L’aliquota globale minima del 15% su tutte le imprese multinazionali…

…sarà sempre inferiore a quella sui redditi di lavoro di tutti i lavoratori: come spacciare un furto con destrezza per una rivoluzione epocale, nella società dello spettacolo, ai tempi del capitalismo filantropico. – Francesco Masala

(articoli ripresi da comune-info e il pungolo rosso)

Giustizia fiscale è fatta? – Marco Bersani

 

Il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamavan Drago.

Gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago[1]

 

“Accordo storico” è stata definita dai leader europei l’intesa di principio, uscita dal G7 finanziario di Londra, per applicare un’aliquota globale minima di almeno il 15% su tutte le imprese multinazionali e di tassare il 20% della quota eccedente il 10% dei profitti nei Paesi in cui vengono realizzati.

E subito, su tutti i media mainstream, si sono sprecati i peana al fondamentale ruolo avuto dal nostro Presidente del Consiglio, Mario Draghi, grazie alla cui autorevolezza tutto questo è stato possibile.

Si tratta davvero, come dice Draghi, di “un passo verso una maggiore equità e giustizia sociale per i cittadini” o siamo di fronte alla più grande presa per i fondelli per gli stessi?

Di cosa parliamo quando diciamo multinazionali

Secondo il rapporto 2020 “Top 200. La crescita del potere delle multinazionali”[2]elaborato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, le imprese multinazionali sono 320.000 e occupano 130 milioni di dipendenti, pari al 4% degli occupati mondiali. Il loro fatturato è pari a 132mila miliardi di dollari, con profitti netti pari a 7.200 miliardi di dollari. Il 14% di questo fatturato è coperto dalle prime 200 imprese multinazionali.

Molte multinazionali hanno un fatturato superiore al Prodotto Interno Lordo degli Stati: nella comparazione, nei primi 100 posti compaiono 42 multinazionali (con la prima al 25esimo posto). Ma se il confronto viene effettuato con le entrate degli Stati, le multinazionali presenti nei primi cento posti diventano 69 (con la prima al 13esimo posto).

Sempre secondo il rapporto, le società quotate in Borsa sono circa 41.000, con un capitale complessivo di 84mila miliardi di dollari, pari al Pil dell’intero pianeta.

Tra gli azionisti delle prime 10.000 di queste società figurano per il 41% investitori istituzionali (assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione), per il 27% azionariato diffuso, per il 14% investitori pubblici, per l’11% imprese private e per il 7% investitori individuali.

I primi dieci fra gli investitori istituzionali gestiscono da soli il 57% della ricchezza totale finanziaria, mentre fra gli investitori pubblici, è il capitale pubblico cinese a fare la parte del leone (57%).

Come evidenziano i dati, siamo in presenza di una ricchezza enorme, sempre più concentrata in poche mani. Ma quanto di questa ricchezza ritorna alla collettività attraverso le tasse?

Di cosa parliamo quando diciamo elusione fiscale

Per ridurre il carico fiscale, le multinazionali utilizzano diverse tecniche. Quella più semplice consiste nella creazione di una società controllata con sede in un paradiso fiscale, in cui spostare gli utili conseguiti dalle altre società del gruppo.

Un’altra tecnica è quella del transfer pricing, che consiste nell’effettuare transazioni (prestiti, cessioni di marchi e brevetti o servizi) tra società che fanno capo a una controllante che ha sede in un paradiso fiscale.

Nessun paese europeo rientra nella cosiddetta “lista nera” dei paradisi fiscali adottata dal Consiglio d’Europa. Eppure, non c’è alcun dubbio che alcuni Stati membri della UE svolgano un ruolo centrale nel trasferimento di capitali verso giurisdizioni a fiscalità privilegiata.

Uno degli indizi dell’importanza di alcuni centri finanziari europei nel sistema internazionale dell’elusione fiscale, è dato dagli enormi flussi di investimenti diretti esteri che vi si dirigono.

Lo conferma la “Relazione sui reati fiscali e l’evasione[3] del Parlamento Europeo, che evidenzia come l’elevato livello di investimenti esteri rispetto al Pil in Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda sia solo in parte spiegato da attività economiche effettive.

Parte degli investimenti esteri è destinato, infatti, a sussidiarie o “società a destinazione specifica”. Si tratta di società “buca-lettere”, cioè entità giuridiche senza consistenza fisica e che non svolgono alcuna attività economica reale, costituite per minimizzare il carico effettivo globale delle multinazionali.

 

I “frugali” Olanda e Lussemburgo

Nonostante si tratti di due nazioni piccole per dimensioni economiche e demografiche, Lussemburgo e Olanda attraggono più investimenti diretti esteri della Cina[4].

Nel complesso, i livelli degli investimenti esteri nei due paesi europei sono di poco inferiori a quelli degli Stati Uniti, la più grande economia al mondo.

