Baldini, Galateria, Chelazzi, Leogrande, Pichi….

… Pucci di Benisichi, «Yasmina Khadra», il duo Jha-Civalleri e il trio Ionesco-Mokhnacheva-Gemenne

recensioni (non solo giallo-noir) di Valerio Calzolaio   

Calz-copertinaLeogrande

 

Alessandro Leogrande

«La frontiera»

Feltrinelli 2015

I confini del Mediterraneo. Ultimi decenni. Da qualche tempo molti migranti forzati arrivano ai confini marini o terrestri dei Paesi di frontiera europea meridionale e orientale. Fuggono da eventi o persecuzioni noti e diffusi, ciascuno è un individuo diverso, con una propria identità e biografia sconvolte dalla fuga e dal viaggio. La migrazione non è una parentesi breve, spesso si lascia tutto (radici, affetti, ruoli), poi per mesi e anni ci si sposta pagando e subendo tutto, senza conoscere nulla di cosa si trova. Nell’ultimo decennio siriani, afghani e curdi hanno dovuto preferire la rotta orientale (prima Patrasso, poi l’Ungheria). A seguire rotte verso l’Italia (Lampedusa è a sud di Tunisi) continuano a essere soprattutto africani per ragioni storiche di lungo periodo: ci sono l’abbandono dei terribili gulag eritrei, la dissoluzione del Corno d’Africa, la crisi dell’Africa occidentale sotto il Sahara, guerre e tumulti in Libia. Muri, blocchi navali, rimpatri forzati sono violenti, pericolosi, inutili. È indispensabile risolvere le cause che generano la fuga in massa di interi popoli, capire che i viaggi vengono dopo stermini silenziosi e sono percorsi da cui si esce profondamente cambiati (quando si sopravvive: alle vessazioni, al deserto, al mare), prodigarsi con competenza e generosità. Contano i grandi numeri e le piccole storie: il sudanese (dal Darfur) Ali; il somalo Hamid; gli eritrei Syoum, Gabriel, R., Behran (transitato pure nell’inferno del Sinai); il curdo Shorsch; gli afghani Ahmad e Aamir; libici e palestinesi; trasportati e trasportatori; traghettati e scafisti; vittime e minorenni; sicari e capi.

Il giornalista narratore Alessandro Leogrande (Taranto 1977) ha raccolto in un libro serio e bello le domande e alcune risposte di venti anni di peregrinazioni fra migranti forzati di arrivo o transito nel nostro paese. Romano d’adozione, è vicedirettore del mensile “Lo straniero” (fondato da Goffredo Fofi nel 1997), collabora con vari organi d’informazione e ha pubblicato articoli, servizi, testi su mari di naufragi e terre di confine. Titolo e filo del volume coincidono: le “nostre” frontiere come termometro del mondo, non luoghi precisi ma territori in perenne mutamento e, come ripete alla fine, «una linea lunga chilometri e spessa anni… solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano». La sua riflessione è fedele alla pluralità dei punti di vista, di qua e di là, andate e ritorni, prima durante dopo, testimonianza e pudore. Ci sono continui punti interrogativi, mai supponenza e iattanza. Si può ridurre il male? L’anno dell’operazione Mare Nostrum lo ha ridotto, utile perché ha salvato 160mila persone, imperfetta perché non ha evitato la morte di 3.400; utile perché ha fatto fare assistenza sanitaria e umana alla Marina Militare, imperfetta perché considerata presto troppo costosa. Forse manca un cenno alla questione della migrazione forzata di “ecoprofughi”, comunque Leogrande esamina con sguardo acuto dati e informazioni sui centri di permanenza e sul colonialismo italiano, sullo schiavizzato bracciantato meridionale e sulle guerre d’indipendenza, su Alba Dorata e sui campi profughi, sulle associazioni di sostegno e sui processi giudiziari in corso.

