Come usare il tifo organizzato
Controllo masse e business.
di Vincenzo Scalia (*)
La tragica vicenda dello scorso 19 ottobre, quando l’autista della Pistoia basket, Raffaele Marianella, ha trovato la morte per mano dei tifosi del Rieti, ha nuovamente scatenato un vespaio di polemiche, sfociate nella criminalizzazione degli incontri sportivi in quanto eventi di massa. Come al solito, si innesca la retorica improntata al messaggio di civiltà e rispetto delle regole che lo sport incarnerebbe.
Ne conseguirebbe che i tifosi organizzati rappresenterebbero l’anomalia degli eventi sportivi, in quanto incivili e irrispettosi delle regole, quindi da escludere. Si tratta di una retorica fondata su stereotipi, destituita di ogni fondamento. Si può condannare fermamente la tragica e assurda morte di Raffaele Marianella, ma evitare di svolgere un’equazione lineare e schematica tra tifo organizzato, eventi di massa e violenza. Basti per tutti l’esempio dato da diverse tifoserie in questi due anni, con le coreografie e i cori ad esprimere e allo stesso tempo promuovere la solidarietà con il popolo palestinese.
Dietro la retorica dell’inciviltà, si nascondono due progetti, facilmente individuabili: il primo, è quello del controllo delle masse. Il secondo, è quello del tentativo di trasformare gli eventi sportivi in business. Le partite di calcio, quelle di basket e di pallavolo, sono rimasti gli ultimi eventi a cui la gente accorre spontaneamente, in cui si aggrega e trova, oltre a produrre, significati collettivi. In una società che non riesce a sopportare la spontaneità dei bambini, ingaggiando animatori e truccatrici fin dalle feste dell’asilo, che si diverte nei villaggi vacanze al ritmo degli animatori, e che emette ordinanze contro il gioco a pallone in strada, aggregarsi diventa un comportamento eretico, da scoraggiare.
Non a caso, il biglietto da visita dell’attuale coalizione governativa, è stato il varo, nell’ottobre 2022, del decreto anti-rave, che considera illegale un assembramento di più di venti persone. Ovviamente, la portata di questo provvedimento va ben al di là dei rave, e intende colpire le aggregazioni spontanee.
Sul fronte della trasformazione degli eventi in business, da anni si grida allo scandalo per il fatto che l’Italia sia rimasta indietro rispetto ad altri paesi e faccia fatica a fare suo il modello americano. Si tratterebbe, in altre parole, di fare diventare stadi e palasport in piccole Disneyland, che ospitano al loro interno strutture ricettive e ricreative: ristoranti, musei, cinema, centri commerciali, a volte, addirittura, alberghi.
Dove gli spettatori vengono ammessi sulla base della loro addomesticabilità e della riproduzione dell’evento sportivo nei circuiti televisivi. Una tendenza che sposa sia gli interessi dei clubs, ormai diventate delle vere e proprie imprese, e dei cosiddetti immobiliaristi. La ristrutturazione di un impianto sportivo, o l’edificazione di uno nuovo, marciano a braccetto con la riqualificazione di zone residenziali, magari corredate da nuovi centri direzionali e punti vendita della grande distribuzione.
Il tifo, organizzato o spontaneo che sia, si pone di traverso rispetto a questi progetti di bonifica sociale e urbanistica. La sua criminalizzazione, quindi, prepara il terreno a progetti di trasformazione ad ampio raggio, dove l’evento sportivo diventa collaterale e il copione viene predisposto a misura di una massa di consumatori disciplinata e prevedibile.
D’altro canto, però, non si può fare a meno di fare i conti col deterioramento delle aggregazioni di massa, sportive e politiche, a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. In particolare, partendo dalla tragedia di Rieti, dobbiamo chiederci perché, nelle tifoserie, le componenti della destra radicale, se non sono maggioritarie, risultano sempre quelle che si manifestano più apertamente e che agiscono in maniera egemonica. In particolare, se il loro agire, come è capitato per esempio in occasione dell’assalto alla della CGIL del 9 ottobre 2021, che ha denotato il protagonismo di figure legate alla destra.
Per comprendere la ragione di questa involuzione, bisogna risalire alla fine degli anni Settanta, e mettere in relazione tre specifici fattori: la ristrutturazione capitalistica, la frammentazione sociale, la ricerca del cosiddetto elettorato d’opinione, che hanno spianato il terreno alla destra rispetto all’aggregazione delle masse.
Fino agli anni settanta, le curve, erano un’articolazione della composizione di classe e delle articolazioni politiche della sinistra. I milanisti e i romanisti erano di sinistra, mentre gli interisti e i laziali assolutamente di destra. Gli ultras riecheggiavano nomi connotati politicamente: Fedayn, Tupamaros, Collettivo Autonomo e via dicendo.
