ci mancava solo la secessione

tre opinioni di Francesco Gesualdi, bortocal e Roars (la vignetta è di Mauro Biani)

Il boccone velenoso dell’autonomia – Francesco Gesualdi

L’autonomia, quando la vogliono i ricchi, si scrive sovranismo e si pronuncia egoismo. Ed è quello che sta succedendo in Italia non più nella forma plateale della Lega della prim’ora quando vinceva le elezioni al grido di “Roma ladrona”, ma in forma molto più velata giocata in punta di norma. Ma alla fine il risultato sarò quello reclamato da tempo da parte delle regioni più ricche: trattenere per sé tutta la ricchezza prodotta senza doverla spartire con quelle più povere.

In passato la rivendicazione aveva assunto toni addirittura rocamboleschi fino a simulare, l’8 maggio 1997, una marcia indipendentista in Piazza San Marco che, per qualche ora, era riuscita a fare sventolare la bandiera dei Serenissimi  sul campanile del duomo di Venezia. Poi, lasciando i gesti epici alle teste calde, i raffinati della politica si sono concentrati sugli spazi offerti dalla legge ed alla fine hanno trovato il modo per ottenere in forma strisciante ciò non erano riusciti a conquistare con lo scontro frontale.

L’occasione è arrivata nel 2001 con la modifica di alcuni articoli della Costituzione che, fra le altre novità, introduce la possibilità, per le regioni che lo richiedano, di potere godere di maggior autonomia su una serie di  tematiche, alcune riservate allo Stato, altre di competenza condivisa. Fra esse la pubblica istruzione, la sanità, la previdenza integrativa, ma anche la ripartizione degli introiti fiscali. Subito si registrarono diverse iniziative regionali per ottenere maggiore autonomia: la Toscana nel 2003 per i beni culturali, poi nel 2006-08  il Veneto, Lombardia, Piemonte, su varie materie. Ma nessuna di esse  arrivò mai in porto, anche per l’atteggiamento ostile del IV Governo Berlusconi (2008-11). Nel periodo più recente, tuttavia, la questione ha ripreso slancio.

Nel 2017, tre regioni, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, hanno formalmente richiesto al governo di poter godere di maggiore autonomia e il 28 febbraio 2018, pochi giorni prima delle elezioni generali del 4 marzo, il governo Gentiloni ha concluso con ciascuna di esse una pre-intesa. I testi, molto simili fra loro, si concentrano su tre questioni chiave: la durata di maggiore autonomia, i temi oggetto di maggiore autonomia, le risorse di spettanza.La durata è di 10 anni durante i quali sono possibili revoche solo se entrambi le parti sono d’accordo. Le tematiche sono quelle delle politiche del lavoro, dell’istruzione, della salute, della tutela dell’ambiente, dei rapporti internazionali e con l’Unione Europea. Quanto alle risorse, la pre-intesa stabilisce che andranno determinate da un’apposita Commissione paritetica Stato-Regione, inizialmente in base ai fabbisogni standard, poi anche in base “al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale”. E a riprova che il diavolo si annida nei dettagli, quella che potrebbe sembrare una disquisizione giuridica, in realtà, è una questione politica di grande rilevanza sociale, forse il vero obiettivo a cui puntano le tre regioni richiedenti, fra le più ricche d’Italia.

Il fabbisogno standard indica il livello di servizio da garantire e poiché deve essere uguale per tutta Italia, è stabilito dal governo centrale. La misura è stata voluta dalla Costituzione per mettere tutti gli italiani sullo stesso piano di parità. Una volta stabilito il fabbisogno standard, uguale per tutta Italia, si stabilisce anche il suo costo procapite. Quindi si assegna ad ogni Regione un ammontare pari al costo procapite moltiplicato per il numero di cittadini residenti. In altre parole, a determinare quale Regione riceve di più e quale di meno è solo la diversa quantità di popolazione. Ma se si dice che le risorse sono determinate anche in base alla quantità di gettito generato nella Regione, allora si inserisce un elemento di apartheid fra i cittadini italiani perché quelli che risiedono nelle regioni più ricche disporranno di un ammontare procapite più alto di quelli che abitano nelle regioni più povere.