 

Alok Jha e Luigi Civalleri

«Il libro dell’acqua. La storia straordinaria della più ordinaria delle sostanze»

Bollati Boringhieri

Universo. Ultimi 4 miliardi e mezzo di anni. Circa. Vi sono varie teorie su come a quel tempo l’acqua sia arrivata dal pulviscolo spaziale, esiste da prima della vita sulla terra (allora rovente), poi ne ha formato i mari. Comunque, dopo qualche centinaio di migliaia di anni, nell’acqua (brodo primordiale o camini idrotermali dei fondali oceanici) si è verificato un processo chimico capace di riprodursi e di codificare l’informazione (genetica) per continuare a farlo, quel sistema proteine-Dna che è la vita sulla Terra. Da allora, circa 4 miliardi di anni fa, qui c’è vita, esistono fattori biotici, e questa vita, ognuno di quei fattori, non sopravvive senza acqua. Quasi tutti gli organismi vitali sono (siamo) composti in buona parte di acqua, la sostanza più abbondante del pianeta, di quantità complessiva stabile. Come noto la molecola ha tre atomi, due di idrogeno, uno (grande) di ossigeno: H2O. È a forma di V, l’idrogeno alle estremità in alto con minor massa e leggera carica elettrica positiva. Il ciclo idrologico è mantenuto dall’energia solare (l’unica energia che abbiamo dipende dall’inclinazione con cui arriva) ed è decisivo per la temperatura e il clima. L’acqua si attacca a tutto, s’infila ovunque, capillare con forte tensione superficiale (poco comprimibile), i 4 legami a idrogeno costruiscono un fortissimo reticolo tridimensionale di tetraedri (ottimo conducibile e solvente ideale); non si trova quasi mai pura (ha sempre disciolti in sé tanti altri atomi, molecole e sostanze) ed è perlopiù liquida (2,1% ghiacciata, meno dello 0,001% vapore), pur non rispettando le proprietà di altri liquidi (si espande quando si solidifica, più è calda più congela rapidamente).

Il quarantenne fisico e giornalista scientifico, di origine indiana e di formazione anglosassone, già corrispondente del Guardian e autore per la BBC, Alok Jha ha scritto lo scorso anno un nuovo bel libro sulla sostanza che si associa alla vita. La molecola di acqua è la seconda più abbondante dell’universo (la prima è composta da due atomi di idrogeno), in senso stretto non è un fattore biotico, da qualche parte lassù potrebbe esserci vita senza acqua anche se certamente qui tutti i fattori biotici (vitali) ne dipendono in modo assoluto e co-evolvono in ecosistemi nei quali è diversamente distribuita e ciclicamente si sposta. Per due terzi la superficie terrestre è coperta di acqua, della quale il 97,5% è salato. Dove c’è acqua c’è vita terrena, però gli umani hanno bisogno di acqua dolce, solo in piccolissima parte (meno del 1% del 2,5% totale) disponibile per i consumi degli attuali 7,5 miliardi di donne e uomini. Quella (tanta) di falda copre a fatica il fabbisogno di circa il 50% della popolazione. Nella nostra evoluzione la svolta è stata quando Homo sapiens ha cominciato a raccogliere meno e coltivare più, a cacciare meno e allevare più, garantendo l’acqua indispensabile alla fotosintesi e alla stanzialità agricola. Chi riusciva a irrigimentarla e gestirla aveva potere sociale, accrescendo via via l’impronta antropica sui vari ecosistemi e creando flussi migratori. Il volume è scritto in ottimo stile, denso di esperienze personali (il lungo viaggio dell’autore in Antartide) e di citazioni scientifico-letterarie (raccontando con affetto e competenza la passione leonardesca).

 

Guido Chelazzi

«Inquietudine migratoria. Le radici profonde della mobilità umana»

Carocci

Pianeta Terra. Qualche milione d’anni. È forse giunto il momento di un approfondimento analitico circa le ragioni antiche e profonde della mobilità umana. I flussi contemporanei chiedono innanzitutto di essere capiti: quanto liberi o forzati, quanto ciclici e strutturali, quanto contingenti ed episodici, quanto condizionati da storia o geografia, da guerre o clima. Un viaggio serio deve andare alle radici del processo di autocostruzione della nostra specie, indietro fino alla preistoria e lontano nelle propaggini di tutti i continenti. Ci sono popoli originari e migrazioni primigenie? Homo sapiens è apparso in Africa circa 200.000 anni fa, indi è uscito da nord-est almeno un paio di volte, infine «è come se, intorno a 70.000 anni fa, dal continente africano si fosse verificata una fuoriuscita di magma genetico, che si è sparso sul pianeta nelle successive migliaia di anni per poi cristallizzarsi, tanto che ancor oggi la distribuzione della variabilità genetica umana porta le tracce di quella originaria eruzione». In quei primi spostamenti a piedi (anche molto lunghi, nello spazio e nel tempo) l’innesco sarebbe stato in prevalenza climatico o demografico, anche se sono via via sempre più cresciuti i fattori culturali e sociali. Nelle successive decine di migliaia di anni la specie si è diffusa in ogni continente, imponendosi cognitivamente sugli altri ominini incontrati per strada, restando l’unica del genere, sopravvivendo alla temperatura freddissima del massimo dell’ultima grande glaciazione (tra 23.000 e 20.000 anni fa) e poi cominciando a raccogliere meno e coltivare più, a cacciare meno e allevare più, stanziandosi con l’agricoltura neolitica a partire da aree diverse (e non connesse) del globo.