Per avere un’idea, si consideri che, nel 2019, il livello di investimenti esteri in ingresso in Olanda era di 4.445.969 milioni di dollari, in Lussemburgo di 3.422.838 milioni. Ovvero, rappresentava il 4.928% del Pil del Lussemburgo e il 490% di quello dell’Olanda. Valori stratosferici che, però, scendono al 185% e al 193% del Pil quando si escludono gli investimenti verso le società a destinazione specifica.

In altri termini, ben il 96% dello stock di investimenti esteri in entrata in Lussemburgo, il 60,6% di quelli in Olanda è riconducibile a società a destinazione specifica o “buca-lettere”.

Il furto legalizzato

Grazie ai meccanismi sopra illustrati, circa il 40% degli utili delle multinazionali imbocca la strada dell’elusione fiscale: si tratta, secondo la stessa Ocse, di quasi 800 miliardi di dollari che provocano una perdita fiscale agli Stati pari a 240 miliardi.

Per dare un solo esempio concreto, leggendo il bilancio 2020 di Amazon, si evince che la sede europea del colosso dell’e-commerce, ha toccato i 44 miliardi di fatturato, con un balzo di 12 miliardi rispetto all’anno precedente, grazie al crollo della vendita al dettaglio determinata dal lockdown della pandemia. Alla “costola” europea di Amazon fanno capo tutte le vendite realizzate in Italia, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Svezia e Polonia, ma la sede fiscale si trova in Lussemburgo, dove Amazon ha presentato una chiusura dei conti con una perdita di 1,2 miliardi (giustificati con le spese per gli investimenti), che, stante la legislazione fiscale del Granducato, garantisce alla multinazionale 56 milioni di crediti d’imposta, oltre ad una serie di ulteriori agevolazioni fiscali. Risultato finale: nel 2020, Amazon europea con un fatturato di 44 miliardi non ha versato un euro al fisco.

E l’Italia?

Secondo il Tax Justice Network (Rapporto 2020), a causa all’evasione e dell’elusione fiscale internazionale, l’Italia perde annualmente 12,4 miliardi di dollari (circa 10 miliardi di euro), corrispondenti al 2% delle entrate fiscali. Un ammanco causato per 8,8 miliardi di dollari dal trasferimento di profitti delle multinazionali e, per 3,6 miliardi, dall’evasione offshore dei privati. I mancati introiti equivalgono al 9% della spesa sanitaria italiana e al 15% della spesa per l’istruzione. Nel complesso, le risorse perdute consentirebbero, all’Italia, di assumere 379.380 infermieri[5].

 

Le multinazionali in Paradiso (fiscale)

Tutti sorridono
Solo il popolo non ride, ma lo si sa
Sempre, piagnucola
Non gli va mai bene niente chissà perché
[6]

Ora abbiamo qualche strumento in più per rispondere alla domanda iniziale e un primo indicatore ce lo fornisce il fatto – taciuto dai media mainstream – di come il provvedimento del G7 finanziario sia stato accolto con un plauso da Google, Amazon e Facebook, ovvero da tre delle principali multinazionali che dovrebbero subire la svolta imposta dai Governi in direzione della giustizia fiscale.

E ne è chiara la ragione: l’aliquota del 15% è solo leggermente superiore a quella che oggi pagano le multinazionali in paesi a fiscalità agevolata, come l’Irlanda (12,5%), ma ovviamente molto inferiore a quella che le multinazionali pagano in tutti gli altri Paesi (con una media impositiva del 26%).

Ecco allora il vero elemento storico dell’intesa raggiunta al G7: vanificare l’elusione fiscale, trasformando l’intero pianeta in un paradiso fiscale per le multinazionali.

In Italia oggi una persona con reddito fino a 15.000 euro paga il 23%; con reddito fino a 28.000 euro paga 3.450 euro più il 27% della parte eccedente i 15.000 euro; con reddito fino a 55.000 euro paga 6.960 euro più il 38% della parte eccedente i 28.000 euro.

Fra qualche anno – perché l’intesa del G7 dovrà essere sottoposta al G20 e successivamente all’Ocse –  imprese multinazionali che fatturano 523.964 miliardi di dollari (Walmart), 280.522 miliardi (Amazon), 260.174 miliardi (Apple) pagheranno sugli utili il 15%.

Alzi la mano chi non si sente preso per il culo[7]

[1]“La ballata del Cerutti Gino” di Giorgio Gaber

[2]http://www.cnms.it/attachments/article/196/top200_2020.pdf

[3] Parlamento Europeo, Relazione sui reati finanziari, l’evasione fiscale e l’elusione fiscale, P8_TA(2019)0240.