In concreto succederà che l’ammalato dell’Emilia Romagna godrà di migliori cure di quello della Basilicata, lo studente della Lombardia avrà migliore istruzione di quello della Sicilia, il camionista del Veneto viaggerà su migliori strade rispetto a quello della Calabria. Il che non farà altro che peggiorare il divario Nord-Sud già molto marcato. Secondo il rapporto Svimez 2018, “l’ammontare della spesa pubblica complessiva consolidata, intesa come spesa di Amministrazioni centrali e territoriali, si presenta significativamente più basso nel Mezzogiorno: 6.886 euro per abitante nel 2016 contro i 7.629 euro del Centro-Nord”.

E gli effetti si vedono su tutti i piani:  socio-assistenziale, formativo, sanitario. I dati sulla mobilità ospedaliera interregionale sono forse la fotografia più chiara delle carenze del sistema ospedaliero meridionale. Lo Svimez certifica che il saldo netto di ricoveri extra-regionali dalle regioni meridionali ha raggiunto le 114 mila unità nel 2016. Una mobilità che associata al ricorso alla sanità privata per aggirare le lunghe liste di attesa, costringe le famiglie meridionali a uno sforzo finanziario cospicuo. Non a caso nel Meridione la cosiddetta “povertà sanitaria”, l’impoverimento dovuto all’insorgere di patologie gravi, colpisce più che altrove. A livello nazionale, anno 2015, la percentuale di famiglie impoverite per sostenere le spese sanitarie non coperte dal Servizio Sanitario Nazionale, è stata pari all’1,4%,. Ma nelle regioni meridionali ha raggiunto il 3,8% in Campania, il 2,8% in Calabria, il 2,7% in Sicilia.

Nel contratto di governo stipulato fra Lega e Movimento 5 Stelle si legge che è “questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte.” Raccomandazione prontamente accolta da Erika Stefani, ministra agli affari regionali che, nell’autunno 2018, ha raggiunto intese definitive con le tre regioni padane. Ed ora che hanno ottenuto anche l’approvazione del governo, sono in procinto di essere sottoposte all’approvazione del Parlamento, che però  non ha possibilità di emendarle né di entrare nel merito dei suoi contenuti. Può solo approvarle o respingerle. E se verranno approvate, tutto il potere di definizione degli specifici contenuti normativi e finanziari verrà demandato a Commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte a qualsiasi controllo parlamentare. Così si afferma quella che il professor Viesti ha definito la secessione dei ricchi, che si sa dove comincia, ma non dove finisce.

da qui

 

prima gli italiani, che non ci saranno più – bortocal

l’Italia che abbiamo conosciuto sta per scomparire, ritorna l’età delle Signorie e dei Principati, che adesso si chiamano Regioni.

e se l’affermazione vi sembra esagerata, non vi resta che seguirmi in un breve esame della recente storia del regionalismo in Italia.

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la costruzione dello stato italiano fu concretamente avviata 160 anni fa: il 10 gennaio è caduto l’anniversario dimenticato del discorso della corona al Parlamento di Vittorio Emanuele II del 1859, che col richiamo finale al “grido di dolore” che si levava da tanti luoghi dell’Italia, aprì la porta alla guerra dell’Impero d’Austria contro il Regno di Sardegna dei Savoia, alleato alla Francia, e dunque a quel processo che nel giro di due anni, con la successiva spedizione dei Mille, portò alla nascita del Regno d’Italia.

a Cavour, che personalmente preparò il discorso del re, la frase fu dettata da Napoleone III, l’imperatore dei francesi, che voleva provocare l’Austria alla guerra, come in effetti fu.

il nuovo regno fu costruito sul rigidissimo modello centralistico francese voluto dai Savoia e si dissolse alla loro caduta col referendum del 1946 e la Repubblica: erano stati 75 anni di uno stato autoritario per larga parte della sua storia governato da un’elite di censo, e poi conclusi coerentemente dal ventennio fascista, che aveva subito svuotato il suffragio universale (maschile) appena introdotto: le Regioni d’Italia esistevano anche allora, ma erano prive di particolari poteri.