Il biologo ed ecologo toscano Guido Chelazzi (Torrita di Siena, 1948), presidente del Museo di Storia Naturale dell’università di Firenze, ci accompagna per gli inquieti percorsi migratori della nostra specie, con dotte citazioni scientifiche e intrecci multidisciplinari. Si concentra sui miti delle migrazioni originarie dei vari popoli (il metodo classico della costruzione identitaria) e sulle comunità vissute nella biodiversità europea (senza far mancare utili spunti ed esempi di altri contesti ed ecosistemi). Molto spazio dedica alla rivoluzione contadina («già 6.000 anni fa l’Europa era divenuta, sostanzialmente, una terra di agricoltori-allevatori») e alla parallela evoluzione geni-popoli-lingue (in specifico alla distribuzione delle lingue indoeuropee). Segnala con molti dati che «durante tutto l’Olocene si è verificato un ricambio di popolazioni dovuto a una serie di eventi di mobilità, inclusi quelli associati alla diffusione delle culture dell’Età del Bronzo, dell’Età del Ferro e successive migrazioni, comprese quelle legate alla caduta degli imperi». Non mancano cenni al ruolo cruciale dell’acqua, al peso della violenza fra umani, alla specificità dei pastori nomadi, alla svolta dei prodotti agricoli secondari (derivati come il vino) anche per il progressivo inurbamento, con particolare attenzione all’Italia. Giunge fino all’intero Medioevo e alla fase iniziale della Conquista europea dei Nuovi Mondi, dedicando l’ultimo degli undici capitoli a un rapido confronto fra mobilità arcaica e mobilità contemporanea, con un conciso riferimento ai rifugiati ambientali. Pertinente l’ampia bibliografia per un volume che resta agile, poco più di 200 pagine di piccolo formato.

 

Eraldo Baldini

«Trilogia del Novecento»

Einaudi

Ravennate. Tra il 1906 e il 1925. Con la «Trilogia del Novecento» Einaudi ripubblica tre bei romanzi dell’ottimo Eraldo Baldini (Russi, 1952), ambientati a cavallo della Grande Guerra nei “suoi” luoghi noir. L’ordine (anche cronologico delle storie) è inverso a quello dell’edizione originale. «Nostra signora delle patate» (Corriere della Sera, 2011) parla di streghe non solo locali e del bel rapporto tra Maddalena e Francesco. «Terra di nessuno» (Frassinelli, 2001) riprende il saggio importante di uno storico sullo “spaesamento” successivo ai conflitti e parla di quattro reduci in un bosco inquieto. «Mal’aria» (Frassinelli, 1998) vede l’ispettore ministeriale Carlo Rambelli alle prese con un grave caso di mortalità infantile. Pregiudizi e superstizioni sono un diffuso patrimonio dell’umanità, purtroppo.

 

Renata Pucci di Benisichi

«Per un buon uso della vecchiaia»

Sellerio

Molte vite passate, presenti e future. Scritture e letture brevi: vecchi di tutto il mondo unitevi! La diversamente giovane narratrice nobildonna siciliana Renata Pucci di Benisichi ci consegna oltre duecento graziosi tweet (brevi pensieri) «Per un buon uso della vecchiaia», 70enni e 80enni che non si arrendono e si prendono cura di se stessi, “lustrando e pulendo”, godendo di alcuni piaceri finalmente da concedersi. Si va da «verrà il giorno in cui, serenamente, non cercherò di apparire più giovane e più snella» a «attorno a te c’è sempre qualcuno che, con piglio da antiquario, racconterà quant’eri bella. E tu, non smentirlo», da «non ti accadrà più di vomitare tutta la notte per aver troppo bevuto» a «l’arrivo della vecchiaia è come essere penalizzati da un crimine che non hai commesso».

