Aboliamo la depredazione, torniamo all’umanità

di Raoul Vaneigem (ripreso da comune.info.net)

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Campagna Acqua per Gaza di Un ponte per

 

 

Abbiamo fatto dell’Essere umano la vergogna dell’umanità.

Dall’epoca più lontana della Storia fino ai nostri giorni, nessuna società ha mai raggiunto il livello di indegnità e abiezione dimostrato dalla civiltà agro-mercantile. Quella che da diecimila anni si considera la Civiltà per eccellenza.

È innegabile che abbiamo ereditato sia un istinto di depredazione sia uno di aiuto reciproco. Costituiscono entrambi la nostra parte di animalità residua. Però, mentre la coscienza di una solidarietà unificatrice favoriva la nostra progressiva umanizzazione, l’aggressività predatoria sviluppava dentro di noi una tendenza all’autodistruzione. È tanto difficile da capire?

L’apparizione di un’economia che sacrifica la vita al lavoro, al Potere e al Guadagno segnò una rottura con l’egualitarismo e l’evoluzione simbiotica delle civiltà pre-agricole. L’agricoltura e l’allevamento hanno privilegiato l’istinto predatorio a spese di una pulsione di vita che non ha mai rinunciato a ristabilire la sua usurpata sovranità.

L’appropriazione, la concorrenza e la rivalità si divertono a esaltare la “bestia civilizzata”, la cui sublimazione spirituale serve a legittimare le loro imprese. Nella sua forma emblematica, il leone suggerisce, in questo modo, che è naturale dargli la caccia e opprimere le bestie. In questa maniera, ciò che in realtà si impone è lo snaturamento dell’essere umano. Cercheremmo invano fra i carnivori più spietati una crudeltà tanto determinata e una ferocia così ingegnosa come quelle che esercitano la Giustizia, la Religione, l’Ideologia, il Dominio, lo Stato e la Burocrazia.

Bisogna vederlo il ghigno dei mercanti di armi quando i loro prodotti di marca fanno a pezzi donne, bambini, uomini, bestie, boschi e paesaggi. “À la guerre comme à la guerre”, non si dice così? La Germania ha il cinismo del fatto compiuto. Non ci nasconde niente di quei ristoranti senza cuore1dove dame-e-cavalieri si riempono la pancia mentre le loro scarpe di lusso grondano sangue ed escrementi.

Perché preoccuparsi quando un’opinione pubblica già inquadrata si schiera a fianco di uno o un altro belligerante, come se si trattasse di un incontro di calcio dove si affrontano Russia e Ucraina, Israele e Palestina? Le scommesse sono aperte e gli applausi degli spettatori coprono le grida delle moltitudini massacrate.

Accontentarci di lanciare anatemi su una civiltà abietta non le impedirà di perpetuarsi mentre noi permettiamo alle leggi della rapacità finanziaria di orchestrare il nostro snaturamento, scandire le nostre apatie e mettere in evidenza le nostre frustrazioni scatenando esplosioni di un odio cieco e assassino. Aggiungere il rimprovero all’errore? A che scopo? Servirebbe solo a rafforzare un sentimento di colpa personale che si esorcizza accusando gli altri. Il riflesso predatorio ne trarrebbe, di nuovo, un vantaggio.

Le esortazioni dirette alla maggioranza cadono sotto i colpi di un doppio discredito: da una parte, le consegne e le esortazioni militanti mettono in moto il vecchio motore del Potere, in cui il radicalismo ostacola rapidamente la radicalità dell’esperienza vissuta; dall’altra, ciò che si decide di diffondere sul podio dei concetti generali si diluisce rapidamente nell’intruglio delle idee separate dalla vita, a meno che una lettrice o un lettore vi scopra l’opportunità di intavolare un dialogo intimo con se stessa o se stesso. In altre parole, a meno che entrambi bevano alla fonte della coscienza umana che sta dentro di loro.

Per questo preferisco parlare direttamente all’individuo autonomo e non alle masse. Perché quello sa molto bene che la mia unica intenzione è di affidargli la mia maniera di vedere le cose, in una discussione fraterna in cui non è necessario conoscersi per riconoscersi.

Non è l’aiuto reciproco la migliore garanzia del risveglio delle coscienze? Non è un caso che la solidarietà rinasca spontaneamente man mano che la depredazione smette di nascondere come divori se stessa e tragga guadagno dalla sua autodistruzione.