 

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la  Costituzione del 1948 era fondata invece sulla valorizzazione delle Regioni, che però rimasero ancora per oltre dieci anni una vuota parola: si provava a superare il centralismo dei Savoia, di Cavour, Mazzini e Garibaldi, per riscoprire l’idea diversa dell’unificazione nazionale che avevano avuto Gioberti e Cattaneo, che avevano immaginato entrambi un’Italia federale, dal punto di vista cattolico il primo, secondo un pensiero radicalmente democratico l’altro.

il federalismo dunque è stato due secoli fa la bandiera di una visione socialmente più avanzata, che voleva contrapporre all’autoritarismo dello stato centrale le risorse del radicamento nelle scelte del territorio.

nulla di drammatico in se stesso nel federalismo, che struttura stati come la Germania, con i suoi 16 Laender o gli Stati Uniti con i suoi 52 stati; ma certamente il federalismo funziona in realtà caratterizzate da una solida identità nazionale.

 

ma le Regioni in Italia furono realizzate concretamente come enti dotati di effettivi poteri soltanto a partire dal 1970, dopo anni di rinvii, avvenuti anche in contrasto esplicito con la IX Disposizione Transitoria della Costituzione che ne prevedeva l’avvio «entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione».

ma la preoccupazione nasceva dalla solida maggioranza delle sinistre nelle tre Regioni rosse di Emilia-Romagna, Toscana, Umbria.

disse il ministro dell’Interno Scelba nel 1953 nel Parlamento che decideva l’ennesimo rinvio:
La questione fu già posta dinanzi all’altro ramo del Parlamento, ove si domandò cosa avverrebbe il giorno in cui alcune regioni d’Italia avessero un’amministrazione dominata da partiti a carattere totalitario. […] La preoccupazione per il futuro dell’ordine democratico mi sembra talmente legittima che se avessi la convinzione che l’attuazione delle Regioni potrebbe compromettere seriamente lo sviluppo democratico del nostro Paese, non avrei nessuna difficoltà a manifestarla al Senato e a chiedere che l’attuazione dell’ordinamento regionale venisse rinviata a data più tranquilla e sicura.

le preoccupazioni si sciolsero e l’ordinamento regionale fu concretamente avviato soltanto quando, a partire dal 1962, con i governi di centro-sinistra si ruppe l’alleanza fra socialisti e comunisti; e quindi le Regioni cominciarono a funzionare concretamente quarant’anni fa, ma senza grandi competenze.

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fu con la riforma costituzionale del 2001, voluta dal tramontante governo D’Alema in vista di possibili alleanze con la Lega Nord di Bossi, che le competenze delle Regioni furono drasticamente ampliate e si posero le premesse della situazione attuale: http://www.parlamento.it/parlam/leggi/01003lc.htm

riforma farraginosa, contorta, confusa nelle competenze, ma confermata da un referendum chiesto quell’anno dall’opposizione di destra, al quale partecipò soltanto un terzo degli aventi diritto, che la confermarono con poco meno di due terzi dei voti: quindi riforma regionale approvata di fatto da circa il 20% degli elettori.

da allora le Regioni funzionano come discreti centri di potere, per ora soprattutto in campo sanitario, e ottimi luoghi di pascolo e rimborsi truffaldini per politici disonesti: specchio demoralizzante di un paese che non ha più altra identità che i soldi.

 

e altro che decentramento! la Lombardia è grande quasi come il Belgio e il Veneto ha più o meno gli abitanti di Slovenia e Croazia messe assieme…: le Regioni sono quasi altrettanto lontane dai loro abitanti dello stato centrale e hanno un quadro dirigente e una qualità dei funzionari indubbiamente peggiore.

e se dovessimo, non dico abolirle, ma ridimensionarle e trasformarle in enti di secondo livello? a me pare che la vera dimensione della democrazia locale sia quella della provincia (eppure parlo da una provincia, quella di Brescia, che da sola ha più abitanti di due regioni intere sommate: il Trentino e il Molise).

già, perché un’altra stranezza delle nostre Regioni è l’estrema disomogeneità strutturale, e la loro popolazione spazia tra la scala dei 100.000 abitanti e quella dei 10 milioni; insomma il rapporto tra la Regione più piccola e la più grande è di 1:100.

