Due racconti di Guergana Radeva

Eccola di nuovo. Ho già ospitato su questo blog Guergana Radeva con alcune poesie. Ora propongo due racconti che mi ha regalato. Il primo, se non ricordo male,  uscì sulla rivista «Carta» nella campagna «Clandestino». L’altro è un’allegoria di fulminante brevità; che io sappia, è inedito. Non so molto altro al riguardo perchè Guergana (che conosco solo di penna, anzi di mouse) è molto parca: sia di parole che nel senso di somigliare – come temi e per il mistero che emana – a una delle tre divinità  greco-romane (le Parche appunto) che sovraintendevano il destino degli esseri umani. L’unico suo libro sinora pubblicato è una favola nera, un genere molto particolare: si intitola «Amalgrab»,  lo ha pubblicato Mangrovie nel 2007.  Un romanzo-malestrom a mio parere squassante e bellissimo. Trovate la recensione su questo blog. Ma intanto leggetevi questi due racconti…

Cortocircuiti in una notte di mezza estate

Senti il passaparola serpeggiare come un rettile invisibile sul Lungarno degli Archibusieri. Sei diventata sensibile a queste cose, a molte altre invece sei diventata insensibile. Ognuno sceglie il proprio kit di sopravvivenza, pensi, mentre i lembi delle stoffe colorate si sollevano annodandosi rapidamente attorno alla merce, mani e gambe s’intrecciano e in un lampo il millepiedi umano si disperde nelle viuzze della vecchia Firenze. Saresti dovuto dileguarti anche tu, fonderti nell’ombra degli androni, ma non lo fai, non perché sei diversa, semplicemente perché usi un’altra tecnica mimetica. Sei appariscente. Al punto di essere invisibile. Improvvisamente orfani delle attenzioni dei vucumpra, i turisti sotto le arcate del corridoio vasariano scoprono un altro divertimento: i tarponi giganteschi che spadroneggiano sulle rive verdognole dell’Arno, fra rifiuti e marciume. Appena imboccato il Ponte Vecchio scorgi i vigili e rallenti il passo cercando di contrastare a livello di puro muscolo l’atavico istinto di fuggire. Cortocircuito biochimico, il cervello va in tilt incantato sul replay del solito fotogramma: il passaporto ostaggio nella cassaforte del night, il visto irrimediabilmente scaduto, l’ipotetico rinnovo d’un ipotetico permesso di soggiorno. L’avrai il tuo passaporto, una volta saldato il debito! Il massiccio anello d’oro batte ammonitore sulla pagina dei conti. La rata del debito… l’affitto… potrei trovarmi una camera a molto menono, che non puoi, bella, tu abiti dove dico io! … 10% per l’agenzia, perché sono costretto anche a farvi da agente io, non posso mica rimetterci se qui non rendete! Già, le avevi viste andarsene, alcune perché non rendevano, altre, come Darja, perché sgarravano alle regole. La notte in cui bruciò il night a Montecatini, spararono alla macchina del Basetta e Darja la scampò per un pelo. C’erano tanti divieti comici fra i comandamenti del locale, tipo non presentarsi al lavoro in pantaloni o maxigonne e non appiccicare le gomme masticate sotto i tavolini, ma c’era poco da ridere se trasgredivi il mai farsi i pupilli del Proprietario! Una specie di lungo parentado che andava e veniva a singhiozzo dal sud e affollava il locale all’alba dopo aver sbrogliato i soliti ingarbugliati affari. Le dita contano le banconote, l’anello batte impaziente sull’esiguo mucchietto. Eccoti servita perché farsi il Proprietario è al di sopra dei comandamenti plebei e il Proprietario in persona sta aspettando una tua risposta riguardo un’eventuale cena tutto pesce e il sott’inteso tutto compreso. A lui la sua risposta, a te il tuo denaro e qualche stecca di sigarette dai cartoni stipati nell’angolo dell’ufficio. Portale giù a BB e dille di farle girare, su! I finanzieri smerciano le sigarette di contrabbando a metà prezzo, il locale ci fa il suo, il solito cortocircuito fra luce e ombra, quella zona grigia e fluida, priva di resistenza, sicura. Basta non sconfinarci troppo. Ma è proprio quello che sei tentata di fare quando ti chini per infilare le stecche sotto il bancone del bar e vedi le pistole. Quelle d’ordinanza, lasciate in custodia a BB, che scatenano in te una voglia improvvisa, genuina e irresistibile, di allungare la mano e mettere le dita su quei grilletti. E far scoppiare tutto come in un cazzo di western! Bam! Gli specchi del bar esplodono mandando in mille pezzi i riflessi agitati dei questurini che spadroneggiano sui divanetti verdognoli, fra bottiglie e seni traboccanti. Bam! Le immagini contorte del vecchietto arzillo e della sua mulatta scrosciano in sonante pioggia di vetro. Bam! Schegge taglienti di ragazze riflesse volano conficcandosi nelle carni tremule del Proprietario che sta scendendo le scale. Proprietario era stata la prima parola che avevi cercato nel dizionario. Proprietario di che? avevi chiesto e con un ampio gesto BB aveva indicato gli specchi e negli specchi fumé tu avevi visto i tavolini, i divanetti e tutto il resto ma soprattutto avevi visto te stessa. Ora invece vedi ondeggiare la BB, deglutisci le tue folli voglie, le indichi le stecche, lei piazza subito qualche pacchetto al vecchietto, per la sua stupendissima mulatta, gli versa una coppetta di champagne truccato, poi versa una anche per sé e risucchia il cavaliere stordito in una delle sue apnee nostalgiche. Una della vecchia guardia la BB, filatasela ancora ai tempi del Muro attraverso le frontiere smagliate di Tito. Sputata identica alla Bardot ero, al Royal di Viareggio gli uomini facevano la fila per bere lo champagne dalle mie scarpe… ah, che tempi che erano, mio caro, tempi d’oro!