La rovina dell’avere diffonde una stanchezza peggiore di quella morte il cui spettro ci minaccia senza soste. E allora il soffio della vita ripristina l’essere. Il soggetto si emancipa dall’oggetto, si libera della cosa a cui lo riduceva la mercificazione. Non è per caso questo che è implicito nell’adagio “l’uomo e la donna non sono merci?” Che gli uomini e le donne rivendichino, rispettivamente, la loro parte di femminilità e di mascolinità non cambia per niente la lotta comune che portano al sistema che li riduce in questo stato. Basterà risparmiare ai bambini i danni dell’educazione predatoria perché la loro spontanea radicalità si incarichi di risvegliarli alla loro destinée2 di esseri umani.

Non c’è bisogno di profeti per rendersi conto che quel che si avvicina sarà, o il trionfo del bruto a cui la clava serve da intelligenza, o l’irruzione di una vita che ritrova la coscienza della sovranità che la sua umanità ha diritto di esercitare.

L’utilità di fascismo e antifascimo consiste nel nascondere la vera lotta finale, quella, al tempo stesso esistenziale e sociale, che implica lo sradicamento della depredazione, la sparizione del Potere gerarchico e la fine di chi latra ordini.

Il cinismo e l’assurdità lucrativa delle guerre, istigate dalle mafie statali e globali, hanno finito per stancare anche il più ottuso dei loro tifosi. La successione di contrapposizioni praticamente intercambiabili spinge l’opinione “pubblica” ad abbandonare a poco a poco la scacchiera dei maneggi geopolitici. È qui e ora che l’apparizione di movimenti come il maggio 1968, gli zapatisti, i gilet gialli e i combattenti e le combattenti del Rojava apre alla vita e alla coscienza un cammino che il deragliamento storico della Civilità agro-mercantile aveva ostruito e condotto verso la morte.

Non sperare in niente non significa disperare di tutto. Il ritorno alla vita è una reazione violenta, naturale e spontaneaContiene in sé la capacità di fermare la desertificazione della Terra da cui il profitto trae le sue ultime risorse. Il ritorno alla vita, alla sua autenticità e alla sua coscienza è la nostra vera forma di autodifesa immunitaria. Visto che lo snaturamento ostacola questo processo in nome del Guadagno, perché non contare sulla natura che esiste in noi e nel nostro ambiente per porre fine a una civiltà odiosa? Come? Non fatela a me la domanda, fatevela a voi stessi, che in ogni momento navigate fra il letargo e la rivolta!

I segnali di inquietudine e di giubilo si mescolano e moltiplicano dappertutto. Ma non ingannatevi! Il rifiuto rabbioso di una guerra diretta specificamente contro una determinata nazione – in questo caso la Palestina – va molto al di là di un semplice ripudio. Esprime ogni volta con maggior chiarezza l’esecrazione verso una guerra rivolta non solo contro la popolazione di una regione, ma contro il popolo di tutte le regioni del pianeta Terra. Popolo che ha capito che per l’avidità totalitaria vivere è un crimine. È per questo che le nuove insurrezioni globali fanno parte dell’autodifesa del vivente. In esse si incarnano tanto la volontà di abolire un universo di psicopatici che guadagnano dalla morte, quanto la messa in opera di una nuova alleanza con madre natura.

È in questo che la guerra è stata di troppo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non per le cricche delle armi, statali o soprastatali che siano, non per i produttori di narco-neurolettici, ma per chiunque non sia disposto a morire prematuramente unendosi al partito della servitù volontaria e del “viva la morte!”3

Il problema discende soprattutto dal dubbio, dalla disperazione, dalle disillusioni a cui vanno incontro, di generazione in generazione, i sostenitori della vita.

Non è forse un’aberrazione aspettarsi qualcosa dalle istanze governative che decidono a nome nostro e ci tormentano con i loro decreti, giocando a quale di essi è più ridicolmente ingannevole del precedente?

In mezzo alla desolazione della nostra epoca, abbiamo almeno il piacere di veder marcire davanti ai nostri occhi gli Dei, quegli impostori che da diecimila anni hanno usurpato quella facoltà di creare e crearsi che la vita, nella sua folle fecondità, aveva concepito proprio per la specie umana.