[4] Fonte: OECD, FDI in Figures, April 2020

[5]Tax Justice Network, The State of Tax Justice 2020: Tax Justice in the time of COVID-19, November 2020.

[6] “Il banchetto” della Premiata Forneria Marconi

[7] Quanno ce vò, ce vò

da qui

 

La “supertassa” del… 15% sulle multinazionali – p.c.

 

Londra, 4-5 giugno: “Al G7 accordo storico sul fisco – tassa globale sulle multinazionali”, spara la Repubblica che in prima, a tutta pagina, la qualifica come “supertassa globale”, riportando su questo evento-non evento pacati commenti dei protagonisti: un “evento sismico” (Sunak, ministro delle finanze britannico), “straordinario, capita una volta ogni cento anni” (Gentiloni, commissario UE), “un passo storico” (Draghi), e via di questi passi.

La percentuale fissata è il 15%, e resterà nella storia più o meno come il 10% del tangentismo di “Mani Pulite”, dopo il quale “evento sismico” la corruzione dentro e fuori la p.a. è continuata come prima e più di prima. E se non sarà per questo, lo diventerà per essere la bufala del secolo – anche se quella delle bufale del secolo, a giudicare dai primi vent’anni, sarà una bella gara.

Ci si può obiettare: ma come, finalmente si costringono le multinazionali a pagare qualcosa e voi non siete contenti? “Poco è sempre meglio che niente”.

Se andiamo a vedere cosa c’è realmente dentro questo pacco, forse scopriamo che “niente è meglio di poco”.

Anzitutto perché per qualche anno ancora i grandi evasi (dai “sacri confini nazionali”, contro i quali non ci sono mandati di cattura internazionali) continueranno a non pagare; non pagano per i morti che fanno, figurarsi per i vivi! Il “provvedimento” su cui strombazzano i ruffiani della dragheria è solo un’intesa tra alcuni paesi, e non ha il minimo di esecutività. Chi pensa che le multinazionali (nemmeno dicono quali!) il 30 giugno di ogni anno compileranno il 730 alla stregua dei salariati, è bene che abbandoni questo sogno non solo per l’anno in corso ma, a dir poco, per un triennio. Dopo di che, ove questo sostanzioso tributo fosse regolarizzato e fissato, a saldo delle ruberie sistematiche che i super-capitalisti operano anche nei confronti dei loro stati, lo sarebbe ad appena un terzo di quello che pagano operai, impiegati, insegnanti, ma anche partite Iva e altri soliti. In Italia l’aliquota irpef minima, per i salari operai e proletari fino a 15.000 euro, è al 23% – e il prelievo fiscale complessivo sui salari è in media del 43%! Chiaro?

Non a caso, riporta sempre la Repubblica senza accorgersi del ridicolo, Apple, Google, Facebook e Amazon plaudono all’intesa: “Bene un accordo equilibrato, e una stabilità duratura per il sistema globale fiscale”. Ancora più gongolante la responsabile per Italia e Spagna di Amazon, Mariangela Marseglia: “Sono molto contenta degli sviluppi che ci sono stati nell’ultimo G7 dei ministri finanziari, perché in realtà quello che loro hanno deciso, cioè un approccio uniforme alla tassazione delle aziende multinazionali, è quello che noi abbiamo cercato di portare avanti da molto tempo”.

Ora, al di là dell’ipocrisia che è il tratto tipico dei borghesi di tutte le risme e professioni, andiamo al sodo, ai numeri fissati a Londra. I numeri sono due: 15% come aliquota globale minima per ogni paese, e un prelievo di entità non specificata (i soliti segreti) ma solo sul 20% della quota di profitti superiore al 10% del fatturato. La prima cifra è di poco superiore all’attuale 12,5% che le suddette multinazionali pagano in quello che è uno dei massimi paradisi fiscali europei, l’Irlanda. La seconda cifra è quella che fa esultare Amazon, perché Amazon dichiara un margine di profitto nettamente inferiore al 10%, di poco superiore al 6% – in Europa nel 2020 ha avuto un fatturato di 44 miliardi di euro (+30% rispetto all’anno precedente), ma nonostante questo dichiara perdite per 1,2 miliardi (al netto degli abituali falsi in bilancio, si tratta di investimenti…), sicché la sua affiliata europea Amazon EU Sarl, basata in Lussemburgo, il paradiso fiscale creato da Juncker e Co., vanta addirittura un credito d’imposta sui futuri profitti pari a 56 milioni.

Un’altra chicca della “storica” intesa è che, se venisse introdotta questa minimum tax per le maxi-imprese, verranno rimosse le modestissime web tax introdotte in Francia e in Italia sui giganti del web.

