I màrtiri di Gaza non smettono di crescere

articoli e immagini di Notangelo, Ilan Pappe, Paolo Voltolini, Piero Orteca, James North, Julian Macfarlane, Andrea Puccio, Raniero La Valle, Susan Abulhawa, Eric Salerno, Tommaso Di Francesco, Giulia Bertotto, Vittorio Bruni

È il buio prima dell’alba, ma il colonialismo di insediamento israeliano è alla fine – Ilan Pappe

L’idea che il sionismo sia un colonialismo di insediamento non è nuova. Gli studiosi palestinesi che negli anni ’60 lavoravano a Beirut nel Centro di Ricerca dell’OLP avevano già capito che quello che stavano affrontando in Palestina non era un progetto coloniale classico. Non inquadravano Israele solo come una colonia britannica o americana, ma lo consideravano un fenomeno che esisteva in altre parti del mondo, definito come colonialismo di insediamento. È interessante che per 20-30 anni la nozione di sionismo come colonialismo di insediamento sia scomparsa dal discorso politico e accademico. È tornata quando gli studiosi di altre parti del mondo, in particolare Sudafrica, Australia e Nord America, hanno concordato che il sionismo è un fenomeno simile al movimento degli europei che hanno creato gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Sudafrica. Questa idea ci aiuta a comprendere molto meglio la natura del progetto sionista in Palestina dalla fine del XIX secolo ad oggi, e ci dà un’idea di cosa aspettarci in futuro.

Credo che questa particolare idea degli anni ’90, che collegava in modo così chiaro le azioni dei coloni europei, soprattutto in luoghi come il Nord America e l’Australia, con le azioni dei coloni che arrivarono in Palestina alla fine del XIX secolo, abbia chiarito bene le intenzioni dei coloni ebrei che colonizzarono la Palestina e la natura della resistenza locale palestinese a quella colonizzazione. I coloni seguirono la logica più importante adottata dai movimenti coloniali di insediamento, ossia che per creare una comunità coloniale di successo al di fuori dell’Europa è necessario eliminare gli indigeni del Paese in cui ci si è stabiliti. Ciò significa che la resistenza indigena a questa logica è stata una lotta contro l’eliminazione e non solo di liberazione. Questo è importante quando si pensa all’operazione di Hamas e di altre operazioni di resistenza palestinese fin dal 1948.

Gli stessi coloni, come nel caso di molti europei che arrivarono in Nord America, America Centrale o Australia, erano rifugiati e vittime di persecuzioni. Alcuni di loro erano meno sfortunati e cercavano semplicemente una vita e delle opportunità migliori. Ma la maggior parte di loro erano emarginati in Europa e cercavano di creare un’Europa in un altro luogo, una nuova Europa, invece dell’Europa che non li voleva. Nella maggior parte dei casi, hanno scelto un luogo in cui viveva già qualcun altro, i nativi. Quindi il nucleo più importante tra loro era quello dei leader e ideologi che fornivano giustificazioni religiose e culturali per la colonizzazione della terra di qualcun altro. A questo si può aggiungere la necessità di affidarsi a un Impero per iniziare la colonizzazione e mantenerla, anche se all’epoca i coloni si ribellarono all’Impero che li aveva aiutati e chiesero e ottennero l’indipendenza, che in molti casi ottennero e poi rinnovarono l’alleanza con l’Impero. Il rapporto anglo-sionista che si è trasformato in un’alleanza anglo-israeliana è un esempio.

L’idea che si possa eliminare con la forza il popolo della terra che si vuole, è probabilmente più comprensibile – non giustificata – sullo sfondo dei secoli XVI, XVII e XVIII, perché andava di pari passo con la piena approvazione dell’imperialismo e del colonialismo. Era alimentato dalla comune disumanizzazione degli altri popoli non occidentali e non europei. Se si disumanizzano le persone, è più facile eliminarle. L’aspetto unico del sionismo come movimento coloniale di insediamento è che è apparso sulla scena internazionale in un momento in cui le persone di tutto il mondo avevano iniziato a ripensare il diritto di eliminare gli indigeni, di eliminare i nativi e quindi possiamo capire lo sforzo e l’energia investiti dai sionisti e successivamente dallo Stato di Israele nel cercare di coprire il vero obiettivo di un movimento coloniale di insediamento come il sionismo, che era l’eliminazione dei nativi.

Ma oggi a Gaza stanno eliminando la popolazione nativa davanti ai nostri occhi, quindi come mai hanno quasi rinunciato a 75 anni di tentativi di nascondere le loro politiche di eliminazione? Per capirlo, dobbiamo apprezzare la trasformazione della natura del sionismo in Palestina nel corso degli anni…

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Il colonialismo e la Palestina – Paolo Voltolini

Mettiamola così: se della gente venisse a casa vostra un giorno, se avessero fucili, granate, bombe e dicessero: “Questa è casa nostra ora ma non preoccupatevi, siamo magnanimi potete vivere in soffitta o nel seminterrato e se volete spostarvi tra la soffitta e il seminterrato sarete soggetti a umilianti controlli, a perquisizioni corporali, qualcuno dei vostri magari sarà arrestato, di più, se vi troveremo in cucina vi uccideremo”, guardereste a questa gente con gentilezza? Pensereste che abbiano a cuore i vostri interessi? Pensereste che la risoluzione di partizione che vi ha concesso di vivere nel seminterrato o in soffitta quando prima avevate tutta la casa, sia una risoluzione buona e giusta? Certo che no! Accettereste di essere dipinti, stigmatizzati, rappresentati come terroristi o guerrafondai se volete battervi contro questa situazione che vi ha costretto in cattività nel vostro seminterrato, nella vostra soffitta? Certo che no.
Accettereste, come popolo cacciato dalle vostre case, dalle vostre terre, costretto in una parte sempre più piccola della Palestina, di fare la pace con quelli che occupano il soggiorno, la cucina, le camere e il bagno?