È arrivato il momento di riprendere il corso del nostro destino. È arrivato il momento di cambiare il mondo e di diventare quello che vogliamo essere: non i proprietari di un universo sterile, ma gli abitanti di una Terra in cui coltivare l’abbondanza permetterebbe di godere in libertà. Basta con questo mondo alla rovescia dove il guadagno si impoverisce impoverendo le sue risorse! Che la disparizione delle energie nocive decontamini l’acqua, l’aria, il suolo e la terra, in modo che il nostro ingegno creatore cancelli persino il ricordo di una sfortunata deviazione della nostra evoluzione!

Nell’intensità di un desiderio il presente si risveglia in presenza di una vita che non si preoccupa né di essere misurata né di essere programmata. L’allegria di vivere ci inizia all’arte dell’armonia, poiché porta con sé la facoltà specificamente umana di creare e crearsi.

La proprietà terriera e l’allevamento avevano introdotto nei costumi della gente un gregarismo grazie al quale l’individuo vedeva la sua intelligenza abbassata a quella del bestiame che doveva nutrire col suo lavoro. Quel che oggi si profila è una rinascita dell’individuo autonomo che si libera dell’individualismo e della sua coscienza alienata.

Ci troviamo in un punto di inflessione della Storia, in cui l’elaborazione di uno stile di vita sostituirà una sopravvivenza condannata al lavoro, un’esistenza dedicata a un confort frutto di cure palliative.

La presa di coscienza che emana dalle nostre pulsioni vitali mette in evidenza un conflitto incessante tra una prospettiva di vita e una prospettiva di morte, tra l’attrazione dei nostri desideri, illuminati dalla nostra intelligenza sensibile, e il controllo esercitato contro di lei dll’intelligenza intellettuale. Questo perché il blocco delle nostre emozioni da parte di ciò che Wilhelm Reich chiama corazza caratteriologica obbedisce ai comandi dell’efficienza meccanica a cui è soggetto il corpo durante il lavoro. Pertanto, se il piacere che viene fuori dalla gratuità della vita non trova posto nell’avidità totalitaria, è allora evidente che restaurare la gioia di vivere, sviluppare la combattività festiva, rafforzare l’innocenza del vivente, che ignora tanto i padroni quanto gli schiavi, sono armi che per loro natura possono precipitare la rovina del Guadagno.

Stiamo nel vortice di un combattimento appassionante. Segnala la rinascita della nostra coscienza umana ed esprime il risorgere di una dignità che è sempre stata nel cuore dei nostri tentativi di liberazione, specialmente nel progetto proletario di una società senza classi. Abbiamo visto come il proletariato sia stato spogliato del suo progetto da quegli stessi che si proclamavano suoi difensori. Sarebbe meglio prendere in considerazione fin dall’inizio lo sradicamento di ogni forma di potere, che sia quella del sindaco, del funzionario dello Stato o del militante funzionario dell’ideologia e della burocrazia contestataria.

Fra quelli che si autoproclamano rappresentanti del popolo è facile riconoscere i manipolatori che ambiscono sostituire la burocrazia dello Stato con la loro.

Non è forse una decisione salutare desiderare tutto senza aspettarsi niente? Qui mi riferisco all’affidarci alle nostre pulsioni vitali come se fossero non una fatalità ma una presenza creatrice che abbiamo la libertà di sperimentare impedendo che quelle si blocchino, così da evitar loro un’inversione mortale che generi piaghe emozionali. Abbiamo sottostimato l’importanza di raffinare la collera per evitare la trappola dell’urgenza, per non lasciarci trascinare sul terreno del nemico, per non soccombere alla militarizzazione della militanza. Però, soprattutto, la distanza che implica il raffinamento delle emozioni si configura come un luogo propizio per la maturazione della creatività. Favorisce la messa in moto di una guerriglia che evita di ricorrere ad altre armi che non siano quelle che non uccidono e sono inesauribili.

Con la prospettiva dei secoli si percepirà come il risveglio della coscienza abbia rianimato la lotta, come il rinnovamento dell’aiuto reciproco liberi poco a poco dalle nebbie della confusione.

Alle generazioni future risulterà inconcepibile che noi si sia tardato tanto a renderci conto che la vita aveva dotato l’uomo e la donna di una facoltà eccezionale, senza la quale non avrebbero superato lo stadio dell’animalità. Nella sua cecità pratica, ci ha offerto il privilegio di creare e ricreare il mondo che ci circonda.

