Cento e più motivi per ricordare Fred Buscaglione

di Diego Giachetti (*)

Nato cent’anni fa a Torino, Fred Buscaglione, nel corso della sua carriera artistica costruì un corto circuito fra la sua vita e i protagonisti delle sue canzoni. Morì tragicamente a Roma il 3 febbraio 1960 alle 6.30 del mattino quando, a bordo della sua automobile, una Thunderbild rosa confetto hollywoodiana, si schiantò contro un camion in una strada del quartiere dei Parioli. Ai funerali che si svolsero a Torino parteciparono alcune migliaia di persone che lo attesero, per l’ultimo saluto, nel borgo Vanchiglia dove, coi primi proventi, aveva comprato un alloggio. Erano giovani, studenti e studentesse coi libri sotto il braccio, operai che avevano chiesto qualche ora di permesso, commesse e impiegate. Mentre il corteo funebre scivolava verso il cimitero generale, dalle porte spalancate dei bar i fans gettonavano Che bambola, Eri piccola ed altri successi del “grande Fred”.

Fred funerali

Chicago a Torino

Era nato a Torino il 23 novembre 1921 e si era formato musicalmente presso il locale conservatorio affiancando agli studi severi, che non concluderà per ragioni economiche, un apprendistato come contrabbassista in orchestrine jazz nei locali notturni. Durante un ingaggio di lavoro a Lugano incontrò la donna della sua vita, Fatima Ben Embarek, una diciottenne marocchina che si cimentava in numeri di alta acrobazia e contorsionismo. Fu un amore burrascoso, alla Buscaglione, fuggirono assieme, ricercati dal padre di lei, convissero, diedero vita a un sodalizio artistico e coniugale che li terrà legati per parecchi anni.

La sua carriera di cantante, assieme al gruppo degli Asternovas, ebbe inizio quando il suo amico Leo Chiosso, di professione avvocato, lo spinse a interpretare il personaggio dei testi che lui scriveva. Quei testi erano una parodia, svolta con ironia e intelligenza, dei luoghi comuni del “verace uomo americano” portato alla ribalta da attori come Clark Gable e Humphrey Bogart. Buscaglione interpretava la parte del duro, del “dritto” dal cuore tenerissimo, tremendamente sensibile al fascino delle bionde maggiorate, assai facile alle cotte che spesso lo rovinavano: «sono un duro, ma facile alle cotte/ mi son preso un’imbarcata per la bionda platinè/ pensa un po’ che in un’annata mi ha ridotto sul pavè» (Che notte, Buscaglione-Chiosso, 1959).

Nella Torino del dopoguerra appariva in tutta la sua diversità artistica e musicale, costruì un’immagine di sé legandola al mito americano, di un uomo che vive sul confine tra trasgressione e norma. Si vestiva alla maniera dei killer di Al Capone, portava baffetti alla Clark Gable, ciuffo sull’occhio, ghigno sarcastico, da bullo, sigaretta tra le labbra, nuvole di fumo lo circondavano, bicchiere di whisky in mano. Era un attore-cantante che impersonava la parte del bullo di provincia, sovente perdente, che amava l’americanissimo whisky, il “facile”, come lo chiamava: «sono Fred dal whisky facile/ son criticabile, ma son fatto così» (Whisky facile, Buscaglione Chiosso, 1957). Su questi assiomi costruì il suo personaggio che giocava col linguaggio dei duri della Chicago degli anni Trenta, un mondo che aveva sognato da piccolo, popolato di gangsters, poliziotti e intensa vita notturna, costellata da locali ambigui, frequentati da malavitosi e pupe bionde, dove si praticava il gioco d’azzardo, scoppiavano facilmente risse e volavano botte, sullo sfondo di una musica nuova, di sventagliate di mitra, colpi di pistola, ululati delle sirene delle auto della polizia: «sono il dritto di Chicago Sugar Bean/ arrivato fresco fresco da Sing Sing/ Io ho avuto da bambino Al Capone da padrino/ e mia madre mi allattava a whisky e gin» (Il dritto di Chicago, Buscaglione-Chiosso, 1959). Notti di scazzottature, da «ossa rotte» a causa della «bionda/ che fa il pieno al Roxi bar/ l’amichetta tutta curve del capoccia Billy Car» (Che notte, Buscaglione-Chiosso, 1959). Evidente nelle parole e nella musica la rottura con la canzone melodica e sentimentale italiana, quella che dominava a Sanremo e proponeva figure sdolcinate di amori delusi, mamme piangenti, vecchi scarponi, casette in Canadà, papaveri e papere, donne avvinte come l’edera ai loro uomini.

Il sogno infranto con ironia

L’occupazione militare americana aveva lasciato il chewing gum, la coca-cola, il whisky, i blue jeans, le “Camel”, cantate da Renato Carosone in Tu vuo fa l’americano, e “l’American dream”, un sogno per il momento non riproducibile in Italia e tantomeno a Torino, piccola città dove le serate si trascorrevano al bar giocando a carte o a biliardo, parlando di donne e motori. Il tenore di vita era povero, gli stipendi e i salari minimi, e tali restarono nel corso degli anni Cinquanta. Inoltre, quel sogno si scontrava con costumi, leggi, convenzioni conservatrici, moraliste, bigotte. Le mode americane introdotte dal cinema e dai rotocalchi erano guardate con diffidenza e combattute dalla cultura cattolica e comunista. Entrambe “predicavano” l’indissolubilità del matrimonio, la castità dei costumi, la verginità prematrimoniale, il ruolo subalterno e familiare della donna, la contrarietà al divorzio e all’aborto.

