I Giardini delle Esperidi a Zagarise

di Pierluigi Pedretti

pedro-cascataCampanaro

«Sogno una bella mattinata di sole, un giorno in cui guardi il paesaggio, le marine e i paesi rifioriti, e in primo piano non ci sono più le brutture di adesso, i cantieri, le solite procedure distruttive, ma la quiete, l’immediato presentarsi delle cose così come sono» (Mauro F.Minervino, «Statale 18», Fandango ed.)

pedro-ChiesaZagarise

Mi trovo nel giardino delle Esperidi. L’acqua scende vorticosa attraverso salti e massi, la schiuma ruota veloce nei mulinelli per poi sciogliersi nella corrente più in basso, dove si ode il rombo di una cascata. Trascino la bici attraverso il ripido sentiero perchè voglio raggiungerla al più presto. Nella forra montuosa il tempo è fermo. Il microclima del Campanaro sospende le stagioni. Ho lasciato la provinciale in un fresco autunno e mi trovo immerso in una lussureggiante vegetazione, che ricopre fitta l’acqua cristallina che scende dalla Sila verso lo Ionio. Nel gioco di luci ed ombre vedo le Ninfe della notte che saltellano tra gorghi e rocce, immergendosi di continuo nelle fresche acque di queste marginali lande di Calabria, perché la Presila ionica è terra di periferia nella periferia dell’Occidente.

Come nel loro lontanissimo luogo segreto le Esperidi custodivano i pomi d’oro di Zeus, così a Zagarise c’è un tesoro che bisogna salvaguardare ma anche saper (ri)trovare. 

A guidare da giorni gli ospiti nella sua ricerca è una delle ninfe, Maria Faragò, che ha saputo ricreare nel borgo catanzarese, seguendo le suggestioni del paesologo Franco Arminio, una comunità provvisoria, che unisce artisti, poeti, scrittori, musicisti, persone provenienti da ogni dove con gli abitanti di Zagarise per trascorrere un lungo week end di amorevole culto del proprio luogo.

Pedro-FrancoArminio

I nostri paesi, pur nella loro problematica esistenza, mostrano a chi sa ben vedere straordinarie occasioni di scoperte artistiche e paesaggistiche, ma soprattutto umane.

Domenica novembrina di primo mattino. Qualche ora prima. Il sole nascente è celato da una striscia di nuvole che galleggia sul mare. Mi accingo a partire con la mia bicicletta da montagna. Sento un po’ di freddo, ma so che la lunga salita che mi porta alle Valli Cupe mi darà calore. Risalgo dalla Tenuta Castellaci, gestita da una signorile padrona irlandese, verso la” città dell’olio”. La provinciale si inerpica attraversando uliveti e terre incolte, che a tratti risplendono sotto barlumi di sole. Squadroni di cacciatori di cinghiali sono sparsi per la campagna mentre i loro fuoristrada, come cavalli in attesa, pascolano ai bordi della carreggiata. Dopo dieci chilometri arrivo a Zagarise. Mi fermo per una pausa ristoratrice nel bar della piazza. Avventori con gli abiti da lavoro si alternano al banco per un caffè. Io mi accomodo ad un tavolo esterno e mi tengo a fianco il mio scudiero mentre da dentro giungono le voci televisive della strage di Parigi. Avverto un sentimento ambiguo di sospensione dal dolore che mi induce a ripartire in fretta, ancora in salita. Passo sotto la torre normanna, riprendo la strada per la più alta Sersale. Avverto telefonicamente Alfonso che ci vedremo, come da programma, alla cascata del Campanaro con Arminio e tutti gli altri. Ormai ho raggiunto la quota di 700 metri. La provinciale è un balcone naturale sulla costa ionica, osservo le valli che si inseguono a sud verso Catanzaro, mentre uno stormo di corvi si alza in volo al mio passaggio. Vado ora veloce e in poco tempo raggiungo il cartello indicante la cascata, ma per ora non mi fermo e proseguo oltre, verso il borgo delle Valli Cupe. Chissà com’erano questi luoghi nel XVII secolo quando vennero colonizzati da contadini dell’ebraica Serrastretta? Intanto un segno premonitore: a due chilometri da Sersale una orrenda discarica mi accompagna tra le curve. Eppure il paesaggio sarebbe straordinario per i boschi in alto e le colline in basso che degradano dolci fino allo Ionio. Qualche persona compie la sua passeggiata domenicale ” fuori le mura”. Ci salutiamo. Sempre cortesi i calabresi. Presagisco tuttavia il peggio. È come se in noi ci fosse una maledizione che divide le nostre anime. Da un lato siamo ospitali, gentili, accoglienti, pur nelle nostre ruvidezze, dall’altro non riusciamo a esternare il meglio che è in noi verso la comunità, il borgo, il paesaggio, il ventre che ci accoglie.