Le comunità pre-agricole si sono evolute in simbiosi con l’ambiente da cui traevano il loro sostentamento. L’apparizione della Civiltà mercantile e delle sue Città-Stato segnò una rottura con la natura che da soggetto vivo passò a convertirsi in oggetto di sfruttamento. Si utilizzò un sistema di governo autoritario per occultare l’aiuto reciproco e creativo che aveva guidato, “da Lucy fino a Lascaux”, un’evoluzione che oggi gli adulatori della civiltà mercantile sono molto restii a scoprire.

Prevalse la nozione di Destino. Diffuse uno spirito di sottomissione, inculcò un’ontologia della maledizione, estese il mito di una Caduta irrimediabile a cui dobbiamo rassegnarci, così come obbediamo all’arbitrarietà di un padrone divinizzato.

Ciò che rinasce ora in quelli che ancora aspirano a vivere è la sensazione di essere stati ingannati. Il collasso del patriarcato, man mano che finisce di seppellire gli Dei nelle latrine del passato, ci insegna a scoprire la differenza fondamentale fra Destino e destinéeIl disprezzo della vita, programmato dalla civiltà mercantile, ha nascosto sotto il termine Destino, il principio attivo che io chiamo destinée, che non è altro che la capacità di crearsi ricreando il mondo.

Il Destino appartiene alla Provvidenza, non si discute e invoca quella Fatalità che aggiunge al servilismo un apprezzabile confort.

Il Destino si soffre, la destinée si costruisce. In questo non c’è nulla di metafisico. L’atroce barbarie della nostra storia non è mai riuscita a soffocare la lotta viscerale che mostra, di generazione in generazione, una volontà di emancipazione intemporale che viene, nello stesso tempo, modellata dai flussi economici, politici, psicologici e sociali.

Destino e destinée pongono un problema perché sono diventati sinonimi. Così suggerisco di mantenere le radici francesi di destinée per maggior chiarezza.

La radicalità delle lotte per la vita esige che la destinée umana rimpiazzi il Destino, il Caso, la Provvidenza. Rifiorisce nel mezzo di una no man’s land4 dove una civiltà incontinente si svuota della sua sostanza esistenziale, mentre una nuova civiltà lotta con i dolori del parto.

Tra i balbettìi dell’autonomia, la potenza creatrice della donna e dell’uomo – per quanto incerta sia – rivela di colpo che siamo capaci di crescere senza padroni, guru e tutele. Se abbiamo avuto l’opportunità di comprendere che niente attraeva la disgrazia con più certezza dell’abitudine di esser contenti in sua compagnia, allora dobbiamo essere d’accordo sul fatto che, al contrario, il piacere della gioia di vivere risulta ugualmente contagioso e lo fa in una maniera più gradevole.

L’indistruttibile determinazione a coltivare nello stesso tempo la nostra vita e quel giardino che è la nostra madre terra offre un aiuto infallibile contro la paura, il senso di colpa, il sacrificio, il puritanesimo, il lavoro, il potere e il denaro. Alimenta la lotta contro lo spirito mercantile che garantisce dappertutto la promozione di valori “antifisici”, ostili alla natura.

Nella lotta per l’emancipazione dell’io, la volontà di autonomia individuale è allo stesso tempo unica e plurale. Le domande a proposito della salute, l’equilibrio, l’immunità, l’amicizia, l’amore, i piaceri e la creatività stanno nel cuore di quell’emancipazione della Terra che le nuove insurrezioni globali hanno illuminato. La posta in gioco è uguale dappertutto: raggiungere la libertà dei desideri creando una società che si sforzi di armonizzarli.

Nella mia vita quotidiana, l’autenticità del vissuto è la garanzia naturale dei miei desideri. La sua libertà esclude quelle mercantili; la libertà di sfruttare, opprimere e uccidere.

La libertà e l’autenticità costituiscono per l’individuo in cerca di autonomia il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata.

La predica delle buone intenzioni non è mai stata tanto insopportabile come nel XXI secolo, in cui la coscienza alienata ora non indossa i guanti di velluto per mettere le parole al lavoro. Col nome di terrorista, assassino, psicopatico o delinquente indica quella che, per disgrazia, non è altro che una condizione di disumanità che la frenesia del Guadagno a breve termine aggrava e accelera al ritmo delle sue grandi opere, profittevoli e inutili.