La truffa mediatica è talmente palese che perfino un pesce lesso come Piketty ha reagito, e da Trento ha definito tutto ciò “uno scherzo”, e la glorificazione della decisione del G7 sul 15% “scandalosa”, se si fa il paragone con ciò che paga di tasse la “classe media”, che è il suo referente, non il nostro, ovviamente. Se l’è presa, perché si è sentito trattato come un imbecille – in effetti non è un genio, ma fin lì ci arriva. Del resto anche un economista del potere come Michael Spence ha rilevato che senza “una autorità che vigili sull’applicazione” di questa intesa (quando dovesse diventare operativa), e commini le relative penalizzazioni “per chi non adempirà a quanto previsto” (la normalità è questa), le decisioni di Londra sono scritte sull’acqua.

Qui un accenno alla “nostra meravigliosa Costituzione” è d’obbligo perché la sua proclamazione della progressività è ancora una volta sbugiardata dai dati della realtà che vanno nella direzione esattamente contraria, e mostrano come da decenni abbiamo assistito ad una continua progressione della regressività che col nuovo secolo ha subito una forte accelerazione. E il più quotato candidato alla presidenza della repubblica (Draghi) ha celebrato la fissazione alla scala globale della regressività dell’imposta come “un passo storico”; eppure c’è in giro una quantità di facce di bronzo che spacciano l’intesa di massima raggiunta a Londra come la realizzazione di un principio di “equità sociale”, e lo stesso Draghi come uno degli artefici principali dell’accordo.

Le “trovate” di Renzi, gli annunci di Gigino Di Maio sulla sconfitta della povertà o di Conte sugli anni meravigliosi che ci attendevano, appaiono ora, come balle, poca cosa davanti alle manipolazioni di questo governo “dei migliori” che ha dimostrato di saper fare di peggio e di più servendosi di un controllo sempre più stretto sulla stampa e sui mezzi di comunicazione che gli fanno eco con un servilismo ed una piaggeria indecenti.

Ciò detto, ci sono però tre punti degni di evidenza in questa proclamata intenzione di voler minitassare le multinazionali, ed è l’accordo che i pescecani del G7 hanno trovato sulla spartizione degli introiti, che non andranno versati nel paese dove queste hanno le loro sedi, ma nei paesi nei quali operano. Gli Stati Uniti e la UE hanno deciso che prima di attaccare i proletari devono mettersi d’accordo un po’ meglio tra loro, farsi un po’ meno concorrenza e trovare dei punti di compromesso anche sul piano fiscale, così da rinsaldare la loro alleanza divenuta negli scorsi anni alquanto traballante.

Il secondo è l’interesse di tutti i governi del G-7 a dare una qualche regolata allo strapotere di un pugno di società multinazionali o, meglio, transnazionali, divenute troppo potenti, non solo sul piano finanziario, anche come esorbitante peso nell’informazione/disinformazione globale e nelle decisioni politiche, per non spingere i “comitati d’affari” dell’insieme delle classi capitalistiche a contro-misure di vario tipo, incluse queste di ordine fiscale, che – pur nella loro estrema modestia – contengono pur sempre un segnale d’avviso.

Il terzo punto è l’iniziativa di Biden, perché è alla sua amministrazione che tutta la faccenda rimanda. La sua intenzione di aumentare le tasse sui più ricchi e sulle multinazionali (la sua proposta era di una minimum tax al 21%, una proposta molto tattica perché gli era noto il no dell’UE) non è solo panna montata. È la risposta obbligata alla forte polarizzazione sociale e politica espressa lo scorso anno nel movimento del Black Lives Matter, che non ha sollevato solo la “questione razziale”, ed anche ad alcune iniziative specifiche promosse da ambienti sindacali e da associazioni di base a favore della tassazione dei più ricchi (per rispondere all’assenza o al degrado dei servizi sociali) con epicentro nella California. Con prontezza superiore al previsto, il suo staff si è mosso per neutralizzare lo scontento diffuso nel proletariato e negli strati sociali poveri (composti anche di elementi dei ceti medi precipitati nel vuoto) accreditando il governo e lo stato come promotori di “giustizia sociale”. E non si tratta solo dell’America. Nella contesa globale con la Cina per non farsi strappare il dominio del mondo, gli Stati Uniti debbono riverniciare la propria immagine di colori più attraenti di quelli trumpiani. La politica fiscale “rivoluzionaria” di Biden rientra in questa operazione cosmetica, anche a costo di chiedere, o imporre, un piccolo “contributo” ai propri mega-miliardari che se ne vanno a spasso per i cieli in direzione Marte. (Così come vi rientrano le manovre di una quantità di fondazioni a cooptare nel proprio seno o come forze collaterali alcuni settori del BLM.)

Dubitiamo, signor Biden, che questa operazione cosmetica basterà a raggiungere i due obiettivi. Si vedrà, ma una cosa è certa: quando il proletariato alzerà la testa, allora pagherete caro, e pagherete tutto!

da qui

 

 

Redazione
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