La lotta palestinese è la resistenza contro questo stato di cose, contro il fascismo razzista, colonialista e terrorista dello Stato di Israele, uno Stato fondato sull’assunto “una terra senza popolo per un popolo senza terra2, il che ha significato la totale negazione di chi già viveva in quelle terre.
La pulizia etnica del ’47-48 è la diretta conseguenza della mistificazione originaria operata dal Sionismo. Israele è uno Stato concepito su base etnica, sulla continua espropriazione di terra e risorse, sulla violenta, violentissima repressione di ogni istanza di liberazione palestinese. Il ricorso alla guerra, ai bombardamenti, a ogni forma di devastazione e di annientamento della vita dei palestinesi è sistematico, pianificato e, quel che è infame per ciò che ci riguarda, sostenuto ipocritamente dai suoi amici e alleati, Italia compresa e sempre in prima fila nell’assecondare e giustificare di fatto ogni azione, anche la più turpe.

Israele, lo vediamo da decenni, fa uso del terrore a piene mani, lo rivendica perfino legittimandolo col racconto biblico, il popolo eletto, la Terra promessa, il riferimento compiaciuto e paradigmatico allo sterminio di Amalek, fatto pubblicamente dallo stesso primo ministro israeliano.

La realtà viene ribaltata, il linguaggio oscenamente mistificato, l’anima venduta alla sporcizia di una storia scritta, narrata e imbevuta nel sangue degli oppressi, definiti di volta in volta animali, barbari, primitivi, senza anima, oggi terroristi. La disumanizzazione dell’altro, degli altri, è l’essenza di ogni colonialismo, che sia di rapina, sfruttamento, o di insediamento.

Noi occidentali riconosciamo lo sterminio degli ebrei avvenuto sul territorio europeo, abbiamo istituito la Giornata della memoria, i 6 milioni di vittime comprensive di ebrei, rom e Sinti, disabili, gay, oppositori politici, prigionieri di guerra, sono un macabro numero acquisito, interiorizzato, ma, badate bene, in quanto attribuibile alla follia nazionalsocialista del regime hitleriano. Concepito quest’ultimo come una mostruosa parentesi nel percorso di progressiva emancipazione della storia europea e non, viceversa, come la sua inconscia, mai ammessa e mai elaborata, ombra nera. Che invece si dispiega, con continuità, nel secolare colonialismo agito dal mondo anglosassone, da Francia, Germania, Olanda, Belgio, Spagna, Portogallo e, buona ultima, ma solo in termini cronologici, l’Italia. Quando parliamo di colonialismo, parliamo della linfa vitale di una modernità inestricabilmente legata alla rapina, ai massacri, agli stermini in ogni parte del globo.

Aime Cesaire scrive una riflessione illuminante in Discorso sul colonialismo:

“Bisognerebbe innanzitutto studiare in che modo la colonizzazione contribuisce a decivilizzare il colonizzatore, ad abbrutirlo nel vero senso della parola, a degradarlo, a risvegliare in lui quegli istinti reconditi di cupidigia, di violenza, di odio razziale, di relativismo morale e mostrare come, ogni volta che in Vietnam si taglia una testa o si strappa un occhio e in Francia lo si accetta; ogni volta che una ragazzina viene stuprata e in Francia lo si accetta; ogni volta che un malgascio subisce un supplizio e in Francia lo si accetta vi sia una conquista della civiltà che pende dal suo peso morto, il verificarsi di una regressione universale, l’infiltrazione di una cancrena, l’estendersi di un focolaio di infezione; e come in fondo a tutti i trattati violati, a tutte le bugie diffuse, a tutte le spedizioni punitive tollerate, a tutti i prigionieri legati e ‘interrogati’, a tutti i patrioti torturati, in fondo a questo incoraggiamento dell’odio razziale e dell’ostentazione dell’arroganza vi sia il veleno instillato nelle vene dell’Europa e il progresso lento, ma sicuro, dell’imbarbarimento del continente. E così, un bel giorno, la borghesia viene svegliata improvvisamente da un formidabile contraccolpo: le gestapo si danno da fare, le prigioni si riempiono, i torturatori creano, si perfezionano, discutono intorno alle macchine di tortura. Ci si stupisce, ci si indigna. Si dice: ‘Com’è strano! Ma sì, è il nazismo, passerà anche questo!’. E si aspetta, e si spera; e si nasconde a se stessi la verità, che siamo di fronte alla barbarie, ma a una barbarie suprema, quella che corona e riassume la quotidianità di tutte le barbarie; che si tratta di nazismo, certo, ma che prima di esserne le
vittime ne siamo stati dei complici; che quel nazismo lo si è sostenuto prima di subirlo, lo si è assolto, si è chiuso un occhio, lo si è legittimato, perché, sino a quel momento, era stato esercitato con i popoli non europei; che quel nazismo lo si è alimentato, se ne è responsabili, e che sgorga, penetra, sgocciola, prima di inondare con le sue acque insanguinate tutte le fessure della civiltà occidentale e cristiana…”.

