornata la calma, più niente si muoveva, il ghiaccio si era impossessato di tutto e di tutti.

Durante il mio cammino mi capitò di entrare da solo in un edificio che era più grande di un isba, probabilmente una scuola; confesso che andavo alla ricerca di un po di intimità, per svolgere in pace per una volta quelle mansioni che eravamo sempre costretti a svolgere in pubblico; inoltratomi in un ampio corridoio interno mi trovai al cospetto di una scena sconvolgente: a terra giacevano i corpi di cinque alpini italiani, sicuramente trucidati dai russi, che mostravano in tutto il loro orrore le sevizie subite: sul petto, ma soprattutto sul viso, era loro stato inciso, penso con la punta di una baionetta, più e più volte, il simbolo della falce e del martello; da quelle ferite ancora chiaramente leggibili nel loro significato era fuoriuscita la carne tumefatta e biancastra, simile a labbra mostruose, che aveva reso quelle persone orribili maschere. Questo è un episodio che non ho mai raccontato, nel timore che qualche mamma che aveva perso il figlio in quella guerra potesse soffrirne troppo al solo ascoltarlo; ora che sono trascorsi molti anni so di poterlo fare.

Una sera raggiunsi un villaggio con la coda della colonna perché avevo perso tempo, ormai troppo sfinito per procedere velocemente; in compenso non c era più molta confusione e riuscii ad entrare in un isba avendo anche la possibilità di sedermi per terra vicino alla porta d ingresso. I soldati che erano già all interno mi dissero che stavano aspettando che nel forno cuocessero delle patate e mi sentii rincuorato dalla speranza di poter partecipare al pasto. Mi ero seduto da poco quando entrarono due alpini seguiti da un gatto il quale, data la posizione in cui mi trovavo, non poteva che passare accanto a me, gli sguardi di tutti puntavano nella mia direzione e non mi lasciai certo sfuggire l occasione: appena mi arrivò a tiro afferrai l animale e, con uno scarpone abbandonato trovato lì vicino, lo colpii più volte violentemente sul naso. Quando fu morto, senza nemmeno alzarmi, lo passai ai cuochi improvvisati e cinque minuti dopo era nel forno a cuocere con le patate. Forse attratti dall odore di cibo entrarono due ufficiali degli alpini i quali, con evidente accento piemontese, mi domandarono cosa cuocesse in quel forno; risposi loro in dialetto:  in cunii da cup (un coniglio da tetti); capirono subito che era un gatto, ma capirono anche la chiara intenzione di tutti noi di non dividere anche con loro il nostro pasto: sapevamo tutti benissimo che per gli ufficiali era più facile che per noi soldati trovare di che sfamarsi.

Nel giro di nemmeno mezz ora tutto il cibo era sparito.

Da otto giorni era la terza volta che riuscivo a mettere qualcosa in bocca per mangiare.

Dopo aver riposato un paio d ore e con un po di energia in più, mi rimisi in cammino velocemente per cercare di riguadagnare posizioni nella colonna e camminai tutta la notte.

Alle prime luci dell’alba vidi in lontananza un villaggio con all’entrata due grandi capannoni posti ai due lati della strada che la colonna di soldati stava percorrendo. Li avevo quasi raggiunti quando all’improvviso dal loro interno partì una violenta sparatoria; fu una immane carneficina, sotto il fuoco incrociato dei Russi gli uomini cadevano tra urla, sangue e i fischi delle pallottole, pochi attimi e moltissimi compagni che avevo visto correre accanto a me giacevano a terra con una pallottola in testa. Incredibilmente io ne uscii senza un graffio, e collegai la mia fortuna a mia mamma, alla sua mano che mi accompagnava sempre proteggendomi.

La mattina del ventisei gennaio poco dopo le dieci raggiunsi una larga spianata e vidi che la colonna si era fermata dilagando a dismisura. La ragione fu presto chiara: eravamo nei pressi del paese di Nicolajevka, occupato da almeno due divisioni di Russi intenzionati a non farci passare ed a catturarci tutti.

I combattimenti infuriavano già dalla mattina, ma i nostri soldati non riuscivano a sfondare. La spianata dove eravamo ammassati terminava in un leggero avvallamento al fondo del quale scorreva la linea ferroviaria; il paese da espugnare sorgeva sull argine opposto, leggermente in salita.

