Fame: in crisi alimentare acuta 295 milioni di persone
della redazione di Diogene notizie (*).
Il Rapporto Globale sulle Crisi Alimentari 2025 racconta un pianeta che non riesce più a sfamarsi, stretto tra guerre, disastri climatici e tagli umanitari
Nel 2024, quasi 295 milioni di persone in 53 Paesi hanno vissuto una condizione di insicurezza alimentare acuta, cioè una situazione in cui non si tratta più di scegliere cosa mangiare, ma se riuscire a mangiare. È il dato centrale del Global Report on Food Crises 2025, pubblicato dal Food Security Information Network (FSIN) e dalla Global Network Against Food Crises (GNAFC): un documento che da nove anni misura lo stato di salute alimentare del pianeta, e che quest’anno descrive un quadro senza precedenti.
Il numero è impressionante non solo in sé, ma anche perché rappresenta il sesto aumento consecutivo su scala mondiale. Aumenti che non sono più legati a singole emergenze ma a un sistema globale instabile, dove conflitti, crisi economiche e catastrofi ambientali si alimentano a vicenda, generando fame e spostamenti di massa.
La fame come sintomo del disordine globale
Il rapporto descrive la fame non come un incidente isolato, ma come una conseguenza diretta del disordine politico e climatico del mondo contemporaneo. Ventitré Paesi sono oggi attraversati da conflitti o crisi di sicurezza che spingono le popolazioni alla fame, e in venti di essi la guerra o la violenza sono la principale causa dell’emergenza alimentare.
Il Sudan è l’epicentro più drammatico: nel 2024 la Famine Review Committee ha confermato per la prima volta dal 2020 la presenza di carestia (fase 5 IPC) nel campo di Zamzam, nel Darfur del Nord, e ha rilevato altre aree in rischio imminente. In Gaza, nel marzo 2024, la stessa commissione ha segnalato che la carestia era “imminente”; a metà anno la situazione si è temporaneamente stabilizzata grazie all’aumento degli aiuti e di alcuni scambi commerciali, ma da marzo 2025 la violenza ha nuovamente interrotto i rifornimenti umanitari.
La fame è anche un effetto collaterale delle grandi crisi geopolitiche. Dalla guerra in Ucraina – che ha destabilizzato i mercati dei cereali e dell’energia – ai conflitti prolungati in Yemen, Mali e Myanmar, la sicurezza alimentare è diventata un termometro della stabilità mondiale. Dove falliscono la diplomazia e la cooperazione, il prezzo si paga in calorie mancanti.
L’altra faccia del cambiamento climatico
Se la guerra distrugge le scorte, il clima distrugge i raccolti. Il 2024 è stato tra gli anni più caldi mai registrati: temperature record, alluvioni diffuse e un evento di El Niño particolarmente severo hanno compromesso la produzione agricola in vaste aree dell’Africa australe e dell’Asia.
Secondo il GRFC, 18 Paesi hanno avuto il clima come principale fattore di crisi, per un totale di oltre 96 milioni di persone colpite. Dalla siccità estrema in Madagascar e Zambia alle inondazioni devastanti nel Corno d’Africa, gli eventi meteorologici estremi sono ormai un moltiplicatore di povertà.
Questi dati smentiscono l’idea che la fame sia solo un problema di guerra o di mala gestione. Anche società pacifiche ma vulnerabili – come quelle agricole del Sudest asiatico o dell’America Centrale – vedono il proprio sistema alimentare collassare per un’alluvione o per la perdita di un raccolto. In un pianeta sempre più caldo, la sicurezza alimentare diventa un indicatore climatico.
Economia fragile, piatti vuoti
Le crisi economiche restano il terzo grande motore della fame globale. Il rapporto segnala 15 Paesi dove shock economici – inflazione, svalutazione, disoccupazione, debito – sono stati il fattore principale della fame, coinvolgendo quasi 60 milioni di persone.
Sebbene il dato sia leggermente inferiore a quello del 2023, è ancora il doppio rispetto al 2019.
La riduzione dei redditi e l’aumento dei prezzi alimentari rendono impossibile l’accesso a cibo sufficiente, anche quando i mercati sono pieni. In molte capitali africane e mediorientali il paradosso è sotto gli occhi di tutti: il cibo c’è, ma non per chi non può permetterselo.