Il colonialismo di insediamento dello Stato di Israele si inserisce nella storia che, a partire dal 1492, contraddistingue il nostro mondo, la nostra civiltà. Non esiste una giornata della memoria sul colonialismo, nemmeno si immagina di parlarne, è come il quadro di Dorian Gray che deve rimanere nascosto sotto una tela, invisibile, ma che, una volta scoperto, mostra tutto il suo cuore di tenebra. In Occidente il colonialismo non è mai stato elaborato, mai guardato in faccia, mai davvero riconosciuto, al contrario sempre minimizzato, “gli abbiamo fatto le strade”, “italiani brava gente”, ecc. Questa è una delle ragioni per cui il nostro mondo mediatico-politico-accademico e militare non ce la fa proprio a dire la verità su Israele e le sue pratiche genocide. Anzi, ne è complice, a piene mani, naturalmente non solo per la ragione appena detta, vi sono consistenti motivazioni legate alla intensa collaborazione in diversi campi sensibili, sicurezza, controllo, sorveglianza, alta tecnologia, intelligenza artificiale e via dicendo. Insomma, la modernità, questo tipo di modernità e di progresso si sposa perfettamente con la guerra permanente. Vince il più forte, per gli altri lo spazio è ridotto.

Bene, questo spazio ridotto però non è vuoto, al contrario, per chi vuole guardare e ascoltare attentamente, empaticamente, è pieno della dignità del popolo palestinese, del suo orgoglio, della sua determinazione. Dignità, orgoglio, determinazione, come forma di lotta, di resistenza, di speranza dei popoli oppressi. Dice benissimo una compagna: “Chi vuole vedere una Palestina pacifica dovrà parlare prima di tutto di una Palestina libera”.

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L’intelligence Usa smonta le accuse all’UNRWA Onu di aiuto ai palestinesi – Piero Orteca

Fino a che punto sono vere le accuse di collusioni ‘terroristiche’ di organizzazioni umanitarie Onu con Hamas, avanzate dagli israeliani? Se lo è chiesto mezzo pianeta, perché l’agenzia dell’Onu sfama milioni di palestinesi e tagliarne i fondi può significare strage. E un documento dell’intelligence Usa critica la base delle accuse israeliane.
Intanto la situazione degli aiuti a Gaza è quasi al collasso. Nel nord della Striscia le consegne di aiuti sono bloccate e al sud ne arrivano sempre meno, anche a causa degli attacchi israeliani sui poliziotti che dovrebbero proteggere i camion

‘Onu complice di Hamas’ per colpire i profughi alla fame

Documento dei Servizi di Intelligence americani, reso noto ieri sera dal Guardian che, aprendo la sua edizione on-line, titola: «L’Intelligence statunitense ha scarsa fiducia in alcune delle affermazioni israeliane sull’UNRWA». Le accuse di Israele, secondo le quali «alcuni membri del personale dell’agenzia umanitaria dell’Onu, avrebbero partecipato all’attacco di Hamas del 7 ottobre». Non solo sostenitori di Hamas ma addirittura partecipi dell’azione armata. Troppo anche per le analisi dello spionaggio Usa decisamente amico. «Alcune delle accuse sono credibili, ma le affermazioni di legami più ampi con gruppi militanti non possono essere verificate in modo indipendente». Insomma, per dirlo chiaramente, mancano le prove.

E qui viene citato il Wall Street Journal, il primo organo di stampa a dare notizia del rapporto dei Servizi segreti americani sull’UNRWA, secondo cui Israele non si è sognato di condividere nemmeno con gli Stati Uniti, sollevando più di un sospetto.

Tutto segreto a nascondere cosa?

Il giornale finanziario Usa sostiene che «sebbene l’UNRWA si coordini con Hamas, per fornire aiuti e operare nella regione, mancano prove per suggerire che abbia collaborato con la fazione armata». Necessario ricordare che l’Hamas politica governava la Striscia dopo essere state eletta nel ruolo dei suoi cittadini. Diversa è la questione per i 12 dipendenti UNRWA direttamente accusati di ‘complicità nell’assalto’. ‘Complicità’ perché sapevano o perché hanno fatto? Anche in questo caso mancano le prove, anche se «in linea teorica le accuse sono credibili ma non si può confermare in modo indipendente la loro veridicità».

Teorema delle complicità palestinesi

Resta il fatto che l’Agenzia ha circa 30 mila dipendenti, di cui circa 12 mila operano nella sola Gaza. Estendere un teorema di complicità assoluta a tutta l’organizzazione, partendo da qualche decina di individui, sembra quantomeno azzardato. Oltre che umanamente devastante per milioni di palestinesi, privati da un giorno all’altro, dei beni più elementari per il soddisfacimento dei bisogni primari. Naturalmente, sembra inutile ricordarlo, i primi a tagliare gli aiuti all’UNRWA sono stati proprio gli americani. Seguiti immediatamente dopo da un pugno di ‘fedeli alleati’.