Ho sempre difeso questo principio: libertà assoluta per tutte le opinioni, proibizione assoluta di qualsiasi forma di inumanitàSecondo me, questa è l’unica maniera di affrontare la questione delle religioni e delle ideologie. Una tale opzione ci libera dell’ipocrisia umanitaria con qui si abbelliscono in maniera ridicola tante idee e credenze. Non dobbiamo neppure ripetere che la libertà di pensiero non è mai stata altro che una libertà mercantile.

Non vogliamo giudicare la disumanità, vogliamo condannarla ed esiliarla. Non ci servono spiegazioni, né giustificazioni, né circostanze attenuanti. Che venga dai quartieri ricchi o da quelli poveri, dal conservatorismo o dal progressismo, nessuna disumanità è tollerabile. Che rimanga chiaro e senza ambiguità!

Faremo tutto il possibile per sradicare dai nostri costumi la propensione ad uccidere, ferire, violentare e maltrattare, senza tener conto delle ragioni utilizzate per spiegare le sue apparizioni e riapparizioni. Ora basta col tribunale universale, dove soppesare, giudicare, scusare, condannare, castigare e amnistiare perpetua le proteste dell’indignazione impotente. La giusta collera continuerà ad essere impotente mentre si radica in ognuno di noi quel “togliti di mezzo che sto arrivando!” che condanna alla giungla sociale e al riflesso predatorio.

Ora basta con questa caricatura di esistenza volgarizzata su scala globale dall’evangelismo narco-americano! Il self-made man5costruisce e diffonde solo la propria morte. Quello è il suo prezzo ed è esibito con orgoglio!

Non è nell’individuo autonomo che si basa il piacere di non dover rendere conto a nessuno, di stare soli a investigare, discutere e, prima o poi, realizzare una trasformazione alchemica della monotona sopravvivenza che in lui si impantana? Di causare la trasformazione della materia prima – condannata a putrefarsi – nella vita piena e completa a cui abbiamo sempre aspirato come esseri umani? L’arte di vivere disimpara il morire. Questa è l’unica lezione a cui desidero afferrarmi.

Godere della mia autenticità vissuta, per quanto disordinata sia, mi libera dell’obbligo di giocare un ruolo, un obbligo che impongono l’individualismo e il gregge – il conglomerato dei gregari – che ignora l’individuo e ne riconosce solo la forma alienata. Mi fa prendere coscienza del ridicolo e patetico dovere di apparire, mi libera della dittatura dell’esteriorità, dello spettacolo e della paura di essere costantemente valutato e giudicato. La vera felicità non consiste forse nel tornare a incontrare l’innocenza di essere se stessi, di non doversi giustificare, di desiderare secondo il cuore senza sperare niente dalla mente?

Ci incamminiamo verso un nuovo Rinascimento verso un ritorno dell’Illuminismo. La nostra strada laterale sarà quella di una clandestinità rivendicata apertamente. Il pugno del guadagno ci colpisce dappertutto, colpiamo noi da tutte le parti per disintegrarlo!

La clandestinità comincia dentro di noi, nella “stanza buia” dove rimaniamo soli a discutere senza fine di quello che non vogliamo e di quel che desideriamo. Ci sveglia perché prendiamo coscienza delle nostre pulsioni di vita, dei piaceri che la stimolano, delle contrarietà che la rovesciano e la trasformano in pulsioni di morte.

Il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata è affermato tanto dall’anonimato dei gilet gialli quanto dall’anonimato che ogni individuo reclama quando si rifugia nella stanza buia dei suoi desideri segreti. Là dove si ritrova solo a decidere se unirsi al sistema di depredazione e al calcolo egoista dell’individualismo, oppure se scegliere di dedicarsi, meglio, alla trasformazione della sua sopravvivenza in una vita piena e completa.

In un suo lavoro, Fuenteovejuna, il drammaturgo Lope de Vega mette in scena gli abitanti di un villaggio che, stanchi della crudeltà di un iniquo governatore, lo ammazzano. I giudici e i boia incaricati di scoprire il colpevole, per quanto interroghino gli abitanti e le abitanti del villaggio, ricevono in risposta solo il suo nome, Fuenteovejuna. Poiché la guerra stanca, viene concessa un’amnistia generale.