 

Maria Vittoria Pichi

«Come una lama»

Italic Pequod

Padova. 1981-82. È bene conoscere questa dolorosa storia vera, raccontata in prima con nitore e garbo. Il 17 dicembre 1981 venne rapito a Verona il generale Nato James Lee Dozier. Undici giorni dopo viene arrestata a Padova Maria Vittoria Pichi di Senigallia, laureata, contrattista in una farmacia a 20 km dalla città. Aveva appena compiuto 27 anni, viveva con Paolo, il cane Botolo e una coppia di coinquilini. La polizia dichiara di aver arrestato “quattro brigatisti della colonna veneta”. Falso, nonostante titoloni nazionali e marchigiani. Resterà in carcere fino al 6 aprile, Paolo fino al 10 ottobre. Il processo del 1988 dirà del “vuoto probatorio assoluto”, nessun clamore, nessun risarcimento. Nel 2009, dopo altre due perquisizioni fasulle, Maria Vittoria ha trovato il coraggio di raccontare quella vicenda, quanto di brutto accaduto durante, quanto di complicato accaduto dopo. Leggetela, sarà meglio parlarne ancora.

 

Yasmina Khadra

«L’attentato»

traduzione di Marco Bellini

Tel Aviv, Betlemme, Jenin, Israele e Palestina. Primi del Duemila. Amin Jaafari è un arabo figlio di beduini, naturalizzato israeliano e divenuto un bravissimo chirurgo all’ospedale di Ichilov, nella capitale, più volte premiato per le sue ricerche scientifiche, di ottima reputazione in tutta la regione. Ben conosce i terribili effetti degli attentati: morti devastati, decine di anonimi feriti da operare in un battibaleno, parenti da informare e gestire. Sposato con la bella affettuosa intelligente Sihem, moderni e ben integrati, vivono in uno dei quartieri più eleganti, dispongono di un cospicuo conto in banca, cercano casa al mare, viaggiano spesso in luoghi di sogno. Mentre è a mensa con i colleghi, sentono un’esplosione e spiegano loro che lì vicino un kamikaze si è fatto esplodere in un ristorante, trascorre pomeriggio e sera per salvare tante persone sul suo tavolo operatorio. Si cambia e torna a casa con la Ford bianca, gli agenti delle pattuglie lo fermano sospettosi a quattro successivi posti di blocco. La moglie a casa non c’è (ha lasciato solo il cellulare), era andata a trovare la nonna vicino Nazareth e forse avrà fatto tardi, prende una compressa e si addormenta spossato. Nel cuore della notte viene svegliato dal suo amico Naveed, alto funzionario di polizia: deve riandare in ospedale. Suo malgrado parte e … la vita gli crolla addosso. Sotto il lenzuolo, il cadavere del killer (17 vittime questa volta!) è proprio della moglie. Non può essere vero, è vero. Lo interrogano duramente per tre giorni e notti, poi comincia lui a cercare di capire, fra antichi parenti, rifugiati e altri potenziali attentatori.

Mohammed Moulessehoul (Kénadsa, Algeria, 1955) è un ex ufficiale nato nel Sahara francofono 60 anni fa, cadetto a 9 anni, testimone della guerra civile. Quando decise di divenire scrittore (quasi 20 anni fa) fu indotto dalla patria censura ad adottare lo pseudonimo Yasmina Khadra, usò il nome della moglie, significa “gelsomino verde”. Militare in congedo, si trasferì in Francia, pubblicando in francese ottimi romanzi (all’inizio gialli) talora molto avversati dalla critica parigina. Nel 2004 viveva a Aix-en-Provence con la famiglia e, sentendosi perseguitato dall’ostracismo intellettuale, aveva deciso di tornare in Algeria. Di getto scrisse questo romanzo che ebbe un grande successo: candidato a vari premi, diritti a Hollywood, tradotto in una quarantina di Paesi, oltre 4 milioni di lettori. Nel decennio successivo ha così continuato a fare la spola fra colonia ed ex-colonia, spesso anche in festival letterari europei (protagonista a Pordenone nel marzo 2016). Nel 2014 si è presentato alle presidenziali algerine e continua a pubblicare romanzi interessanti. In Italia fu Mondadori a curare la traduzione nel 2006 intitolandolo «L’attentatrice», una scelta che non convinse Moulessehoul. Lo ricorda ora nella postfazione. Il romanzo piacque subito a Mangialibri: «Amin si trova a dover affrontare non solo la tragica fine della sua compagna, la rovina della sua carriera e l’ostilità della società israeliana che lo considera una serpe in seno, ma anche una serie di strazianti interrogativi … Inquietante, appassionante, mozzafiato, il romanzo … mescola con abilità e buon gusto noir e cronaca, sentimenti e politica, e offre uno spaccato davvero vivo e sanguinante della crisi mediorientale».

