Fine vita: suicidio assistito in Europa e palude italiana

di Nello Rossi, direttore di Questione Giustizia (*). A seguire un articolo di Gianluca Cicinelli (**).

 

A fronte dell’infinito confronto, esistenziale e filosofico, sui temi della libertà di vivere e della libertà di morire, è emersa in Europa una nuova domanda sociale: quella di una libertà del morire che sia tutelata dall’ordinamento giuridico non solo come “libertà da” e come espressione di autodeterminazione ma anche come un vero e proprio “diritto sociale” che assicuri l’assistenza di strutture pubbliche nel momento della morte volontaria. In questi ultimi anni, in alcuni Paesi europei sono stati compiuti significativi passi verso un nuovo regime del fine vita mentre in altri vi sono cantieri aperti ormai ad un passo dalla positiva chiusura dei lavori.

Il Regno Unito sta approvando una nuova legge destinata a superare il Suicide Act del 1961. In Germania la Corte costituzionale, con una decisione del 2020, ha affermato che esiste un diritto all’autodeterminazione a morire ed a chiedere e ricevere aiuto da parte di terzi per l’attuazione del proposito suicidario. In Francia una nuova normativa, in corso di approvazione, è stata preceduta e preparata da un importante esperimento di democrazia deliberativa come l’istituzione di una Convention Citoyenne Cese sur la fin de vie, formata per sorteggio e chiamata a fornire un meditato e informato parere sul fine vita.

La situazione del nostro Paese resta invece caratterizzata da una notevole dose di ipocrisia e da un altrettanto elevato tasso di confusione istituzionale. La radicale negazione dell’esistenza di un diritto a morire proveniente dalla maggioranza di governo coesiste infatti con il riconoscimento di diverse possibilità legittime di porre fine volontariamente alla propria vita in particolari situazioni: rifiuto delle cure, sedazione profonda, suicidio assistito in presenza delle condizioni previste dalle pronunce della Corte costituzionale.

Dal canto suo il legislatore nazionale è stato sin qui paralizzato da veti e contrasti ed appare incapace di rispondere alla domanda, che sale con crescente intensità dalla società civile, di tutelare il diritto “doloroso” di porre fine ad una esistenza divenuta intollerabile. In questa situazione stagnante la domanda sociale di libertà del morire si è trovata di fronte solo l’arcigna disciplina del fine vita dettata dagli artt. 579 e 580 di un codice penale concepito in epoca fascista. Da questo impatto sono scaturite le forme di disobbedienza civile consistenti nel prestare aiuto, sfidando le norme penali, a chi in condizioni estreme aspirava ad una fine dignitosa.

E, a seguire, i giudizi penali nei confronti dei disobbedienti e le questioni di legittimità costituzionale sollevate nel corso dei processi dai giudici che hanno innescato i numerosi interventi della Corte costituzionale, sinora decisivi nel disegnare la disciplina del fine vita. Da ultimo un tentativo di superare l’inerzia del parlamento è stato compiuto da due Regioni – Toscana e Sardegna – che hanno approvato leggi sul fine vita, individuando come requisiti per accedere all’assistenza al suicidio quelli previsti dalla sentenza della Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019 e disegnando procedure per ottenere la prestazione assistenziale richiesta. La reazione del governo è consistita nell’impugnare la legge regionale toscana ritenuta esorbitante dalle competenze regionali e lesiva di competenze esclusive dello Stato. Reazione non priva di qualche fondamento giacchè la prospettiva di regimi del fine vita differenziati su base regionale appare criticabile sotto il profilo giuridico e non certo desiderabile nella pratica, ma singolare quando provenga dal uno Stato che sinora si è dimostrato incapace di dettare una normativa rispondente alle istanze di riconoscimento di libertà e di diritti sul fine vita che provengono dalla società italiana.

