Dal 3012… Raffaele Mantegazza

Sotto la luna che si specchiava nelle limpide acque del torrente cantavano i grilli. Il Cane si accucciò sotto a un cespuglio  e il cucciolo immediatamente venne a infilarsi tra le sue zampe, appoggiando il muso a quello dell’animale adulto, e cercando  un poco di calore contro il suo corpo. Come ogni  notte, il Cane cercò nella memoria una storia da raccontare, un  ricordo che potesse farsi fiaba o leggenda per cullare il sonno del  piccolo animale. Come ogni notte gli mordicchiò teneramente l’orecchio destro, segno che la storia stava per iniziare. Poi iniziò a narrare:

            “Una  volta,  mille  e  più anni  fa,  finì la storia dell’Uomo…”.

            “L’Uomo?” interloquì il cucciolo; lo sapeva bene di chi si parlasse, ma come tutti i cuccioli amava farsi ripetere le fiabe in tutti i particolari per mille e mille volte.

            “Ma sì, quello di cui ti parlo ogni sera. Quello di cui  ti ho narrato fino a ieri la struggente bellezza, la indiscussa  fedeltà, la brillante intelligenza… Quello di cui ti ho raccontato le leggende così belle da sembrare vere e le gesta autentiche così poetiche da sembrare favole. Quello capace di infinito amore per i propri cuccioli, quello le cui femmine sapevano di buono, spandevano la loro grazia e il loro profumo per i campi che attraversavano. Quello capace di accudirci, di nutrirci e di giocare con noi, al punto che eravamo considerati i suoi migliori amici. Una volta, quando ancora c’era l’uomo ma la sua storia era oramai alla fine, in tante parti del Mondo mille  e mille umani si misero in cammino…”

            “E dove andavano?”.

            “Non si sa bene dove andassero. Si sa da che cosa  scappavano”.

            “Da qualche predatore?”.

            “In  un  certo senso. Ma da un predatore della  loro  stessa specie. I primi a scappare furono gli uomini, le donne e i bambini di un Paese chiamato Africa. Erano forse mille, forse un milione, sotto la pioggia che lambiva come una carezza tardiva la loro pelle nera”.

            “Nera? Come la notte?”.

            “Nera. Non proprio come la notte, ma nera. Ed era proprio la pelle nera a costringerli a camminare fra immondizie e cadaveri, fra carcasse di animali e resti di povere cose da mangiare, nell’indifferenza dei loro fratelli nel resto del mondo. Era proprio la pelle nera a far sì che fossero i primi a capire che la fine era vicina. Fu una  lunga, lunghissima marcia,  fuggendo dalla morte verso un’altra morte, dalla guerra alla fame, dalla miseria alla prigione: una lunga marcia che si svolse nel silenzio e nell’indifferenza, perchè  oramai il mondo era abituato allo scalpiccio insistente di quei poveri piedi nudi”.

            “Ma perché abituato?”.

“Perché uomini e donne di quel grande continente erano i più poveri di tutti quanti; e dunque erano sempre stati i primi a essere attaccati dai loro simili con la fame, la guerra, la rapina”.

“Ma se erano i più poveri dovevano essere i primi a essere aiutati, non a essere attaccati!”.

Logica canina, pensò il Cane. Del resto anche mille anni prima erano stati gli animali i primi a capire la follia che stava per scatenarsi; ovviamente inascoltati, come sempre.

“Ma solo gli uomini neri scappavano?”.

            “Non chiamarli uomini neri. Chiamali uomini. L’Uomo Nero era una creatura inventata che gli umani usavano per minacciare i loro cuccioli quando non obbedivano”.

            “Come i predatori del bosco di cui tu ogni tanto mi parli?”.

            “No, quelli ci sono davvero” disse il Cane sorridendo (nota 1). “Comunque non solo gli uomini che tu chiami neri scappavano. Anche altri uomini e altre donne fuggivano in quell’epoca, proprio nell’anno che chiuse l’avventura terrestre dell’Uomo. Erano esseri dalla pelle bianca, rossa, gialla, scacciati dalle loro case, che fuggivano in tutti i modi: a piedi, sui carri, spogliati di tutto… dappertutto, in tutto il mondo, si sentiva l’urlo dei feriti, il lamento dei morenti e soprattutto il boato delle bombe”.

            “Che cosa sono le bombe?”.

            “Le bombe sono come mille fulmini, come centomila tempeste, come un milione di uragani. Erano state inventate dall’Uomo per distruggere i propri simili. E qualcuno allora pensava che per fermare la morte occorresse utilizzare la morte; si chiamava guerra. Gli umani ne avevano già fatte tante, due in particolare; ma fu la terza, quella definitiva, che cancellò per sempre la specie umana dalla Terra”.

            “Usare la morte per  sconfiggere la morte? Non capisco”.

            “Nemmeno io. Ma questo è il lato oscuro della leggenda; probabilmente si tratta di una parte della storia inventata da qualche Cane per schernire l’Uomo. Non possiamo pensare a una creatura così intelligente da costruire luoghi per curare i propri malati, grandi case per accudire i propri cuccioli, di occuparsi addirittura dei nostri antenati cani, e al contempo capace di distruggere tutto questo con il pretesto di non permettere altre distruzioni. Usare la morte per fermare la morte. No, nemmeno l’Uomo era capace di tanto; anche se la storia della sua autodistruzione potrebbe farlo pensare”

“Auto…distruzione?”.