Pregiudizio israeliano verso l’Onu

L’analisi del Guardian si sofferma poi su un aspetto particolare, che emerge dal rapporto: il pregiudizio israeliano negativo nei confronti dell’agenzia dell’Onu, che opera a favore dei rifugiati palestinesi. «Il rapporto – scrive il Guardian – rivela l’antipatia di Israele nei confronti dell’UNRWA. C’è una sezione specifica che menziona come i pregiudizi israeliani servano a caratterizzare in modo errato gran parte delle loro valutazioni e afferma che ciò ha provocato distorsioni». La guerra contro quella specifica agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, da parte dello Stato ebraico, è vecchia. Ed è di principio…

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Il 7 ottobre e quelle accuse di parzialità – James North

Nuovi dubbi emergono sul servizio del New York Times riguardante i casi di violenza sessuale verificatisi durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre: il quotidiano deve a questo punto ai suoi lettori una spiegazione aperta e trasparente.

Ormai, quel resoconto sulla questione è divenuto talmente discutibile da suggerire alla testata di incaricare altri giornalisti per la ricostruzione dell’intera storia. I dubbi più recenti si concentrano su Anat Schwartz, israeliana coautrice di molti dei reportage a più ampia diffusione pubblicati dal quotidiano, compreso l’ormai noto articolo del 28 dicembre scorso dal titolo Screams Without Words’: How Hamas Weaponized Sexual Violence (Oct. 7).

Ricercatori indipendenti hanno esaminato attentamente una serie di documenti online sollevando seri dubbi sulla Schwartz. Innanzitutto, a quanto pare, non è mai stata giornalista reporter ma in realtà è una regista che il Times ha sorprendentemente assunto nell’ottobre scorso. Sarebbe lecito pensare che il quotidiano fosse alla ricerca di qualcuno con consolidata esperienza giornalistica, dovendo affrontare una storia delicata come quella in questione da produrre in mezzo alle nebbie di una guerra in corso. Di certo, la testata disponeva di corrispondenti già presenti nella sua redazione che avrebbero potuto essere assegnati al caso.

Ancora, i ricercatori hanno scoperto come la Schwartz non avesse fatto mistero dei suoi forti orientamenti personali, espressi su social. Sono stati ripresi degli screenshot testimonianti i suoi “like” espressi in post proponenti la bufala dei “40 bambini decapitati” o in cui si esortava l’esercito israeliano a “trasformare Gaza in un mattatoio”, definendo i palestinesi “animali umani”…

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ISRAELE: MASADA 2024? – Julian Macfarlane

Per gli israeliani moderni l’assedio di Masada rappresenta l’eroismo ebraico, una pietra miliare dell’identità nazionale, un’eroica “ultima resistenza” per Israele. Secondo la storia, gli eroici difensori della roccaforte resistettero ai Romani per tre anni e alla fine si suicidarono piuttosto che accettare la sconfitta. Morale: Israele non può essere sconfitto.

I soldati arruolati nelle Forze di Difesa israeliane prestano giuramento: “Masada non cadrà più“.

La storia di Masada prese piede negli anni Trenta, quando un archeologo israeliano di nome Shmaryahu Gutman iniziò a organizzare escursioni a Masada per le organizzazioni giovanili, al fine di promuovere il sionismo. Nel 1948 Masada era diventata una pietra miliare dell’identità nazionale,

Il problema è che, sebbene Masada esista oggi come sito archeologico, la storia è un mito. Non ci sono prove che sia accaduto, almeno non come ci viene raccontato.

Se c’è stato un assedio di Masada, probabilmente è durato solo sei settimane. Non ci sono prove di un suicidio o di un massacro – sono stati recuperati pochissimi scheletri dal sito. I difensori del sito erano Sicarii , una milizia semi-religiosa che utilizzava i profitti di rapine, omicidi su commissione e rapimenti per sostenere una vaga ideologia messianica: non erano nazionalisti ebrei né particolarmente anti-romani, ma solo speranzosi di ottenere il potere.

Inoltre:

“L’ebraismo ritiene che la vita sia il più alto valore umano e che non sia mai senza speranza, anche quando è difficile o tragica. L’ebraismo considera l’omicidio e il suicidio come peccati terribili.”

La legge ebraica è abbastanza chiara.

A pensarci bene, forse Masada e i Sicarii sono i simboli di Israele oggi. Il complesso di Masada in Israele ci dice più di quanto i sionisti vogliano ammettere.

Israele è ebreo?

I sionisti sono gli ultimi Sicarii. Ad ogni passo, infrangono la legge ebraica.

In questo anniversario dell’Olocausto, è chiaro che queste persone hanno la stessa mente sanguinaria dei loro predecessori dell’Impero Romano, sono intolleranti e sfruttatori e vogliono superare sotto ogni aspetto non solo loro, ma anche i nazisti di Hitler.

È anche sempre più evidente che Israele vuole la guerra in Medio Oriente – anche se ciò finirebbe con la distruzione di Israele – non che i leader del Paese non continuerebbero a vivere e prosperare, come presumibilmente fecero i Sicarii.

Israele sembra volere la guerra con tutti.

In questo momento, i sionisti stanno ammassando forze e facendo preparativi per attaccare Rafah, al confine con l’Egitto, il che potrebbe portare a un confronto militare con l’Egitto.

