Il penoso e squallido cabaret di Giorgia Meloni
articoli di Alessandro Robecchi, Enrico Campofreda, Alessandro Orsini, un intervento di Mario Agostinelli sul ritorno al nucleare in Italia e un disegno di Notangelo
Povera Giorgia! Viva il vittimismo, malattia infantile del melonismo – Alessandro Robecchi
“Chiagni e fotti” è una vecchia massima, anche un po’ consunta e abusata, per dire che lamentarsi è sempre una buona copertura per il potere: non c’è azione, prepotenza, abuso che non sia giustificabile con una precedente ingiustizia subita, spesso immaginaria: una faccenda talmente nota e risaputa che si è installata da secoli nei proverbi e nella saggezza popolare. In tempi di trumpismo-melonismo, malattie infantili del vittimismo, la teoria è diventata pratica e metodo scientifico, come se un manuale ne suggerisse l’uso corretto per ogni situazione, le varianti e le sfumature tattiche. Il presidente americano ha costruito le sue fortune sul sapiente dosaggio del fare la vittima. Prima la vittoria mutilata (gli hanno rubato le elezioni, dice), poi la sindrome di accerchiamento costante: molto vittima e quindi molti nemici, e quindi al momento della salita (risalita) al potere, molte vendette e ritorsioni. La questione del free speech sembra un caso di scuola: per anni la destra mondiale ha berciato e frignato che “non si può dire più niente”, combattendo ogni forma di pulizia etica del linguaggio, il famoso politicamente corretto, finché, preso il potere, ha rivelato la sua concezione di free speech: censura per chi dissente, pressioni sui media, ricatti e minacce a chi non si adegua. C’è qualcosa di straordinariamente grottesco nel potente, armato di autorità e manganello, che ama farsi dire “poverino!”.
Giorgia Meloni sa raffinare la pratica in modo quasi perfetto: il mondo ce l’ha con lei, e questo dovrebbe far scattare una sorta di simpatia nei suoi confronti. L’elenco è infinito, ogni cosa che succede nel mondo sembra architettata e messa in campo per farle uno sgarbo, un atteggiamento che è diventato una tecnica e poi un’ossessione, fino al grottesco. Fino a dire, per esempio, che la missione della Gaza Sumud Flotilla (militanti e navi da 44 paesi del mondo) fosse organizzata per dare fastidio a lei, proprio a lei, dall’Australia alla Malesia. Anche meno, Giorgia: quando il vittimismo diventa mitomania, il ridicolo è in agguato.
Così, basta una scritta su un muro o uno slogan contrario, ed ecco scattare la Giorgia di Pavlov: la odiano, e lei non se lo merita, e giù l’elenco infinito, dai magistrati agli avversari politici, dai sindacati ai manifestanti, tutto intercambiabile, tutto sullo stesso piano, tutto spostato dal terreno politico a quello personale. Tutto già visibile e decrittabile senza sforzi fin dalla prima esternazione pubblica in veste di Presidente del Consiglio, quando si descrisse come povera e umile underdog nonostante avesse fatto il ministro all’età di trent’anni. Naturalmente il vittimismo come pratica politica ha molti vantaggi – ce lo insegnò benissimo Berlusconi buon’anima (“Povero Silvio!”) – consente e giustifica una certa aggressività e al tempo stesso mette al riparo dalle critiche, perché ogni opposizione sembrerà un complotto. In più, il vittimismo compatta la tua parte, la discussione si sposta non sul fatto di cui si dibatte, ma se e quanto chi sostiene una tesi sia mosso da aggressività nei confronti di Giorgia, e oplà, dell’argomento non si parla più, e si parla invece di chi che l’ha con lei. “Lu piagne è mezza partita”, dice un proverbio marchigiano (ancora la saggezza popolare), cui si aggiunge il dna, che non mente, dato che il vittimismo dei fascisti è un dato storico innegabile, rintracciabile su qualunque libro di storia che però, naturalmente – e come ti sbagli – sicuramente ce l’ha con lei.