I bambini al centro della crisi
Il GRFC dedica per la prima volta un capitolo intero alla malnutrizione infantile, riconoscendo che la crisi alimentare non è solo quantitativa, ma anche qualitativa. Nel 2024, 37,7 milioni di bambini sotto i cinque anni hanno sofferto di malnutrizione acuta in 26 Paesi.
Le situazioni più gravi sono state registrate in Sudan, Yemen, Mali e nella Striscia di Gaza. I dieci Paesi con il più alto tasso di malnutrizione globale hanno visto i casi salire da 26,9 a 30,4 milioni in un solo anno.
La sovrapposizione tra fame e malnutrizione è quasi totale: la maggior parte dei bambini malnutriti vive negli stessi Paesi che affrontano le peggiori crisi alimentari.
Dietro ogni statistica c’è una realtà che non compare nei numeri: quella di bambini che non crescono, di madri costrette a scegliere quale figlio nutrire, di intere generazioni che iniziano la vita con un handicap biologico e sociale.
Il crollo degli aiuti: la fame del sistema
Il rapporto sottolinea un fatto che rischia di passare inosservato ma che potrebbe cambiare tutto: nel 2025 i fondi umanitari globali sono crollati fino al 45%.
Le riduzioni, spiegano gli autori, “hanno interrotto le operazioni in Afghanistan, Congo, Etiopia, Haiti, Sudan e Yemen”, e mettono a rischio i servizi nutrizionali per almeno 14 milioni di bambini.
È una spirale pericolosa: più la fame aumenta, meno risorse ci sono per affrontarla. La “stanchezza dei donatori” e le tensioni geopolitiche stanno svuotando le agenzie umanitarie, che si trovano a scegliere chi salvare e chi no.
Per António Guterres, segretario generale dell’ONU, che firma la prefazione del rapporto, la situazione “non è solo un fallimento dei sistemi, ma un fallimento dell’umanità”. Una frase che, nel tono misurato del linguaggio diplomatico, suona come una condanna.
Spostati, affamati, invisibili
La fame e la guerra generano un altro fenomeno che alimenta entrambe: lo spostamento forzato di popolazioni. Nel 2024, nei Paesi con crisi alimentari, quasi 96 milioni di persone risultavano sfollate o rifugiate; tre su quattro erano sfollati interni.
E, dove disponibili, i dati mostrano che gli sfollati soffrono di livelli di insicurezza alimentare più gravi rispetto alle comunità residenti.
Si tratta di una migrazione della fame che non lascia tracce nei confini internazionali, ma che svuota regioni intere. Villaggi agricoli abbandonati, campi profughi che diventano città permanenti, economie rurali distrutte: la geografia della fame è anche una mappa dei movimenti umani del XXI secolo.
Prospettive 2025: un orizzonte in peggioramento
Per il 2025, le prospettive non sono incoraggianti. Il rapporto prevede che i conflitti resteranno il principale motore della fame, con situazioni destinate a peggiorare in Sudan, Palestina, Nigeria e Haiti.
La crescita economica globale rallenta, e i cambiamenti climatici promettono nuove ondate di eventi estremi.
La conclusione del GRFC è chiara: senza un’inversione politica e finanziaria, il 2025 potrebbe segnare un punto di non ritorno, in cui le crisi alimentari diventano strutturali e non più emergenziali.
Il rischio, dicono gli autori, è che la fame non sia più percepita come una tragedia collettiva ma come un dato di fatto, parte del paesaggio geopolitico.
Un fallimento che si può evitare
Eppure, il rapporto non è solo un elenco di disastri: è anche una chiamata alla responsabilità. Gli autori invitano governi e istituzioni a “trasformare il commercio in un motore di sicurezza alimentare, non in una barriera”, e a investire in sistemi agricoli resilienti e sostenibili.
Le soluzioni, scrivono, esistono: migliorare la logistica alimentare, ridurre gli sprechi (oggi un terzo del cibo prodotto nel mondo va perduto), sostenere i piccoli produttori, e, soprattutto, riportare la lotta alla fame al centro dell’agenda politica globale.
La fame, conclude il rapporto, non è un destino biologico ma una scelta politica collettiva. Ogni volta che un governo, un’azienda o un’istituzione decide di non intervenire, contribuisce a mantenere vivo un sistema che accetta la fame come prezzo inevitabile del mondo com’è.