Sisi non è abbastanza forte per opporsi alle pressioni dell’opinione pubblica – e i suoi generali devono temere una nuova generazione di giovani ufficiali che, se non sono stanchi della corruzione di cui sopra, almeno vogliono una fetta della torta.

Tattiche nazi-sioniste

Israele si sta preparando alla guerra con il Libano, cioè con Hezbollah.

Il 14 febbraio ha attaccato i civili nel sud del Libano come rappresaglia per l’attacco di Hezbollah a una base vicino alla città israeliana settentrionale di Safad, uccidendo un soldato e ferendone altri sei.

Quando i suoi soldati muoiono, Israele uccide donne e bambini innocenti. È esattamente quello che facevano i nazisti nell’Europa occupata. La mentalità è la stessa…

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Gli Usa contro l’Onu: Israele non deve ritirarsi dai Territori occupati nel 1967 – Andrea Puccio

Il governo degli Stati Uniti ha dichiarato mercoledì alla Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) dell’Aia che la presenza delle forze israeliane nelle terre palestinesi non dovrebbe essere messa in discussione.

“La corte non dovrebbe considerare che Israele è legalmente obbligato a ritirarsi immediatamente e incondizionatamente dal territorio occupato”, ha detto Richard Visek, consulente legale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

Secondo le parole del funzionario statunitense “qualsiasi mossa sul ritiro di Israele dalla Cisgiordania e da Gaza richiede la considerazione delle esigenze di sicurezza reali di Israele”. Visek ha sostenuto che l’attacco di Hamas al paese ebraico, che ha avuto luogo il 7 ottobre, “ci ha ricordato tutte queste esigenze di sicurezza”.

Queste dichiarazioni sono state rilasciate durante l’udienza tenutasi sulle conseguenze giuridiche dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi dal 1967. Questa udienza, che è iniziata lunedì e durerà una settimana, si svolge a seguito di una richiesta di “opinione consultiva” che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha fatto alla CIJ nel dicembre 2022.

Israele ha dichiarato all’epoca che qualsiasi sentenza del tribunale sarebbe stata “assolutamente illegittima”. Nonostante questo, ci sono già 52 paesi che hanno espresso le loro opinioni sull’occupazione israeliana: la maggior parte di loro ha chiesto la sua fine.

A seguito delle dichiarazioni espresse dal governo statunitense il ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki ha affermato che non c’è nessuna novità nella posizione di Washington. “Abbiamo provato altri forum negli ultimi 75 anni e abbiamo affrontato il veto e l’egemonia degli Stati Uniti sui processi decisionali all’interno del sistema delle Nazioni Unite”, ha notato, facendo riferimento alle richieste di Washington che il conflitto palestinese-israeliano dovrebbe essere affrontato in altri forum.

Va notato che questo caso si concentra sull’occupazione israeliana della Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est dal 1967 ed è indipendente dalla denuncia di genocidio che il Sudafrica ha presentato alla CIJ contro Israele per le presunte violazioni dei diritti umani perpetrate durante le sue operazioni militari nella Striscia di Gaza.

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Per una pace ingiusta – Raniero La Valle

Credo che dobbiamo alzare il livello di coscienza riguardo alla tragedia in atto a Gaza. La guerra di Gaza è di fatto una radiografia della situazione mondiale, è una confessione sullo stato del mondo.

L’evento di Gaza non è una guerra, ma è un genocidio, e come tale rappresenta il punto di caduta della nuova concezione della guerra quale è stata adottata a partire dalle scelte strategiche sulla sicurezza compiute degli Stati Uniti dopo gli attentati alle Torri gemelle dell’undici settembre 2001. In quel frangente veniva affermato che non era più sufficiente la dissuasione dall’aggressione affidata alla potenza militare pronta all’uso e fornita di armi di distruzione di massa: questo non bastava più, una tale strategia veniva considerata ormai insufficiente a garantire la sicurezza. Veniva adottata invece la dottrina della prevenzione basata sul fatto che “la migliore difesa e l’offesa”, che “non si poteva permettere agli avversari di sparare per primi”, che occorreva un’azione “anticipatoria persino nell’incertezza del luogo e dell’ora dell’attacco da parte dei nemici”. Nei documenti del 12 ottobre 2022 firmati da Biden e dal capo del Pentagono, Loyd Austin, la difesa veniva fatta consistere nella “competizione strategica” per il dominio, dove l’ultimo nemico da abbattere, entro il decennio, era considerata la Cina. Ed è sulla base di questa concezione della “difesa” che ora il segretario di Stato americano Blinken offre una completa copertura ad Israele per la sua guerra ad oltranza contro Hamas.

È come se avessimo perduto la lezione non solo della Shoà, ma di tutta la seconda guerra mondiale con i suoi 60 o 70 milioni di morti. Se a Gaza su una popolazione di 2 milioni e duecentomila abitanti siamo arrivati a decine di migliaia di morti e feriti e un’intera compagine etnica estirpata e distrutta, che cosa sarà mai quando si giungerà a colpire l’obiettivo finale, come il Corriere della Sera chiama il nemico ucciso, rappresentato da un miliardo e 400 milioni di cinesi?