(*) Link all’articolo originale: https://www.questionegiustizia.it/articolo/fine-vita-il-suicidio-assistito-in-europa-e-la-palude-italiana

Il diritto al fine vita per tutte/i

di Gianluca Cicinelli (**)

Vi siete mai chiesti come stanno, come va la vita di tutti i milioni di dispensatori di consigli per la vostra di vita? Perchè a giudicare dalle perle di saggezza che ci circondano, emesse di persona o via social da dotti, medici e sapienti, la vita dovrebbe essere una passeggiata, seguendo i consigli di cotanta saggezza.

Dovremmo ritenerci fortunati a vivere in mezzo a persone così sagge, con una soluzione per ogni passaggio complesso della vita, e della morte. Se non fosse che troppo spesso chi consiglia determinati comportamenti a te non li segue nella vita sua.

Peccato che a nessuno di loro venga mai in mente che l’unico vero punto non è avere una vita “come si deve”, ma una vita che decidi tu. Con i tuoi tempi, le tue imperfezioni, le tue cadute, le tue gioie, e — quando arriva il momento — anche con la tua fine.

Perché se la vita è davvero solo nostra, allora lo è anche la morte.
E questo, in Italia, è un discorso che fa ancora paura: la nostra politica si aggrappa alla vita degli altri come se fosse proprietà pubblica, mentre abbandona quelle stesse persone quando vivono nella povertà, nella perdita di autonomia, nella sofferenza non più curabile.

E allora la scelta delle gemelle Alice ed Ellen Kessler, morte insieme il 17 novembre a 89 anni nella loro casa in Baviera, acquista una forza ancora più nitida. Non per il colore della loro vicenda, non per il mito del varietà anni Sessanta, non per la nostalgia televisiva.

Semplicemente perché hanno fatto l’unica cosa che un essere umano dovrebbe sempre poter fare: decidere. Lo hanno fatto consapevolmente, legalmente, assistite, dopo aver scelto una data, un luogo, un modo. Una scelta uguale per entrambe, coerente con una vita passata l’una accanto all’altra.

E c’è un dettaglio che rende la loro scelta ancora più luminosa: le Kessler non erano solo due icone del passato. Erano, per milioni di italiani, una dellQuelle gambe che danzavano in sincrono millimetrico, quell’eleganza piena di ironia, quella complicità che riempiva lo schermo senza mai diventare caricatura: portavano nelle case una leggerezza fatta di disciplina, intelligenza e vitalità.

Le Kessler non recitavano la vita, la vivevano. E la restituivano al pubblico amplificata, luminosa, possibile. In un Paese spesso cupo, spesso moralista, spesso povero di sorrisi, loro offrivano un’allegria che non era evasione, ma energia condivisa.

E proprio perché avevano dato così tanto alla vita — e alla vita degli altri — la loro scelta finale non è una rinuncia, ma l’ultima affermazione di libertà di chi la vita l’ha presa sul serio fino all’ultimo istante.

La loro morte non è uno scandalo, non è un mistero, non è un “caso”.
Lo scandalo semmai è che in Italia una scelta così non sia possibile, se non rischiando tribunali, indagini, viaggi all’estero, clandestinità terapeutiche.

Lo scandalo è che ancora oggi si debba fingere che vivere a tutti i costi sia sempre meglio che scegliere il proprio limite. Lo scandalo è che la politica che ignora i poveri pretende invece di gestire la loro sofferenza quando diventa intollerabile.

Il gesto delle Kessler, invece, è semplice. È limpido. È umano. È la rivendicazione di un diritto che non toglie nulla a nessuno e restituisce tutto a chi lo esercita: la sovranità su se stessi.

Ecco perché la loro scelta riguarda anche noi. Perché la stessa libertà che hanno avuto loro in Germania dovrebbe essere garantita a chiunque nel mondo. Senza ipocrisie, senza ostacoli, senza dover attraversare mezzo continente per poter decidere della propria vita — e della propria morte.

 

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(**) ripreso da diogenenotizie.com

ALLE DUE VIGNETTE DI MAURO BIANI UNA PRIMA SINTESI DELL’ITALIA IMPANTANATA NELLA DOPPIA PALUDE: IPOCRISIA DI STATO E SUDDITANZA AL VATICANO.

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