“Sì, l’Uomo si distrusse da solo. L’Ultima Guerra uccise tutti, anche coloro che l’avevano voluta e scatenata. Solo alcuni di noi cani, con altri animali – ma sotto la nostra guida (nota 2)–  erano riusciti a mettersi in salvo in una zona che miracolosamente era rimasta libera dai fumi delle loro bombe. E da allora, da quell’anno 2012 – così lo chiamavano loro – dell’Uomo non ci fu più traccia. (nota 3)

“Ma allora l’Uomo era cattivo?” domandò una voce un po’  assonnata.

            Chissà, pensò il Cane. Come era possibile, in  nome di quale logica umana o canina, che lo stesso Uomo che lottava contro  le malattie, che sacrificava se stesso per aiutare un povero in  una baracca, che spendeva il suo tempo negli aiuti alle  popolazioni civili colpite dalle guerre e dalle carestie, quello stesso Uomo fosse capace di condannare se stesso e i suoi simili alla morte e all’estinzione, fosse capace di accettare la folle idea che la violenza si ferma massacrando innocenti, fosse in grado di relegare quei nomi esotici – Auschwitz, Hiroshima, Zaire, Rwanda, Burundi, Serbia, Kossovo, Cecenia, Tibet-  a semplici, lontani ricettacoli del male? A questo, pensò, non si poteva rispondere  adesso. Si sarebbe potuto rispondere mille anni  fa,  quando l’Uomo  c’era ancora. E solo lui avrebbe, forse,  potuto  trovare una risposta, proprio nella fatica di quei poveri piedi neri trascinati dentro l’inferno della guerra, di quei poveri occhi che guardavano i resti di una scuola fatta a brandelli da una bomba detta intelligente, di un villaggio distrutto, di una foresta invasa dalle radiazioni.

Sfiorò con la zampa l’ammasso di fogli ingialliti che faceva da guanciale al cucciolo. Quella forse era la risposta: poesie, racconti, disegni di tanti cuccioli di uomo e di donna, appartenenti proprio agli ultimi anni di vita della specie che aveva creduto di dominare il mondo. Poesie amorevolmente raccolte da maestri e da maestre, disegni realizzati sotto lo sguardo di educatori e genitori, racconti inventati in una mattina di –come si chiamava quel posto? Ah sì: scuola! Poesie, racconti, disegni che parlavano di guerra, di boschi, di luce, di acqua, di mattine, di amicizia e, sì, anche di cani. Erano crollate le case, le scuole, gli ospedali, si erano sgretolate le automobili e gli stadi, i trattati di Fisica, di Pedagogia e di Letteratura erano stati divorati dalla tarme, ma quei fogli resistevano, tenaci e sgualciti, per tanti anni conservati solo per fare da cuscino alle stanche membra di un cucciolo di cane. Chissà, forse i bambini e le bambine che avevano scritto quelle poesie e che avevano disegnato quelle forme infantili sarebbero stati contenti nell’immaginare che potessero servire a rendere meno dura la terra per il sonno di un cagnolino e, chissà, forse anche a procurargli qualche bel sogno. Chissà, forse proprio quella era la risposta, proprio quella resistenza dimostrava che l’Uomo non era né buono né cattivo, ma, come il Cane, solo una creatura: una creatura  di creature.

Abbassò il muso, nella luce incerta della luna. Il  cucciolo si era addormentato; lo leccò con tenerezza e poi si accucciò definitivamente. Sotto la luna che si velava dietro una nube quasi trasparente, ormai tacevano i grilli.

(nota 1) E’ provato che i cani possono sorridere. Chi ha provato ad accarezzarne la testa, lo sa.

(nota 2) Per onestà occorre citare almeno due opere che mettono in discussione questa versione dei fatti. Anzitutto il libro di Zampe Pezzate “Al principio fu il felino. Come i cani ci hanno rubato il passato” (Ottawa, 2675) e poi il saggio “E dove andavate senza guida? Il ruolo dei migratori nella crisi del 2012” del Comitato Autonomo Rondini (Roma, 3001)

(nota 3) Alcuni studiosi mettono addirittura in dubbio che l’Uomo sia davvero esistito; cfr. Zanna Lucente, “L’uomo: la grande menzogna. Tesi a favore dell’origine  canina della vita sulla Terra”, Università del Serraglio, Boston, 2768.

UNA PICCOLA NOTA

Sono grato a Raffaele Mantegazza per avermi inviato questa bellissima storia che ho deciso di mettere subito, senza cioè aspettare il sabato deputato ai racconti. Siamo cresciuti entrambi leggendo “City” (ma in italiano lo trovate anche come “Anni senza fine“) di Clifford Simak … se questo è il mondo reale; o forse io e Raffaele eravamo fra quei cuccioli che intorno ai fuochi ascoltavano storie misteriose su un mondo dove c’erano gli Uomini che scrivevano storie dove immaginavano di noi, piccoli cani, intorno ai fuochi che ascoltavano…. storie come questa. (db)

Redazione
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