I nostri attacchi si infrangevano contro la ferrovia, dalla città ci colpivano con le cannonate mentre sulle nostre teste volteggiavano i caccia mitraglieri russi che mitragliavano e andavano via; alle cinque del pomeriggio eravamo ancora fermi.

Restare allo scoperto durante la notte significava morire tutti di freddo, così il generale Reverberi decise che, morire per morire, avremmo attaccato in massa. Diede l ordine di avanzare tutti insieme così una valanga umana scese verso il paese e bastò questo per far fuggire i russi e dare a noi la possibilità di entrare. Io cercai di arrivare tra i primi, con la speranza di trovare un po di cibo, e così fu: entrai in un isba dove c era un soldato russo ferito adagiato su di un letto e accudito da alcune donne, lo riconobbi come soldato perché portava ancora in testa il berretto con una grande stella rossa al centro; benché impugnassi una pistola, feci loro capire che non avevo cattive intenzioni, a me interessava solamente avere del cibo: sul davanzale della finestra trovai una gamella con dentro un pezzo di carne che sarà stato mezzo chilo e, sotto il tavolo, una bottiglia con un liquido dorato che pensando fosse olio presi per usarlo come condimento. Uscito in fretta cercai un luogo isolato, accesi un fuoco con della paglia e, benché mi fossi accorto che il liquido giallo era miele e non olio, cercai di cuocere la carne utilizzandolo ugualmente. Il risultato fu desolante: la carne era affumicata, bruciacchiata e anche caramellata, ma quello fu, in virtù della gran fame che avevo, uno dei pasti più soddisfacenti della mia vita.

Ormai si era fatta notte fonda e, non essendomi più possibile trovare posto in un isba, mi riparai in un pagliaio, come avevo già fatto altre volte.

Alle quattro del mattino eravamo già di nuovo in marcia perché temevamo un ritorno dei russi e non ci fermammo per due giorni fino a quando, con grande sollievo, non capimmo di essere fuori dalla sacca che ci circondava.

Eravamo molto contenti, pensavamo che da quel momento in poi le nostre condizioni sarebbero migliorate ed a quel punto avremmo avuto molte più probabilità di cavarcela, ma tra di noi pesava la consapevolezza di essere i superstiti di un grande numero di persone che non sarebbero mai tornate in patria.

L illusione che le marce forzate fossero finite durò poco: capimmo presto che la strada percorsa non era che la metà della metà di quella ancora da percorrere, infatti dovemmo riprendere il cammino sempre a piedi, l unico miglioramento fu che qualcosa da mettere sotto i denti, anche se solo generi in natura, ci veniva dato tutti i giorni; percorrevamo circa venticinque chilometri al giorno, ma di notte, almeno, ci si riposava al caldo nelle isbe.

(*) Questo testo è ripreso dalla lista «Deportati mai più» del gruppo «R-esistiamo» che da maggio 2006 è luogo di dibattiti, diffusione o ricerca di notizie sia di associazioni che tutelano la memoria, di centri culturali o istituzionali che di persone interessate a argomenti storici o battaglie civili. Chiunque può inviare idee, notizie, iscriversi, segnalare interessati all’iscrizione. Moderatrice unica a titolo personale e gratuito è Primarosa Pia, figlia del superstite Natale Pia (kz 115658 Mauthausen-Gusen) e nipote di Vittorio Benzi (kz 115373 morto di fame e fatica a Mauthausen-Gusen a 17 anni), di Biagio Benzi (kz 43493 superstite di Flossenbürg) e Giovanni Benzi (kz 7332 superstite di Bolzano) tutti partigiani vittime del rastrellamento avvenuto nella zona di Nizza Monferrato il 3 dicembre 1944.

Ricordo per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta  il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall 11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili ma sinora sempre evitati) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» - qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo - postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l ignoranza che l accompagna dimenticano o rammentano  a rovescio .

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 26 gennaio fra l altro avevo ipotizzato: 1500: «scoperta» Brasile; 1788: «Australia Day»; 1825: muore Jenner; 1907: nasce Hans Seye; 1939: franchisti a Barcellona; 1944: nasce Angela Davis; 1962: muore Lucky Luciano; 1974: in Italia rumori di golpe; 1975: in manette Adele Faccio; 1979: ucciso il giornalista Mario Francese; 1990: muore Lewis Mumford. E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.

Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare  ribadisco: ne abbiamo bisogno  mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest idea, di un lavoro contro la memoria  a gruviera.

Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info.

Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)

Redazione
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