Niger, la strage silenziosa nel Sahel
Il rapporto di Human Rights Watch.
di Paolo Laforgia (*)
Un documento asciutto, pieno di nomi, orari, voci. Mercoledì 10 settembre 2025 Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto che ricostruisce almeno cinque attacchi contro civili nella regione di Tillabéri (ovest del Niger) dal marzo all’estate 2025. Il quadro è netto: militanti affiliati allo Stato Islamico nel Sahel (IS Sahel) hanno giustiziato oltre 127 persone, dato minimo ricavato da testimonianze incrociate e da elenchi di vittime forniti dai residenti. Case bruciate, botteghe saccheggiate, villaggi terrorizzati da minacce ripetute prima delle incursioni. Per HRW, sono violazioni del diritto internazionale umanitario che integrano crimini di guerra.
Come è stato ricostruito
L’indagine si basa su 28 interviste remote condotte tra maggio e luglio 2025: 19 testimoni oculari e 9 tra attivisti locali, giornalisti e personale sanitario. HRW ha inoltre scritto il 19 agosto al ministro della Giustizia del Niger per condividere le risultanze e chiedere informazioni sulle misure di protezione dei civili: nessuna risposta.
Luoghi, date, numeri
Il rapporto entra nel dettaglio di ciascun evento, seguendo un filo comune: minacce preventive, accuse ai villaggi di “collaborare con l’esercito”, arrivi all’alba su moto, fuoco indiscriminato e incendi mirati.
Fambita (comune di Kokorou), 21 marzo 2025. Assalto alla moschea durante la preghiera del pomeriggio: almeno 46 fedeli uccisi e 12 feriti, oltre a case e negozi bruciati. Le autorità hanno proclamato tre giorni di lutto nazionale.
Dani Fari (area di Tillabéri), 13 maggio 2025. Sette civili uccisi (tra cui due bambini) e almeno 12 abitazioni incendiate. In precedenza erano circolate minacce audio via WhatsApp. La pattuglia militare è giunta a strage conclusa.
Manda (comune di Gorouol), 21 giugno 2025. L’episodio più sanguinoso: oltre 70 fedeli uccisi in moschea durante la preghiera del mattino e almeno 20 feriti; saccheggi e una decina di abitazioni incendiate. Gli abitanti riferiscono minacce nei giorni precedenti.
Altri villaggi dell’area di Bankilaré (Abarkaize, Ezzak e altri), fine giugno–luglio. Almeno 28 civili uccisi in una serie di operazioni punitive contro comunità accusate di aiutare i militari.

Secondo i dati della ONG ACLED, che raccoglie dati su eventi violenti e conflitti armati in tutto il mondo, l’IS Sahel ha ucciso circa 1.600 civili da luglio 2023, quando le forze armate nigerine hanno rovesciato il governo con un colpo di stato.
Perché l’attribuzione all’IS Sahel
Sebbene manchi una rivendicazione formale, l’attribuzione si fonda su un mosaico di elementi: aree di consolidata presenza del gruppo, modus operandi ricorrente (arrivi su moto, attacchi nelle ore di culto, incendi selettivi), segni distintivi degli aggressori e il contesto di rappresaglie dopo operazioni militari.
Lo Stato che non protegge (abbastanza)
Il passaggio più duro del rapporto riguarda la mancata protezione. Testimoni riferiscono allarmi inoltrati alle forze armate nelle ore o nei giorni precedenti, ma interventi tardivi o assenti. HRW chiede una revisione urgente delle strategie: pattugliamenti mirati all’uscita delle preghiere, unità mobili nelle aree più esposte, canali rapidi di risposta a minacce e messaggi intimidatori che circolano sui telefoni dei villaggi.
Il contesto: un Sahel in combustione lenta
Il Niger è governato da una giunta militare dal 26 luglio 2023. La promessa era restituire sicurezza dopo anni di violenze jihadiste. Eppure, dal golpe in poi, la traiettoria degli attacchi contro i civili è rimasta in salita: le aree di confine con Mali e Burkina Faso continuano a essere vulnerabili, con un fronte che si sposta e si allarga, arrivando a lambire anche i paesi costieri più a sud. In questo contesto, Tillabéri è uno degli epicentri più esposti.
Cosa manca e cosa serve
HRW non si limita alla denuncia. Le richieste sono precise: Indagini credibili e processi conformi agli standard internazionali. Prevenzione mirata nei luoghi sensibili (in primis le moschee nelle ore di culto). Assistenza alle vittime e ricostruzione delle abitazioni distrutte. Controllo sulle milizie ausiliarie, nate per difendere ma spesso responsabili di nuove violenze. Attenzione alle minacce annunciate, con protocolli di allerta che trasformino gli avvisi in interventi tempestivi.
Perché questo rapporto conta
Per tre ragioni. Primo, mette in fila fatti verificabili (date, villaggi, numeri minimi di vittime) in un ambiente informativo confuso. Secondo, mostra il gap tra minacce note e risposta istituzionale: non è solo la forza dei gruppi armati, è l’assenza di protezione efficace. Terzo, ricorda che la crisi del Niger non è un’eccezione isolata: il Sahel è un sistema interconnesso, e quando un villaggio come Manda è lasciato solo, si incrina la credibilità di un intero approccio alla sicurezza regionale.
In fondo, l’elemento più inquietante del rapporto non sono solo i numeri — già devastanti — ma la prevedibilità degli attacchi: minacce che arrivano, allarmi che partono, pattuglie che non arrivano. È lì, in quel vuoto tra l’avviso e l’intervento, che l’IS Sahel ha costruito la sua scia di sangue.