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ma il dibattito attuale sul regionalismo allargato non ha molto a che fare col passato, che qui è stato richiamato molto sommariamente soltanto per delineare uno sfondo di contrasto.

la tendenza storica evidente, a cui ha spalancato le porte del resto la cosiddetta sinistra italiana, è quella che nasce da una cosa semplice che si chiama perdita del senso civico e del senso della responsabilità comune: la frantumazione dello stato unitario, assieme al disprezzo per il Risorgimento, è stata del resto la parola d’ordine con cui è nata la Lega che si chiamava Nord, prima che il suo modello di egoismo locale diventasse un punto di riferimento comune per una parte della popolazione inb tutto il paese.

oggi l’allargamento in corso delle competenze regionali ha tutta la sostanza dell’arrogante ascesa al potere di camarille politiche locali, che tuttavia raccolgono un consenso sufficiente per governare, nell’indifferenza di cittadini rassegnati o nel loro lasciarsi cammellare alle urne regionale in nome di qualche opposta tifoseria para-politica, e soprattutto dell’appello all’egoismo di cortile, che qui – pare – funziona sempre.

 

quindi, aldilà delle scelte concrete che si prenderanno, il processo storico generale è chiaro: l’Italia non soltanto desidera isolarsi dall’Europa, dalla sua storia democratica e dai suoi valori, peraltro sempre più incerti, ma desidera poi anche disgregarsi all’interno fra potentati diversi, caratterizzati sempre di più da livelli differenziati di prestazioni sociali, di assistenza, di economia e perfino di vita e di lingua.

ed è così che l’esaltazione dell’identità trascolora nel fascino della diseguaglianza.

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il paradosso finale è che lo slogan stesso prima gli italiani, insulto a due secoli di tradizione democratica mondiale, sta perdendo di senso, e a breve dovremo chiederci piuttosto: prima i lombardi o i veneti? prima i siciliani o i sardi?

la questione potrebbe essere decisa nei campi di calcio e negli stadi, ma, dando tempo al tempo, si potrebbe anche tornare a giocarsela sui campi di battaglia.

da qui

 

Regionalismo differenziato: l’antefatto e i suoi protagonisti – Roars

Abbiamo pubblicato ieri i documenti segreti, di cui inesorabilmente sembra avvicinarsi la formale adozione, con i quali sarà perfezionato il disegno dell’autonomia regionale differenziata di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Ognuno ha potuto finalmente toccare con mano cosa implicherà l’attuazione di questa autonomia differenziata sul mondo della Scuola e su quello dell’Università e della Ricerca scientifica nelle tre regioni interessate e, indirettamente, e per effetto del correlativo taglio delle risorse destinate ad alimentare la fiscalità generale dello Stato, sui restanti sistemi regionali italiani. Ma non si tratta di un colpo di Stato. Siamo stati, infatti, spettatori inerti e fin qui in larga misura inconsapevoli di una dinamica riformista che è partita da lontano. Vediamo perché le bombe ad orologeria, se qualcuno le confeziona con mani tecnicamente sapienti e poi ne cura la manutenzione, prima o poi sono destinate a deflagrare. Anche a distanza di molti anni dal loro confezionamento. E senza perdere nemmeno un po’ del loro potenziale distruttivo.

In un illuminante articolo apparso su Il SussidiarioEmilia Romagna mette a nudo cause ed effetti del disegno dell’autonomia differenziata che sta per abbattersi sul mondo della Scuola e dell’Università e della Ricerca scientifica di questo nostro sempre più diseguale Paese.

Osserva Barcellona:

Di questa questione, che concerne, innanzitutto, l’autonomia differenziata di Lombardia e Veneto, le opposizioni non parlano affatto, e pour cause dato che proprio esse ne sono all’origine. Essa risale alla sciagurata riforma dell’art. 116 Cost. voluta nel 2001 da D’Alema, che prevedeva la possibilità che lo Stato contrattasse con singole Regioni il trasferimento di competenze ad esso riservate (soprattutto istruzione e sanità) ed all’indecente “pre-intesa” proditoriamente stipulata dal governo Gentiloni ad esecutivo ormai praticamente scaduto con la Lombardia ed il Veneto. Perché quel governo l’abbia stipulata non si sa: per una ingenua captatio benevolentiae dell’elettorato del Nord? per colpevole collusione con un establishment che nel settentrione ha in larga prevalenza le proprie radici ed i propri interessi e che, con sguardo miope, si aspetta di ricavarne benefici economici diretti o indiretti? o solo perché la pattuglia berlusconiana guidata da Verdini, di dritto o di storto, si è fatta valere? Sta di fatto che la Lega, comprensibilmente, di questa “pre-intesa” ha preteso l’inserimento nel “contratto di governo” e che il M5s vi ha acconsentito: si può solo sperare per palese e gravissima insipienza. La questione si è anche amplificata per l’analoga iniziativa dell’Emilia-Romagna e, ora, per le similari richieste della Liguria.