Ebbene, la strage in corso a Gaza dimostra che con tale impostazione ogni guerra diventa un genocidio. Se infatti nella discrezionale percezione della minaccia l’imperativo nazionale della sicurezza è quello della prevenzione, la certezza del raggiungimento dell’obiettivo sta solo nella distruzione anche fisica dell’avversario.

Questo vuol dire che i mezzi tradizionali per porre termine alle guerre non funzionano più. Ormai c’è una sola uscita dalla guerra, che non è la vittoria, ma la riconciliazione. Questa è la vera risposta all’erompere della crisi di Gaza: la riconciliazione tra ebrei e palestinesi, ma anche di palestinesi ed arabi con i fratelli semiti del popolo ebreo della diaspora. Come si fa? Non con le armi, ma nemmeno solo col diritto patrocinato dall’ONU. Ci vuole la pace, ma non una pace assoluta come sono accusati di volere i pacifisti, ci vuole una pace anche imperfetta, relativa, non una giusta pace, ma ci vuole una ingiusta pace. Perché è chiaro che oggi una pace fatta in queste condizioni sarebbe una pace ingiusta per i palestinesi, ma anche per i coloni, che pensavano di avercela fatta con i loro insediamenti, sarebbe una pace ingiusta perché ancora non in condizioni di costituire i due Stati per i due popoli, sarebbe ingiusta perché non sarebbe in grado di garantire, contro il dr. Stranamore di turno, l’astensione dall’uso dell’atomica e la pace nel mondo. Eppure questa pace ingiusta è l’unica che oggi può salvarci, come ci ha salvato durante la guerra fredda. Una riconciliazione tra palestinesi e israeliani che renda possibile la loro convivenza in un’unica terra non è oggi una iperbole umanitaria né una opzione del buon cuore ma è una soluzione politica, l’unica soluzione politica che finalmente dopo una notte durata più di settant’anni possa porre termine alla tragedia palestinese e anche nostra.

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“A Gaza l’imperatore è nudo, la sua malevolenza è chiara. Chi tace è complice”

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese-americana nata in Kuwait da genitori resi profughi dalla Guerra dei sei giorni. Da bambina ha vissuto in un orfanotrofio di Gerusalemme prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove vive tutt’oggi. Attivista per i diritti umani, è saggista, scrittrice, poetessa oltre che fondatrice di un’organizzazione non governativa, Playgrounds for Palestine, che costruisce parchi giochi in Palestina e nei campi profughi in Libano. È inoltre coinvolta nella campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (Bds) ed è relatrice per Al Awda, la coalizione per il diritto al ritorno.

Il suo primo romanzo, “Ogni mattina a Jenin” (Feltrinelli, 2006), è stato tradotto in 32 lingue e ha venduto più di un milione di copie rendendo Abulhawa l’autrice palestinese più letta di sempre. Quel romanzo è riuscito a colmare il vuoto, lamentato da Edward Said, di un’opera letteraria capace di rappresentare -soprattutto su un pubblico occidentale- la tragedia sofferta da diverse generazioni di palestinesi a partire dal 1948, anno della costituzione di Israele, a oggi. Per Abulhawa il romanzo rappresenta un potente mezzo di decolonizzazione e su questa direttrice interpreta la motivazione di autori come James Baldwin e Tina Morrison sull’immaginario della tradizione letteraria araba di autori come Ghassan Kanafani e Elias Khoury.

Da attivista, nel corso degli anni, sempre in chiave decolonizzante, ha esortato i palestinesi a ricambiare la solidarietà ricevuta sottraendosi a una dialettica esclusivamente euro-anglocentrica, ritenendo le lotte indigene e per la giustizia sociale più forti e autorevoli se condotte insieme, in quanto la liberazione si raggiunge in modo più completo quando si è impegnati in quella degli altri. L’impegno del Sudafrica, che ha intentato la causa per genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia al di fuori di alleanze meramente geopolitiche, sembra darle pienamente ragione.

Abbiamo intervistato Susan Abulhawa dopo quattro mesi di guerra, mentre il governo israeliano di Benjamin Netanyahu respingeva la proposta avanzata da Hamas di 135 giorni di tregua con scambio reciproco di prigionieri in vista di un accordo per porre fine alla guerra. Hamas aveva anche chiesto che durante la tregua l’esercito israeliano si ritirasse completamente dalla Striscia di Gaza, proposta giudicata inaccettabile dall’esecutivo di Tel Aviv. Nello stesso giorno il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha lasciato il Medio Oriente spiegando alla stampa che Israele non ha “la licenza per disumanizzare gli altri”. Dal 7 ottobre le vittime palestinesi sono oltre 28.400 e 60mila i feriti.

