Gianluca Ricciato riflette sui maschi idioti al volante

La produzione di automobili in Italia è la prima fonte di crescita economica: l’11% del Pil nazionale (fonte: ministero delle Attività produttive). Gli incidenti stradali in Italia sono la prima causa di morte fra i maschi sotto i 40 anni (fonte: ministero della Salute).

Senza andare poi alle fonti si può notare empiricamente che una famiglia piccolo-medio borghese italiana di 4 persone conta un parco macchine di due-tre unità, ma considerando la tendenza alla diminuzione del numero di componenti familiari e l’aumento di persone che vivono da sole, si può dire che ogni adulto abbia almeno un’automobile. Sicuramente ogni maschio adulto. Alla faccia di crisi, vere o presunte.

Da quando abito a Bologna – quasi quindici anni – non ho mai avuto la macchina. Forse la avrò in futuro, ma non è per farmi bello che sto dicendo questo. Questa mia caratteristica è una delle cose che mi rende un alieno di fronte ai miei simili, maschi bianchi occidentali (non tutti per fortuna). Questa interpretazione di genere del fenomeno automobilistico si poggia su un dato inoppugnabile: la stragrande maggioranza di incidenti stradali in Italia sono causati da maschi. Una ricerca del 2000 parla del 77,8% di incidenti causati da maschi al volante contro il 22,2% da donne (www.handicapincifre.it/documenti/incidenti_stradali.htm).

Tutto questo dovrebbe o meno essere centrale nell’attenzione di media, politica, operatori sociali, insegnanti? Perché non lo è? Forse fa paura porre l’accento sulla “normalità” di chi causa incidenti, cioè sul fatto che l’animale umano che determina ogni giorno questo disastro umanitario è delle stesse fattezze di quel giornalista, quel politico, quell’insegnante? Di quelli maschi, naturalmente, perché a questo punto la differenza non si può tralasciare.

Fa più comodo parlare di giovani strafatti che ronzano come vampiri sulle strade invece di starsene a casa a dormire e il giorno dopo svegliarsi presto e produrre. Come se i giovani non interiorizzassero quello che passano loro genitori, media, insegnanti, eccetera.

Ancora più parossistica sta diventando la questione droga e alcool. Senza voler negare che guidare strafatti è una cosa da folli, occorre capire che significa essere strafatti. Se una settimana fa mi sono fatto una canna gli effetti sono bell’e finiti, ma nel mio sangue circola ancora Thc. Se sono un amante del buon vino e a tavola ne bevo due bicchieri, sarà difficile che io sia ubriaco, proprio perché sono abituato a berlo e mi ci vuole molto di più per ubriacarmi dei canonici 0,5 grammi di alcool per litro. Dipende poi da una serie di fattori soggettivi difficilmente classificabili e quantificabili, come si sa: è per questo che ogni governo va scartabellando gli studi scientifici che fanno più comodo all’immagine securitaria che deve trasmettere ai cittadini. Su questa come su tutte le altre questioni di oggi è comico pensare a deputati che tagliano il capello su infinitesimali quantità di alcool poco dopo essersi fatti non così modiche quantità della nota polverina eccitante, come tutti sanno e come attestano indagini della Polizia di Stato.

Un maschio idiota al volante, ubriaco o no, resta un maschio idiota. Perché l’acceleratore spinto fino in fondo rilassa nervi continuamente tesi, rappresenta una volontà di potenza spesso irraggiungibile in periodi di crisi sessuali e di erezioni tristi. Perché da adolescente i miei amici mi prendevano in giro per il mio modo lento di guidare, e lo fanno ancora per la mia maniera timorosa di star loro accanto – “un modo da checca”? Perché il modo di entrare nel nostro ruolo identitario di maschi bianchi occidentali, fin da bambini, è passato non poco dai motori. C’è chi vi è rimasto ancorato e chi ne è fuggito ma quel mostro che rende idioti molti, ogni volta che tornano alla guida, è rimasto, e non sono pochi milligrammi di qualcosa a cambiare un problema sostanziale e macroscopico. Un mostro che abbiamo dentro tutti, in qualche modo.

Non servono vigili e poliziotti che vanno a fare la morale nelle scuole sull’educazione stradale, se mai sia servito far morali. Anche una femmina cresciuta con quei modelli finirebbe e finisce per riprodurre tali psicosi automobilistiche ed essere causa di disastrosi effetti. Non credo sia una questione “biologica” – lo dico per evitare facili critiche – ma del modo in cui si è cresciuti e dei modelli identitari che si sono interiorizzati e riprodotti.

Gli scarti da questi modelli ognuno e ognuna li cerca da sé, ma scardinare qualcosa di interiorizzato da piccoli è molto più difficile. Servono persone adeguate che ci lavorino su, e prima ancora che vedano il problema. Serve guardare in faccia la propria idiozia interiore e le proprie frustrazioni. Serve prima di tutto una società che superi l’automobile nel suo immaginario, e che passi ai suoi figli qualcosa di più bello, desideri migliori, libertà più vere. Come ad esempio imparare a conoscere il proprio corpo e la propria sessualità, di maschio di femmina o di qualunque altro genere.

Gianluca Ricciato fa parte dell’Associazione Maschile Plurale e del collettivo Laboratorio Smaschieramenti di Bologna. Come autore di articoli e racconti ha collaborato con realtà editoriali cartacee e online tra cui Piazza Grande, il quotidiano Liberazione, Arcireport, Promiseland. Si occupa di didattica nelle scuole in particolare sui temi dell’educazione ambientale e della violenza di genere.

Redazione
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Un commento

  • ginodicostanzo

    Quei modelli identitari negativi incultati da giovanissimi sono rafforzati da adulti attraverso il linguaggio pubblicitario, che usa evidenti allusioni all’ambito sessuale ed in genere termini che incitano alla distinzione ed a una forma di “predominio”, per distinguersi dal gregge… (entrandovi a far parte, paradossalmente)

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