Barcellona prosegue, confezionando una non meno lucida analisi tesa a evidenziare i motivi per i quali la foglia di fico offerta dalla possibilità di fissare standard minimi nazionali non appare minimamente in grado di arginare la portata dirompente che questa autonomia differenziata avrà sui comparti nei quali essa sarà attuata, fra cui, per quanto più sta a cuore i lettori di ROARS, la Scuola, l’Università e la Ricerca scientifica.

Il tema cruciale del federalismo fiscale – messo alla porta dal popolo italiano in occasione del Referendum del 2006, quando si prevedeva la devoluzione a TUTTE le regioni della potestà legislativa esclusiva in alcune materie come organizzazione scolastica, polizia amministrativa regionale e locale, assistenza e organizzazione sanitaria – finirà per rientrare dalla finestra nell’agenda del nostro Paese con le intese. E per giunta rientrerà selettivamente, interessando solo le tre regioni che da sole producono più di un terzo del PIL nazionale.

“Se pago di più devo avere di più” è il mantra che getta alle ortiche o, come più compostamente scrive Barcellona, “mina alle fondamenta” il senso centripeto dello stare assieme che la nostra Carta Costituzionale sancisce e dovrebbe tutelare, eleggendo il dovere di solidarietà politica, ECONOMICA e sociale (art. 2) a piattaforma dalla quale risollevare, ricostruire e far prosperare un Paese annientato dalla guerra e dal fascismo. O immaginando che ogni individuo associato alla comunità nazionale non veda trasformato il contenuto effettivo dei suoi diritti fondamentali (alla salute e all’istruzione, in primis) in ragione del luogo di quella comunità nel quale abbia avuto la ventura di nascere o (sopra?)vivere (uguaglianza sostanziale, art. 3). O proclamando l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, nel cui ambito e nel cui imprescindibile rispetto riconoscere e dare sorvegliato spazio all’autonomia (art. 5). O, infine, evitando di imprimere un’esiziale connotazione territoriale all’uguaglianza nella contribuzione fiscale, che in Costituzione conosce il solo metro della capacità contributiva (art. 53), e alla quale con questa autonomia regionale differenziata si finirà per attribuire una inevitabile variabilità territoriale.

Denunciata la bomba destinata a far brandelli della nostra sempre più traballante coesione nazionale, l’analisi di Barcellona prosegue in una riflessione che, dando fondo a un’ammirevole e insospettata riserva di speranza residua, guarda all’attuale quadro politico e auspica ravvedimenti dell’ultim’ora (che per la verità sembrano di difficile realizzazione proprio guardando chi si agita in quel quadro politico), non senza preoccuparsi di mettere in guardia lo stesso NORD dai perversi effetti lungolatenti che, una volta deflagrata, la bomba potrà avere sugli stessi destini di prosperità sognati dalla parte già ricca del paese e senza trascurare di mettere in luce, con onestà politica e intellettuale, le indubbie responsabilità che il SUD, le sue genti e la sua classe dirigente hanno avuto nel dipanarsi di questo processo. A questa analisi rinviamo ancora il lettore che se ne voglia meritoriamente impossessare.

Qui mette conto solo ricordare chi ha confezionato la bomba e chi, più recentemente, ne ha azionato il dispositivo di innesco.

Perché Salvini aveva ancora negli occhi il luccicante ricordo della sua promettente comparsata da auto-dichiaratosi nullafacente a il Pranzo è servito, quando, il 30 giugno 1997, la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, durante il primo governo Prodi, presentò alle Camere il testo, approvato dalla Commissione stessa, di un progetto di legge costituzionale dal titolo: “Revisione della parte seconda della Costituzione”.