 

Dina Ionesco, Daria Mokhnacheva, François Gemenne

«Atlas des Migrations Environnementales»

Presses de la Fondation nationale des sciences politiques

2016 (in francese)

L’aggettivo “ambientale” associato al migrare, in particolare ad alcune migrazioni forzate, viene oggi spesso usato dagli organismi internazionali e nelle ricerche accademiche. Le piú forti impronte delle attività umane contemporanee sul clima hanno suggerito una categorizzazione, in particolare per le migrazioni ambientali forzate, cioè le migrazioni da ecosistemi divenuti inospitali a causa di comportamenti umani non violenti. Eventi geofisici e climatici provocano vittime e profughi. Grazie soprattutto ai dati raccolti dall’International Displacement Monitoring Centre (Idmc), è ormai possibile conoscere quantità e geografia dei delocalizzati a causa di eventi estremi climatici e geofisici, o di piú repentini inquinamenti e siccità. Dal 2008 al 2014, a causa di disastri di varia entità sarebbero stati delocalizzati (allontanati dalla loro residenza) oltre 185 milioni di individui umani in almeno 173 differenti paesi, una media di circa 26,4 per anno, con perdite economiche ingentissime. Le cifre annuali sono abbastanza disomogenee: si conterebbero 36,5 milioni di profughi ambientali nel 2008, 16,7 nel 2009, 42,4 nel 2010, 15 nel 2011, 32,4 nel 2012, 22,3 nel 2013, 19,3 nel 2014. Sono numeri che grondano dolore e sangue. Possono essere elaborati e comparati sul piano storico ed evoluzionistico (il clima ha sempre indotto mobilità di specie), sul piano scientifico (i fattori “ambientali” hanno tempi e modi differenti), sul piano culturale interdisciplinare (vi è sempre una multicausalità nell’emigrare), sul piano giuridico e istituzionale: la gestione equa e solidale dei flussi migratori, come chiede l’Onu nei nuovi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2016-2030.

All’inizio del 2015 l’International Organization for Migration, IOM (organizzazione con 149 Stati membri), ha creato una divisione specifica su “Migrazioni, ambiente e cambiamento climatico”, rafforzando anche la collaborazione con università di vari Paesi e con strutture dell’Onu (come la Convenzione per la lotta alla siccità e alla desertificazione, Unccd). Un anno dopo, a inizio 2016, tre ricercatori (una dirigente proprio di quella divisione Iom e due dell’autorevole facoltà parigina di Scienze Politiche) hanno realizzato questo bell’atlante globale delle migrazioni, con particolare attenzione a quelle “ambientali”. Da circa trent’anni l’espressione si utilizza per distinguerle da quelle “economiche”; in realtà tutto (nel migrare) è sempre intrecciato. Le migrazioni sono sempre e comunque ambientali, causa ed effetto di cambiamenti negli ecosistemi di partenza, di arrivo, di transito. La migrazione assolutamente “forzata” è una fuga e, nel corso del tempo, ha comunque componenti economiche e sociali. Perciò dovrà presto essere presa in considerazione l’esigenza di prevenire o assistere tutte le migrazioni forzate, in particolare quelle provocate dai cambiamenti climatici di origine antropica, e di gestire i flussi con politiche di migrazioni “sostenibili”, consapevoli della libertà di migrare, sancita dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani. Il volume è caratterizzato da un eccellente apparato cartografico, più di 100 mappe e grafici, precise e funzionali rispetto a testi chiari, completi e sintetici.

 

Daria Galateria

«L’etichetta alla corte di Versailles. Dizionario dei privilegi nell’età del re Sole»

Sellerio

Versailles. 1682-1789. Tre Luigi di Borbone vissero da re nella reggia lì costruita: XIV, XV e XVI. Il primo (1638-1715) è stato chiamato “le Roi Soleil”, il terzo fu ghigliottinato a Parigi in Piazza della Rivoluzione il 21 gennaio 1793. La bravissima docente romana di Lingua e Letteratura francese Daria Galateria (1950) ha raccolto in «L’etichetta alla corte di Versailles. Dizionario dei privilegi nell’età del re Sole» un elenco di 160 brevi interessanti voci su quanto accadeva nel contesto monarchico. Prende spesso spunto dalle 50 mila pagine lasciate da un grande scrittore, il bistrattato duca memorialista Saint-Simon (1675-1755), appassionato ai diritti minati (dalla borghesia incalzante e dalle innovazioni reali) degli aristocratici, il più antico rango nobiliare. Segnalo il “corridore di vino della regina”.

 

Redazione
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