E Infatti il paese mi appare annichilito dalla speculazione edilizia tipicamente calabrese. Nel pomeriggio dovrò moderare con Francesco Bevilacqua e Mauro Minervino un incontro dal titolo «Cercatori di luoghi spaesati» e allo scopo ho riletto il Franco Arminio de «Viaggio nel cratere». Mi sovvengono le sue parole mentre, pedalando lentamente, osservo visi curiosi, cerco qualcosa di antico, voglio il vecchio, ma trovo il decrepito, che ha il volto degli edifici mai terminati, degli allumini anodizzati, di piani urbanistici che tali non sono. Ha scritto l’avellinese: «c’è una bella strada che va al castello, lunga e dritta. Ma al posto del ciottolato che c’era una volta hanno posato, ovunque era possibile, un disegno di mattoncini rossi. In altre strade la pavimentazione è affidata a materiali da piscina o da giardino. Insomma il Comune appena ha avuto un po’ di soldi ha pensato di cancellare la trama antica del luogo. È come se avessero coperto le linee sul palmo della mano, e adesso chi può leggere il destino di un paese come questo?».

Rintraccio una chiesa, è ora di messa, forse per questo si vede poca gente in giro. Solo alcune signore indugiano con dei bambini davanti ad un bar. Mi fermo per una foto, poi risalgo da una ripidissima via, mentre attoniti alcuni anziani mi guardano meravigliati. Cerco un buon caffè, e tra i diversi locali della via principale, ne individuo uno, “Caffè Veneto”, dove trovo la proprietaria che mi accoglie cordiale. Ad un tavolo un signore albino legge il giornale. Forse è per l’abbigliamento, forse per la mia mole, o per gli occhi azzurri, ma mi scambia per un nordico, così mi chiede come mai mi trovo a Sersale. Le spiego che sono nelle terre ioniche per il Festival di Giardini delle Esperidi di Zagarise. Cosa? Chiede l’albino, interrompendo la lettura. Provo a spiegare che è una festa organizzata per scoprire le nostre ricchezze. Quali? Interviene la barista. È sempre così. Viviamo ormai immersi nell’abitudine, nella noia, nella bruttezza, che non riusciamo a vedere il bello che ci circonda: il paesaggio pittoresco, il vicolo medievale intatto, la porta con la chiave nella toppa, la generosità delle persone, la solidarietà verso i più deboli, l’amore per il proprio paese. 

Ed eccomi qua, ora, riemerso abbacinato dal lungo salto d’acqua e in attesa delle Esperidi. Arrivano col torpedone. Li guida Maria, al suo lato Franco Arminio, che incita i paesologi, locali e stranieri, a godere dello splendore del luogo, accompagnati dal suono degli strumenti musicali e dalla voce dei tanti poeti. Li ascolto e li ammiro. Mi sento tutt’uno con loro e con la bellezza del mondo. Le lacrime mi velano gli occhi, il pudore mi induce a inforcare la bici. La lunga discesa mi asciuga il volto proprio all’altezza di Zagarise. Guardo il borgo jonico, penso alle belle persone che vi ho incontrato: cuoche, guide, amministratori, poeti, artisti, musicisti, curiosi, scrittori, baristi, lettori, autisti, custodi, amici. Una straordinaria “ comunità provvisoria” da ricreare in ogni borgo del Sud.  (Zagarise, 13-15 novembre 2015).

 

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