Esserci – Enrico Campofreda
Un pizzico di Storia, ottocentesca, non del Novecento, quando il nazionalismo era anche un insieme d’ideali e non solo d’assatanato militarismo, sebbene si servisse dei bersaglieri di Lamarmora, la Giorgia nazionale in queste ore deve averla ripassata. Magari una ‘lectio Bignami’ fornita dal fido tuttofare Fazzolari oppure da un erudito vero come il ministro Giuli. Ed ecco che vuole esserci alle trattative del dopo conflitto di Gaza, come se fosse il conte piemontese nella Parigi del 1856. Senza neppure aver spedito truppe. Al più, se servirà, arriveranno in seguito. Vuole esserci Giorgia Meloni non per fare l’Italia come Cavour, ma il “made in Italy” che oltre il parmigiano è merce Fincantieri e Leonardo, le nostre punte di lancia dell’economia nazionalista. E visti gli sventramenti dell’amico Netanyahu, nel progetto di ricostruzione ne trarrebbe vantaggio l’impresa edilizia e ingegneristica. Lo garantisce il “Piano Mattei”… Ormai diventato la formula passepartout per ogni passetto intercontinentale della premier che finora vanta precedenti su strategie di contenimento della migrazione, verso l’Italia, ed energia. Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Etiopia, Kenya, Mozambico, Costa d’Avorio, Repubblica del Congo le nazioni inizialmente coinvolte. Eppure, a inizio di quest’anno, queste sono le considerazioni di Aspenia (rivista che s’occupa dei rapporti fra Usa, Europa e le implicazioni internazionali): “Il Piano Mattei presenta alcune debolezze, in particolare la mancanza di risorse economiche adeguate ai progetti avviati o impostati. Attualmente, il governo italiano ha messo a disposizione circa 5,5 miliardi di euro, tra crediti, operazioni a dono e garanzie, di cui circa 3 miliardi dal Fondo Italiano per il clima e 2,5 miliardi dei fondi della Cooperazione allo sviluppo. È evidente che uno stanziamento di 5,5 miliardi di euro, distribuiti su sei settori di intervento e su un minimo di nove Paesi pilota, non può ritenersi sufficiente per affrontare in maniera efficace le ambiziose sfide che il il piano si propone”… “I progetti stessi vengono citati in termini generici, senza fornire dettagli concreti sull’entità delle risorse, sulla loro provenienza né sulle modalità di erogazione. Tale vaghezza solleva dubbi sulla reale portata dell’impegno e sulla capacità di tradurre le intenzioni dichiarate in azioni efficaci e coordinate”.
Allora cos’ha fatto Palazzo Chigi a inizio 2025? Seguendo la logica del “più siamo, meglio stiamo”, magari appresa dal barcarolo della domenica durante una gita al Lido di Ostia, ha imbarcato altri cinque Paesi (Angola, Ghana, Mauritania, Senegal, Tanzania) appoggiando l’apertura sul Global Gateway, lanciato nel 2021 dall’Unione Europea, per contrastare la cinese Via della seta’. Per la cronaca Global s’interessa di clima, energia, digitale, trasporti, salute, istruzione e ricerca rivolte al mondo intero, non necessariamente al continente africano. Ancora dubbi nel luglio scorso sulla programmazione sempre del “Piano Mattei”. Questo scrive la testata InfoCooperazione: “Molte iniziative del “Piano Mattei” risultano ancora in fase di definizione o avvio. La trasformazione di queste in risultati tangibili per le comunità locali è il vero banco di prova della sua efficacia. Inoltre nulla si dice rispetto agli strumenti di misurazione dell’impatto che verranno utilizzati per valutare le iniziative… Nessun progresso sul fronte della trasparenza. Dei progetti si sa poco o nulla al di là dei titoli e dei comunicati stampa che invece proliferano. Non esistono documenti di progetto, delibere e atti amministrativi che possano informare gli stakeholders e l’opinione pubblica sulla destinazione dei fondi. A due anni dall’avvio del Piano non esiste ancora un sito internet dedicato che raccolga le innumerevole iniziative”. Ma la premier del fare finta, poteva mancare all’ennesima vetrina predisposta in questi giorni dalla cosiddetta Pace trumpiana per Gaza? La risposta è già nella cronaca. La Farnesina sta disponendo la presenza dl Primo Ministro italiano alla firma dell’Accordo previsto per lunedì prossimo al Cairo. Il nostro governo annuncia una possibile entrata della Meloni nell’Ufficio per la ricostruzione predisposto da Tony Blair “Se ci verrà chiesto un contributo, siamo pronti a stare in prima linea” dice lei. E gongola, meditando interventi nelle infrastrutture e magari, eccoli finalmente gli epigoni di Lamarmora, anche la presenza di truppe. Cosa che ringalluzzisce il ministro Crosetto che mette in preallarme Esercito e Aeronautica. Vedremo se sarà una scossa agli affari di chi fa già affari col cemento (WeBuilt, che è sempre Impregilo, Pizzarotti, Percassi, Fincantieri Infrastrutture ma ce ne sono altri). Bisognerà anche vedere quale tangente, ops! dazio, prevederà di far pagare la coppia Kushner-Trump che pilota il business.