Era una società ancora disegnata a misura delle grandi fabbriche e connotate ancora di relazioni sociali dense a livello di vicinato e di rione. Queste trame individuali, che condividevano esperienze collettive, si riproducevano anche a livello di tifo. La crisi delle grandi fabbriche, la ristrutturazione capitalista definita post-fordista, hanno finito per svuotare di significati collettivi condivisi, connotati politicamente a sinistra, le curve.
Dalla ristrutturazione post-fordista si è prodotta una società frammentata, individualizzata, orientata alla gestione del rischio a breve termine. Incapace di produrre, identità, appartenenze, discorsi condivisi e duraturi. Gli eventi sportivi hanno cessato, in molti casi, di essere un’articolazione della collettività, per diventare in misura sempre più crescente, la valvola di sfogo delle tensioni e delle frustrazioni individuali, articolati collettivamente nel tifo organizzato o aggregato ad hoc per l’evento sportivo. Solo in pochi casi, come Perugia, Genoa e Livorno, la tradizione di sinistra è stata mantenuta.
Questi mutamenti profondi del panorama sociale, sono stati recepiti anche a livello politico. La cosiddetta sinistra, o chi vi fa riferimento, hanno cominciato a sminuire le aggregazioni di massa, liquidando il tifo sportivo come l’espressione di masse acritiche, amorfe, incivili, incapaci di praticare i presunti veri valori dello sport, ovvero quelli decoubertiniani del sollazzo fine a se stesso e della partecipazione da preferire alla vittoria.
Tralasciando il fatto che il barone De Coubertin, in quanto membro di una classe agiata, potesse agevolmente sollazzarsi con la partecipazione. Nonché che si trattasse di un sessista e razzista, che fino alla morte si batté per escludere le donne, gli africani, gli asiatici dalle Olimpiadi. Gli ultras, come punta avanzata del tifo organizzato, sono stati liquidati e marginalizzati in nome di comportamenti e valori al di fuori del consesso civile.
Un’impostazione simile è stata praticata anche fuori dagli stadi, in particolare nel dibattito pubblico. Scegliendo la competizione liberale, negando il valore del conflitto e della partecipazione collettiva, si è preferito parametrare il proprio elettorato sul bon homme di impronta illuminista: colto, razionale, che valuta sulla base dei propri valori sinceramente democratici e tolleranti. Una valutazione mio, che non ha tenuto conto del deteriorarsi delle condizioni di vita e del malessere sociale diffuso che ha accompagnato l’incalzare del paradigma neo-liberista.
Ne è scaturita una distanza sociale, un vuoto politico, che è stato riempito facilmente dalle organizzazioni di destra. Una società fatta di entità atomizzate, precarie, prive di identità e progettualità, è stata conquistata facilmente dalle destre, anche quelle estreme. La promessa di legge e ordine, il diritto ad essere dei piccoli Callaghan, narrazioni complottiste tipo il famigerato piano Kalergi della sostituzione etnica, periodicamente rilanciato anche da componenti della compagine governativa, sono state ammantate da surrettizi richiami alla Patria e alla purezza etnica, finendo per diffondersi sul corpo sociale. Nel contesto degli ultrà, l’aggregazione di massa ha funto da moltiplicatore di ideologie xenofobe, omofobe, che si richiamano al fascismo e al nazismo.
Peggio ancora, l’organizzazione degli ultra, la loro struttura paramilitare, il loro presidio del territorio, ha messo in grado alcune frange di instaurare un’interlocuzione con la criminalità organizzata rispetto alle vendita di gadget, maglie, alla gestione dei biglietti, agli appalti all’interno dello stadio. Le inchieste relative alle tifoserie di Juventus, Inter, Lazio, Milan di questi anni, hanno evidenziato questa tendenza. Non siamo di fronte ad un’alleanza organica, o a un’etero-direzione degli ultras da parte delle organizzazioni criminali. Il rapporto tra tifo organizzato e mafie si configura come un fenomeno a geometria variabile, calibrato sulle peculiarità dei contesti locali e dei margini di profitto possibili, ma sta diventando una pratica sempre più diffusa. A pensarci bene, ci troviamo di fronte ad una profezia che si è auto-adempiuta.
La trasformazione dello sport in business, l’invadenza dei media, l’incapacità della sinistra a leggere le trasformazioni sociali, hanno finito per creare una sacca di marginalità dentro la quale si è incuneata la destra radicale. Non servono nuovi DASPO e nuove tessere del tifoso. Semmai è necessario tornare in piazza e in curva. Come si è fatto negli ultimi tempi per la Palestina. Come speriamo si continui a fare.