In “Ogni mattina a Jenin” la biografia di Amal e della sua famiglia condensa tutta la storia contemporanea della Palestina: la guerra, l’esilio, l’appropriazione della terra, il divenire rifugiati. La strategia di Israele su Gaza dopo il 7 ottobre sembra riprodurre tutti questi eventi nella quiescenza delle potenze occidentali, alcune delle quali hanno anche revocato il sostegno all’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite che assiste i rifugiati palestinesi. Come giudica il comportamento di Israele e degli Stati occidentali, Italia compresa?
SA
 Non c’è nulla di complicato in questa formula. Fin dalla sua nascita, Israele è stato un’iniziativa coloniale genocida nata in Europa tra le élite di ebrei europei che volevano accaparrarsi una fetta della torta coloniale. Indipendentemente dalle loro ragioni, che si tratti di una risposta all’antisemitismo o di semplice avidità, resta il fatto che sono degli stranieri venuti in Palestina con l’intento di allontanare gli indigeni dalla terra e rubare loro tutto quello che avevano. Questi sono i fatti. La narrazione biblica romanticizzata è pura fantasia che non ha alcuna rilevanza nella realtà o nella testimonianza storica e forense. Siamo un popolo indigeno che lotta per liberarsi da questo stato di apartheid basato sulla supremazia ebraica fascista e la storia ci darà ragione. Ci rifiutiamo di andare incontro al destino di altri popoli indigeni del mondo che sono stati vittime di genocidio, spinti ai margini delle loro terre d’origine, delle loro storie e del loro patrimonio. Gli Stati Uniti e gli altri alleati di questo Stato sionista fascista sono stati smascherati per quello che sono: dei mostri imperialisti. Abbiamo sempre saputo che le loro infinite guerre contro l’“altro” non avevano nulla a che vedere con gli alti ideali della democrazia e dei diritti umani. Ma ora l’imperatore è nudo, la loro malevolenza è chiara, affinché tutto il mondo possa vederla sullo sfondo di un genocidio trasmesso in live streaming

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Negoziati inconcludenti per avere in tempo di fare le cose peggiori – Eric Salerno

«Negoziare è già un successo ma non so se centinaia di migliaia di palestinesi nei campi profughi allestiti in fretta e furia a Rafah e dintorni, l’estremo sud della striscia di Gaza, valutano i colloqui in corso a Doha, in Qatar, nella stessa maniera». Eric Salerno, così la racconta in America, ‘La Voce di New York’, (The First Italian English Digital Daily in the US), senza fare sconti neppure ai principali e imbarazzati alleati dell’indecente Netanyahu. Che insiste: ‘la guerra finirà solo con la distruzione di Hamas‘. Cioè mai.

80 anni per riparare i danni

Le cronache quotidiane raccontano di decessi (i feriti non fanno notizia anche se gravi), di bambini affamati e resi orfani dei bombardamenti israeliani (anche di loro si parla poco ormai), di case distrutte, di un futuro incerto. Una delle tante organizzazioni umanitarie che si occupano della striscia calcola che con uno sforzo enorme – soldi e volontà- se la guerra finisse domani si potrebbe riparare i ‘danni’ entro la fine del secolo: ottanta anni più o meno da oggi.

Tregua, ostaggi, Stato palestinese? Rischio del futuro del mai

Ci sarà una tregua? Ci sarà il rilascio degli ostaggi ebrei e dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane? Si otterranno le basi per la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele? Gli occhi di mezzo mondo guardano a Doha e ascoltano le dichiarazioni dei tanti protagonisti del mercanteggiamento da souk mediorientale. Le cose vanno nella direzione giusta, dice qualcuno. Assolutamente no, ribattono altri.

Ottimismo o pessimismo, bugie di convenienza

Ieri un alto funzionario di Hamas ha detto alla tv Al Jazeera in Qatar che «l’atmosfera di ottimismo, come se ci fosse un riavvicinamento per un accordo di scambio di prigionieri, non riflette la realtà». Secondo lui, il primo ministro israeliano Netanyahu non vuole nemmeno prendere in considerazione le principali richieste di Hamas: la cessazione dei combattimenti, il ritiro completo delle forze israeliane e il ritorno degli sfollati nel nord della Striscia di Gaza.

«La continua uccisione del popolo palestinese per fame nel nord della Striscia di Gaza è un crimine di distruzione di massa e minaccia l’intero processo di negoziati».

Se non esiste la volontà di un accordo

Tradizionalmente un negoziato avviene tra le persone interessate a raggiungere un accordo, a comprare un prodotto. Nel grande mercato – vita o morte – in corso, i diretti protagonisti – il governo d’Israele e Hamas – devono guardare alle pressioni dei popoli che rappresentano e anche alle pressioni esterne dei paesi mossi da altri interessi e che vanno dall’impatto economico del loro conflitto alla possibilità sempre più vicina che possa provocare un’estensione della guerra a tutta la regione e anche oltre.

In Qatar per distrarre delle ferocie

Netanyahu, sostenendo molti a Tel Aviv, ha scelto di mandare qualcuno in Qatar non tanto perché gli sta bene il negoziato sulla guerra ma perché sotto le pressioni crescenti dei parenti degli ostaggi che vogliono la loro liberazione. Hamas, dall’altra parte, vuole guadagnare non soltanto la propria sopravvivenza politica ma anche perché sente montare la rabbia dei palestinesi che stanno pagando per l’azione terroristica contro la popolazione civile israeliana.