Fred invece guardava da tutt’altra parte, aveva in testa la tipica diva americana del cinema, provocante, affascinante: «Bambola morbida, perfida e languida» (Criminalmente bella, Buscaglione-Chiosso 1959). L’esempio era Rita Hayworth che con un misto di fragilità e di sex-appeal in Sangue e arena e soprattutto in Gilda proponeva un modello femminile radicalmente diverso sia dalle figure più tradizionali delle vergini o madri santificate dalla chiesa cattolica e adottate precedentemente dal fascismo, sia dal tipo di donna proposto dal cinema neorealista. D’altronde, le nuove star che si affermarono in quegli anni, Gina Lollobrigida, Eleonora Rossi Drago, Silvana Mangano, Lucia Bosè, Silvana Pampanini e Sophia Loren, dovevano la loro popolarità alla nuova immagine cinematografica proposta dai film con costumi dalle ampie scollature, golfini aderenti, vestiti corti e/o lacerati. Le “maggiorate”, le bambole coi capelli biondi, i “mammiferi modello 103” di Buscaglione e di un’Italia maschilista uscivano da sole e facevano tardi la sera, non indossavano i vestiti, li riempivano facendo perdere la testa ai play boy di quartiere: «mi trovavo per la strada circa all’una e trentatré/ l’altra notte/ mentre uscivo dal mio solito caffè/ quando incrocio un bel mammifero modello 103! / Che bambola!» (Che bambola, Buscaglione Chiosso, 1955).

Le donne italiane in realtà uscivano poco e soprattutto quasi mai da sole e di notte. Erano gli anni in cui si usciva la sera e si andava nella sala da ballo in tram, in bicicletta o a piedi. Il corteggiamento era un’impresa lunga, complicata e spesso infruttuosa. I play boy nostrani vivevano una vita difficile e si prestavano alla caricatura dissacrante. Buscaglione, con le parole di Chiosso, prese la figura di un noto latin lover, Porfirio Villarosa, e l’adattò facendolo diventare “manovale alla Viscosa”, fabbrica di Venaria, alle porte della città, così che tanti piccoli dongiovanni di periferia potessero riconoscersi: «quante donne ha conquistato/ non si sa». Con le donne che cadevano ai suoi piedi si poteva sognare anche la redenzione da una vita di lavoro, umile, noiosa, difatti un bel giorno «Porfirio Villarosa/ abbandona su due piedi la Viscosa/ bello, bello più di Valentino/ prediletto dal destino/ s’è piazzato/ ed ora la grana lui ce l’ha» (Fred Buscaglione, Porfirio Villarosa, Buscaglione, Chiosso, 1955).

Poteva capitare che i play boy nostrani si mettessero in situazioni difficili. Per amore si rovinavano, erano costretti a fare “il grano” col gioco d’azzardo, non il poker però, ma il tresette: «T’ho viziata, / coccolata, / […] Tu, / fumavi mille sigarette. / Io, / facevo il grano col tresette». Erano coinvolti in matrimoni indissolubili che terminavano a colpi di pistola a causa della gelosia: «M’hai stregato. / T’ho creduta. / L’hai voluto. / T’ho sposata. / […] Poi un giorno/ m’hai piantato/ per un tipo spappolato. / T’ho cercata, / l’ho scovato, / l’ho guardato, / s’è squagliato. / Quattro schiaffi t’ho servito, / Tu mi hai detto: “Disgraziato!”. / La pistola m’hai puntato, / ed un colpo m’hai sparato» (Eri piccola, Chiosso, Buscaglione, 1958).

Fred nel Juke box

Alla popolarità di Fred Buscaglione contribuirono le macchine dei dischi, cioè i juke box, tema ripreso in un film del 1959, I ragazzi del juke box, in cui recitò una parte importante. L’anno prima aveva dedicato al juke box una canzone: «juke box è una magica invenzion/ juke box pochi soldi e una canzon/ juke box un gettone e la felicità» (Juke box, Malgoni, Beretta, 1958). Nell’immaginario giovanile le sue canzoni rappresentavano un mondo nel quale vivere era più facile, diversamente dalla realtà del dopoguerra, dove si lavorava molto, con poco guadagno e scarsissime opportunità di svago e divertimento. Erano i primi sintomi di una critica al lavoro di fabbrica, alla figura dell’operaio produttore e militante severo tutto d’un pezzo, al quale i giovani contrapponevano la conquista del tempo libero, vivere di notte, giocare a carte, a biliardo, frequentare caffè e sale da ballo, quei locali dove si esibiva il cantante torinese. Le sue canzoni, il jazz, il mito americano smitizzato, i juke box, i bar, tracciavano la mappa di un nuovo ambiente urbano, entro il quale prendeva forma una prima, impulsiva identità generazionale giovanile, che comunicava un disagio sociale, una mancata integrazione sociale, una fatica a rispettare le regole imposte loro dalle generazioni adulte, nella scuola e nel mondo del lavoro.

L’allarme dell’opinione pubblica perbenista aumentò quando arrivò il rock and roll. Buscaglione colse la novità del nuovo modo di vivere il tempo libero al ritmo del rock: «se vuoi venire con me/ domani al five o’ clock/ non prenderemo il the/ ma balleremo il rock […] rock, rock, rock/ bambina, rock» (Five o’ clock rock, Buscaglione, Chiosso, 1957). La campagna contro quella musica e quello stile di vita raggiunse l’apice sul finire degli anni Cinquanta, quando montò il fenomeno dei teddy boys e delle teddy girls. Erano aspetti disordinati di una questione giovanile prossima al boom degli anni Sessanta, alla rivolta esistenziale e generazionale di quel decennio, musicalmente interpretata dal rock and roll e dal beat. Ma Fred oramai non c’era più.  Ci manca da sessantun anni.

(*) ripreso da /volerelaluna.it/

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