Anche tu sei circondata d’oro. Le luci del Ponte Vecchio sfavillano nelle vetrine delle antiche oreficerie, i riflessi delle filigrane preziose risplendono fugaci sulle le tue gambe: filo d’oro spinato che aggancia gli sguardi dei vigili. Non dovresti rispondere a quelle occhiate perché sei una clandestina, ma è appunto per quello che lo fai. Perché non si diventa clandestini per la sola fame del corpo ma soprattutto per la fame dell’anima. Quella fame indefinibile ma intensa che lega i poli opposti della tua vecchia e la tua nuova identità.  La vecchia, dagli occhi grigi da clandestina, che sa bene cosa non vuole e la nuova, dall’attillato abitino rosso, che non sa ancora cosa vuole. Sicché ti chiedi, cosa vai cercando, poi ti distrai risucchiata dal moto perpetuo degli ambulanti che stanno ripopolando i propri territori tribali sotto la Torre Mannelli. La vitalità di quel baccanale di rumori, colori e odori fonde le tue incerte identità. Faris ti fa l’occhiolino dalla solita postazione. Ha della buona erba, Faris, e della coca tagliatissima, da turisti. Sono contrario alle droghe pesanti, dice, questione di principio. La verità è che Faris vende quello che gli ordinano di vendere, vive esattamente come te nella zona grigia dove i principi sono articoli di lusso. Affascinata dalla placidità dell’imponente matrona africana con turbante giallo, senti l’impulso di comprare qualcosa a mo’ di amuleto contro l’irrequietezza. Ti chiedi se la sua calma sia granitica come sembra, oppure anche lei a volte si senta dentro uno stramaledetto western. Avresti dovuto prendere come amuleto il dolcissimo elefantino, portatore di pace e prosperità e invece compri una pallina di gomma colorata per il gatto. Il gatto non ha un nome. Darja lo chiamava maz maz, il che era semplicemente micio micio nella sua lingua. Ora che Darja se né andata ci pensi tu a nascondere maz maz nell’armadio quando BB viene a controllare se le ragazze che si danno malate lo sono davvero oppure se la sono filate a mungere qualche cliente a scapito del locale. Qualche passo dopo saluti Andrej, pittore di cartelloni pubblicitari e nel tempo libero – di volti di passaggio. Chiacchierate un po’ mentre lui scarabocchia al volo uno schizzo veloce e gioioso del tuo volto. Ci vediamo dopo da Arghirys? No, stasera non puoi. Una ciocca di graffite scende rapida gettando ombra grigia sul viso disegnato. Ti piacciono le serate alla taverna greca, sei una da pietanze speziate ma stasera opterai per il pesce pallido e stracotto su un letto di verdure lesse. Questa faccenda è come un dente malato, prima te lo togli meglio è. Indugi sotto l’insegna spenta del night rigirando in mano la pallina colorata. Diventa sempre più difficile far entrare il gatto clandestino nell’armadio, la pallina sarà per maz maz quello che è per te lo schizzo gioioso di Andrej, un diversivo che placherà temporaneamente la fame dell’anima. Stasera il night è chiuso ma sai che ti aspettano. Prima di entrare infili la pallina e il disegno arrotolato nella borsetta ed è come se qualcuno avesse spento tutte le luci della città. L’ennesimo cortocircuito in una notte fiorentina di mezz’estate.

L’uomo che perse

C’era una volta un uomo che aveva un gran bell’uccello. Grosso, variopinto, canterino. Lo liberava, lo guardava innalzarsi luminoso, ascoltava la sua voce pura e provava emozione. Gli altri applaudivano e si complimentavano, e anche questo gli dava emozione.

Nessuno sa come andò di preciso, ma raccontano che un giorno l’uomo aprì la gabbietta e la trovo vuota. Aveva incitato l’uccello ad alzarsi così alto nel cielo da fare la fine di Icaro oppure l’aveva semplicemente venduto, sperando che tornasse ancor più pasciuto e allegro? Circolarono voci contrastanti, poi ognuno tornò a occuparsi del proprio uccello. Quanto all’uomo senza uccello, s’incammino in cerca di emozione, ma non sentiva più il gusto del cibo, l’ebbrezza del vino, il calore del sesso. Si soffermò lungo la via per osservare alcuni mercanti che vendevano i propri uccelletti, ma erano semplici passerotti, tornavano sempre.

In astinenza di emozioni, più acuta che mai, l’uomo proseguì, ascoltando gli uccelli degli altri. Si avvicinava, si complimentava e chiedeva per ricordo una piuma, una scheggia di becco, un pezzetto d’unghia. Alcuni lo ignoravano, altri rispondevano in malo modo, altri ancora gli regalavano una piuma, una scheggia di becco, un pezzetto d’unghia affinché l’uomo potesse rifarsi un uccello. E così, piuma dopo piuma, venne fuori un gran bell’uccello. Grosso, variopinto, canterino. L’uomo lo liberò, lo guardò innalzarsi luminoso e ascolto la sua voce ricca, variegata delle voci di decine di uccelli. Mancava solo la voce in grado di dargli emozione. Alloro l’uomo impugnò una pistola e sparò. E s’incammino di nuovo, ascoltando gli uccelli cantare. Si avvicinava, si complimentava. Cosa fa di un uomo un uomo? chiedeva. L’uccello, rispondevano gli altri. Allora lui tirava fuori la sua pistola e sparava agli uccelli alti nel cielo. E ora, domandava, cosa fa di un uomo un uomo?

 

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