Ho un problema con John Harrison?

Chiedo aiuto: però astenersi affetti da coulrofobia, Nasa e gatto-fanatici   

Sono in difficoltà. Vi racconto e poi domando assistenza. Compro in edicola l’Urania 1604: «Lo spazio deserto» (294 pagine per 4,90 euri; traduzione di Flora Staglianò) di Michael John Harrison. Leggo diligentemente sino a pagina 132, prendo appunti, mi entusiasmo su frasi e fraseggi ma poi mi assale il dubbio: a che pro? Mi piace l’atmosfera: gatti ovunque, sogni, incendi che non sono tali, misteri nei cieli. Molto mi piace che d’improvviso qualcuno dica: «mi chiamo Pearlent e vengo dal futuro» e abbastanza gradisco titoletti del tipo «I segnali emozionali sono chimicamente codificati nelle lacrime» (poi ci ripenso: non sarà l’ovvio dei popoli?).

Dicevo che a pag 132… mi fermo e – con una vaga sensazione di «deja vu» (da non confondere con il vudù) – vado a ripescare il precedente Harrison della trilogia, ovvero l’Urania 1559, «Nova Swing». Così la vaghezza prende forma: quattro anni fa avevo con Harrison lo stesso problema di oggi, riassumibile in “a che pro?”. Anche con il precedente romanzo arrivato a pag 139 (c’è un appunto rivelatore, corredato di “orecchietta”) ero andato nel pallone. Bello leggere «l’incertezza è l’unica cosa che abbiamo», interessante l’idea di una fisica “sbagliata” e/o che siamo tutti gatti di Schrodinger (prima o poi imparerò dov’è la diaresi nella tastiera), verissimo che «ciò che è noto si posa su ogni cosa come il grasso»… e così via. Ma la storia dove ci porta? Pazientemente riprendo «Lo spazio deserto», leggo tutto e rifletto: forse lasciandomi condizionare dal titolo, lo trovo vuoto. Ben scritto, oh sì. Ma se questo è il terzo di un trittico la logica vuole che chi legge possa riallacciare quasi tutti i fili (oppure sei Arthur Clarke e giochi con il monolite per decenni o millenni) e io invece vedo solo un gran groviglio.

Chiedo dunque umilmente aiuto a chi legge o leggerà ‘sto trittico.

Prima ipotesi: esiste un morbo della pagina 130 circa? E chi ne soffre, io oppure Harrison?

Secondo viottolo: invecchio, non ho capito un cecio. Ditemelo nel modo più garbato possibile.

Terza viuzza: Sono un gattofobico e non lo sapevo? Bau.

Grazie se mi aiuterete. Pregherei solo astenersi dall’intervenire quelle/i che lavorano alla Nasa (vedo che l’agenzia spaziale statunitense si è messa a dare consigli a chi scrive fantascienza e mi dissocio) come chi soffra di coulrofobia la quale (scopro leggendo Emiliano Liuzzi su «Il fatto quotidiano») è la terribile paura per coloro che camminano sui trampoli e, per estensione, per i giocolieri. Ecco io invece amo chi zompetta (nei circhi, in letteratura e persino in quella roba chiamata vita) fra trapezi e trampoli ma sospetto che invece Harrison appena arrivi lassù cada, senza neanche una rete (Nasa?) a salvarlo.

PS (FUORI TEMA): Mi scrive un’amica che il premio Kipple di quest’anno è stato vinto da Matteo Barbieri e, forse temendo la lobby, mi chiede se sia mio figlio. Non è il mi’ figliolo (dico questa frase in simil-toscano per adattarmi allo stil Renzi che ormai infuria nei media, ‘sti bischeri) e neppur parente se non, lo presumo, per via dei Cromagnon.

Redazione
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Un commento

  • In passato valeva l’usanza di traslitterare le vocali con la dieresi della lingua tedesca con dei dittonghi: al posto di ä, oe al posto di ö, ue al posto di ü (anche ss al posto di ß). Adesso ho scritto questo post con i caratteri tedeschi, quindi dibbì alla peggio la prossima volta puoi fare copia e incolla da qui! Spero di aver dato un contribuito utile alla causa del blog 😉

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