L’anonimato che rivendicano gli individui in lotta per la loro autonomia solidale offre l’esempio di un’arma di vita, di una federazione di resistenze all’oppressione. Così come l’ostinazione dei gilet gialli ormai non ha bisogno di gilet per diffondersi, noi assistiamo alla presenza crescente di una vita che aspira a essere libera e non si preoccupa né di religioni, né di politica, né di strutture gerarchiche, statali e globali. La vita è innanzi tutto il fucile rotto che distrugge la reificazione e insegna a sabotare la trasformazione dell’essere nell’avere. Radicalizza il riformismo militante dissuadendolo dal permettere che il Potere che dice di combattere si incrosti in lui.

Ciò che è vivo porta in sé la fertilità del desiderio. Nessun deserto resisterà alla sua fecondità. Nella nostra intimità si configura la decisione di cancellare l’istante che appartiene al tempo della distruzione, del lavoro e della morte, per privilegiare il momento e il desiderio della vita che si manifesta nei piaceri dell’autenticità vissuta. Volete una prova alla rovescia? Osservate, mentre scrivo queste parole, la formidabile onda di nichilismo autodistruttivo che sommerge le società corrose dal cancro della rendita.

Do meno importanza all’adesione di una grande maggioranza che all’intelligenza degli individui autonomi, che è, grazie alla sua voglia di autenticità, l’antidoto all’intellettualismo intellettuale.

Lenta ma ineluttabile, la trasformazione della prospettiva illumina il rinnovamento e il luogo dove di compie la riunificazione dell’esistenziale e del sociale. La battaglia individuale e quella per una società autenticamente umana sono una stessa cosa.

La vita non ha bisogno né di padroni, né di culti religiosi, né di partiti.

Il piacere è la violenza pacifica del vivente che prolifera in noi e intorno a noi. Il piacere è la gratuità che ci ha conferito una coscienza capace di umanizzare quella violenza.

Ricostruiamo la Terra, facciamo dei nostri paesi, dei nostri quartieri e delle nostre regioni altrettante oasi che il vivente faccia tornare inespugnabili!

Questo articolo fa parte del libro Aprire l’impossibile, di Raoul Vaneigem, pubblicato da Comunizar (fratello di Comune). Nel numero 3/2025 della Revista Critica anticapitalista di Comunizar è apparso con il titolo completo Aboliamo la depredazione, torniamo alla nostra umanità. Chiamata alla creazione mondiale di collettività in lotta per una vita umana libera e autentica.

Traduzione per Comune di Marco Codebo.

1 Riferimento a Restos de Cœur o Restaurants du Cœur, traducibile come “Ristoranti del cuore”. Si tratta di un’organizzazione caritativa fondata in Francia, nel 1985, su iniziativa del comico Coluche per distribuire cibo e piatti pronti ai più poveri della società. È ancora in attività.
2 Come è discusso più avanti nel testo, nel significato del francese destinée è compreso un principio attivo, la capacità di creare se stessi ricreando il mondo.
3 “Viva la morte, muoia l’intelligenza!” fu il grido delle truppe fasciste di Franco durante l’assedio di Madrid. Si tratta di uno slogan coniato da José Millán Astray, primo tenente colonnello della Legione spagnola, durante un discorso di Miguel de Unamuno, rettore dell’università di Salamanca, in occasione della celebrazione del Día de la Hispanidad, nel 1936. Unamuno rispose al grido di Millán: “Vincerete ma non convincerete”.
4 “Terra di nessuno”, in inglese nell’originale.
5 “Uomo che si è fatto da sé”, in inglese nell’originale.

da qui

Comune-info lo ha pubblicato con questa introduzione

Lanciare anatemi su una civiltà abietta non le impedisce di perpetuarsi mentre noi permettiamo alle leggi della rapacità finanziaria e all’aggressività predatoria di orchestrare il nostro snaturamento. E allora? Quella di Raoul Vaneigem è una chiamata alla creazione di collettività in lotta per una vita umana libera e autentica. Una creazione con la quale smettere di prendere in considerazione qualsiasi forma di potere, il mondo non si cambia in profondità dall’alto; ripudiare la guerra contro la Palestina in quanto guerra contro i popoli di tutte le regioni della Terra; dare spazio all’aiuto reciproco; riscoprire la facoltà unica che lega tutte le donne e tutti gli uomini, saper creare e ricreare il mondo che ci circonda. “È arrivato il momento di riprendere il corso del nostro destino. È arrivato il momento di cambiare il mondo e di diventare quello che vogliamo essere: non i proprietari di un universo sterile, ma gli abitanti di una Terra in cui coltivare l’abbondanza permetterebbe di godere in libertà…”

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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