Nucleare, il piano del governo accentra i poteri e ignora i territori: serve un dibattito pubblico – Mario Agostinelli
Sta passando in una relativa indifferenza del mondo politico e in una acritica adesione di quello dell’informazione uno sforzo della destra al governo ben più meritevole di attenzione: si tratta del disegno di legge delega sul nucleare sostenibile, approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 ottobre 2025, che mira a creare un quadro giuridico e operativo per il ritorno della produzione di energia nucleare nel nostro Paese dopo i due referendum del 1987 e 2011.
L’impostazione è fortemente lesiva di principi costituzionali in vigore, mal sopportati da una compagine di centrodestra che infrange le regole con un piglio di arroganza pari alla sottovalutazione di un’opinione pubblica democratica non ancora avvertita, se non addirittura distratta.
La normativa presentata dal ministro Pichetto Fratin mira a creare un quadro giuridico e operativo per la produzione di energia nucleare, concentrando i poteri decisionali nelle mani dello Stato, escludendo Regioni e Comuni e promuovendo un modello economico basato sul rischio d’impresa. Nel disegno di legge delega, in una inedita centralizzazione dei poteri, il Ministero dell’Ambiente assume il controllo delle autorizzazioni e dell’attuazione dei progetti nucleari, superando eventuali ostacoli locali. È perfino previsto un titolo abilitativo unico calato dall’alto che include varianti urbanistiche, dichiarazioni di pubblica utilità e vincoli per l’esproprio.
Saranno gli operatori privati, con un accesso alla finanza pubblica, ad essere responsabili di tutti gli oneri economici e ambientali, inclusa la disattivazione degli impianti e la gestione dei rifiuti radioattivi, senza costi per lo Stato. Il nucleare – definito “sostenibile e parte del processo di decarbonizzazione” – sarebbe sostenuto da “campagne informative nazionali e consultazioni capillari per le popolazioni interessate, integrate nei procedimenti autorizzativi”.
Entro il 2027 dovrebbe essere definito il Programma Nazionale con la società Nuclitalia – costituita da Enel, Ansaldo Energia e Leonardo – “a coordinare la filiera italiana delle tecnologie di nuova generazione”.
E’ di recente uscito in nuova edizione il libro Lo stato atomico di Robert Jungk, che denuncia i pericoli dell’energia nucleare e l’ideologia della deterrenza atomica: il suo contenuto è di grande attualità e appropriatezza se lo si applica all’incauta sortita in corso da parte della lobby nucleare. L’autore descrive l’energia nucleare come una forza che ha introdotto una nuova dimensione di violenza, capace di minacciare non solo gli avversari militari, ma anche i cittadini comuni.
L’autore sottolinea che l’energia nucleare, sia civile che militare, è intrinsecamente ostile alla vita e comporta rischi che non possono essere completamente eliminati. La sua diffusione richiede segretezza, sorveglianza e controllo e misure di sicurezza straordinarie, che spesso sfociano in restrizioni alla libertà e alla partecipazione democratica. E’ questa la dimensione che va richiamata a fronte di un’incauta ripresa di una politica energetica nazionale che svolta senza un adeguato dibattito dalle rinnovabili verso l’atomo e il consolidamento dell’apporto del gas.
Si tratta di passare da energie rinnovabili e decentralizzate, che rispettano l’ambiente e la giustizia sociale, ad una crescente centralizzazione del potere, nonché da fonti disponibili sul territorio ad una dipendenza da tecnologie pericolose per la convivenza e la salute di generazioni.
Si dirà che, in fondo, i nuovi reattori Smr e Asr sono solo complementari – accessori – alle energie dolci e decentrate di sole, acqua e vento, ma una analisi del modello di governo ostentato dal ddl approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 ottobre 2025 chiarisce che non c’è compatibilità tra una “via morbida” che si ispira all’ecologia integrale e decentralizza il potere e una “via dura” che favorisce la crescita economica a scapito dell’ambiente e della partecipazione. Vie certamente contrastanti e di non scontato pari gradimento per la compagine di governo in carica.
D’altra parte, non è un mistero che l’attuale amministrazione americana del presidente Trump ci vorrebbe acquirenti del gas trasportato dalle sue metaniere e delle tecnologie dell’atomo in rilancio negli States, anziché autonomi e liberi dai balzelli e dai dazi che ci andrebbero imposti.
Ci si dirà: in fondo le ragioni dei referendum del 1987 e 2011 sono ormai superate. Proprio no, come ho già cercato di argomentare in precedenti post. Non siamo assolutamente di fronte a tecnologie sicure, né a costi vantaggiosi per la finanza pubblica e le bollette dei consumatori, né a tempi compatibili con la crisi climatica. Ma piuttosto di una valutazione sommaria e di un dibattito carente, ben vengano le critiche e una discussione franca, all’altezza della fase che attraversiamo e che non consente affatto di imboccare qualsiasi strada a cuor leggero.