Caduto il governo Prodi e varie vicissitudini dopo, il 18 marzo 1999, il Presidente del Consiglio dei Ministri D’Alema, che prima di essere tale era stato Presidente della Commissione bicamerale, presentò al Parlamento, insieme al Ministro per le riforme istituzionali pro-tempore Giuliano Amato, una nuova proposta di legge costituzionale recante: “Ordinamento federale della Repubblica”. La Prima Commissione Affari Costituzionali della Camera, in sede referente, ne iniziò l’esame il 14 aprile 1999. Presto si convenne di delegare la elaborazione del testo a un Comitato ristretto, che nella seduta del 13 ottobre 1999 presentò alla Camera un nuovo testo unificato dei testi e degli emendamenti esaminati. L’Assemblea dei Deputati della XIII legislatura a maggioranza di centro sinistra esaminò la p.d.l. costituzionale, nelle linee generali, dal 12 al 26 novembre 1999. Dopo una lunga interruzione, durante la quale al governo D’Alema subentrò il governo Amato (26 aprile 2000-11 giugno 2001), l’esame degli articoli ebbe inizio il 19 settembre 2000 e si concluse, con l’approvazione, il 26 settembre 2000. Il provvedimento passò al Senato. Il 3 ottobre 2000 la Commissione ne iniziò l’esame e lo concluse il 9 novembre 2000. Il 17 novembre 2000 l’assemblea del Senato approvò, senza modifiche, il testo di riforma, rimasto quello che la Camera dei deputati aveva licenziato. In seconda deliberazione, come previsto dalla Costituzione, l’assemblea della Camera, dopo le sedute del 23 e del 28 febbraio 2001, lo approvò a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Lo stesso fece a spron battuto il Senato l’8 marzo 2001, a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Sempre secondo l’art. 138 Cost. il testo della legge costituzionale fu pubblicato sulla G.U. n. 59 del 12 marzo 2001, in attesa del referendum confermativo che venne prontamente richiesto da 102 Senatori dell’opposizione e 77 Senatori della maggioranza di centro-sinistra.

Il 7 ottobre 2001 gli italiani furono chiamati a decidere se confermare o meno la modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione della Repubblica Italiana. Essendo un referendum confermativo (e non abrogativo), la consultazione non richiedeva la partecipazione al voto della maggioranza degli iscritti alle liste elettorali per essere valida. Votarono in pochissimi: poco più di un terzo degli aventi diritto nel corpo elettorale. Quasi i due terzi dei voti validi dissero Sì; poco più di un terzo dissero No.

Ne risultò la modifica con la quale oggi combattono gli studenti di giurisprudenza al primo anno (e che nelle sue altre propaggini ha turbato i sonni dei giudici della Consulta, dacché è stata sancita).

Come è stato ricordato nel post di ieri, le “Pre-intese Gentiloni” (cui purtroppo non può riconoscersi il valore solo informale avuto dal “Patto Gentiloni“), che hanno dato concretezza alla inedita possibilità dischiusa dalla riforma costituzionale firmata dal centro-sinistra e dai suoi tecnici, e confermata (occorre ricordarlo) dagli elettori italiani, sono state amabilmente concluse dal Governo Gentiloni, al tempo del suo mesto dissolversi nella primavera dell’anno scorso, anche se, dando prova di grande acume politico per i dettagli, il Premier lasciò che nelle foto ufficiali della storica firma venisse ritratto solo un sottosegretario bellunese del suo governo.

Esse hanno dato principio di attuazione e hanno infuso un inequivoco atto di volontà politica alla possibilità prefigurata dai padri costituenti minori del 1997-2001, ovvero che:

Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».

Che fare? Gli oscuri presagi si moltiplicano. Non meno cupamente, leggendo la riflessione finale di Barcellona sembrano potersi vaticinare due opzioni.

Continuare – almeno chi può – a mettere al sicuro i propri figli, ponendoli in condizione di salvarsi da soli dopo un periodo di formazione in un altrove che non sia il SUD.

Cominciare a fare incetta di gilè (scriviamolo in italiano) di un qualche colore prima di tentare disperate sortite di piazza spontanee e senza nemmeno il Masaniello di turno, sapendo che in Italia troppi Masanielli sono passati invano e che nemmeno del colore di quell’indumento sembra oggi potersi avere contezza.

da qui

Redazione
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