La ‘palla bomba’ in campo avversario

La delegazione israeliana è andata in Qatar con un pacchetto di proposte-idee concordate a Parigi e approvate a Tel Aviv annunciando che «ora la palla è nel campo di Hamas». A giudicare dalle anticipazioni, le proposte israeliane concordano poco con le richieste di Hamas e il governo di estrema destra di Netanyahu approfitta di questi giorni non solo per andare avanti con l’attività militare a Gaza ma anche per continuare a ritmo accelerato la colonizzazione della Cisgiordania…

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Il rogo del soldato Aaron Bushnell per far finire il massacro di Gaza – Tommaso Di Francesco

‘Palestina libera’, cosa da pazzi

Aaron Bushnell aveva 25 anni. Era un soldato dell’aeronautica Usa. E proprio nelle stesse ore in cui i suoi commilitoni sono impegnati ad agganciare bombe ai jet che decollano dalle portaerei per bombardare qui e là, gli Houthi in Yemen, i pasdaran in Siria e i sunniti in Iraq – mobilitati in armi per ridurre la ‘pressione’ israeliana che fa strage a Gaza -, ha portato a termine un gesto così eclatante e fuori da ogni codice amico/nemico che subito si cerca di silenziarlo o ridimensionarlo a «fattore psichico» – certo, volere la Palestina libera è cosa da pazzi.

Altri episodi simili prima

Non è la prima volta che accade, un giovane americano si era già dato fuoco nel 1991 contro la guerra in Iraq e a dicembre 2023 un altro aveva fatto lo stesso ad Atlanta. Ma Aaron si è messo la divisa militare e così è andato verso l’ambasciata israeliana a Washington annunciando sui social l’intenzione di «non volere essere più complice del genocidio» e di essere pronto ad una «estrema protesta che – ha detto – se si guarda alle sofferenze della gente di Gaza per mano dei suoi colonizzatori è tutt’altro che estrema».

«Free Palestina» tra le fiamme

Poi è arrivato davanti all’ambasciata senza destare sospetti con la divisa militare Usa, si è messo il berretto d’ordinanza come fosse in parata, e dalla borraccia che teneva in mano si è cosparso il corpo di liquido infiammabile. Infine ha tirato fuori l’immancabile Zippo – quante volte nei film americani abbiamo visto questo gesto routinario, quasi un tic, associato alla normalità «gloriosa» della guerra? – ha rollato la pietra focaia. E, mentre un agente gli puntava una inutile pistola contro, si è dato fuoco gridando ripetutamente finché non è morto: «Free Palestina».

Come i monaci buddisti di Saigon, a fine anni Sessanta contro la guerra Usa in Vietnam, come Jan Palach contro la normalizzazione della Primavera di Praga.

Come fermare il massacro di Gaza?

Dovremmo, come allora, gridare le parole che invocò il poeta Jaroslav Seifert «Voi che siete risoluti a morire, fermatevi…». Perché ci deve essere un altro modo per fermare il massacro a Gaza. Ma quale? Aaron con il suo coraggio estremo manda un messaggio diretto all’Amministrazione Biden che mette il veto all’Onu per un cessate i fuoco; che nega l’evidenza del «plausibile genocidio» con cui la Corte dell’Aja manda alla sbarra Israele come imputato; che dissimula perfino la verità sui territori occupati palestinesi; che sospende gli aiuti all’Unrwa-Onu l’unico organismo che soccorre i palestinesi da 75 anni; e che, con il codazzo servile anche dell’Italia, avvia una nuova guerra, in Yemen, senza vedere che quel conflitto nasce per reazione alla strage in corso a Gaza. Dovrebbe finire quella non accenderne un’altra.

Aaron non ha creduto alla bugie di Biden

Ci rendiamo conto che siamo fuori dal «giornalismo corrente», quello che le notizie vere le nasconde, perché ora tutti ci dicono che c’è l’accordo Hamas-Israele, così tanto per accontentare la diplomazia dei vincitori, quella che ha lasciato fare a Netanyahu l’impari massacro di vendetta per la strage del 7 ottobre. Aaron non si è fidato degli annunci, sapeva di certo che, vista la disparità delle forze e le devastazioni indiscriminate della Striscia, la litania di morti civili non finirà purtroppo con le finte strette di mano dei potenti.

Nello Spoon River con migliaia di palestinesi uccisi

Così ha voluto inscrivere la sua giovane vita, il suo corpo straziato nello Spoon River delle migliaia di civili palestinesi uccisi, finiti nelle fosse comuni. Che lezione anche per i governanti – e non solo – di questo nostro, piccolo ex Belpaese che reprime chi scende in piazza e grida «Free Palestina».

da qui

 

 

Aaron Bushnell e il sacrificio di fuoco – Giulia Bertotto

Aaron Bushnell è il nome del soldato dell’aeronautica americana che si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington, deceduto per le ustioni riportate. Il militare è arrivato davanti all’ambasciata israeliana senza destare sospetti con la divisa militare Usa, si è messo il berretto d’ordinanza, e dalla borraccia che teneva in mano si è cosparso il corpo di liquido infiammabile. Aveva 25 anni e si è filmato mentre gridava tra le fiamme “Free Palestine” davanti al palazzo istituzionale. Nel video l’uomo aveva dichiarato: “Non sarò più complice del genocidio”, prima di aggiungere che il suo gesto è un atto estremo di protesta ma è ben poco rispetto alla sofferenza dei palestinesi.

“Non è la prima volta che accade, un giovane americano si era già dato fuoco nel 1991 contro la guerra in Iraq e a dicembre 2023 un altro aveva fatto lo stesso ad Atlanta”, scrive il Manifesto[1]. Ma mentre i giornali hanno parlato a malapena del suo gesto, sui social è scattato il tam tam dei commenti: eroismo o follia? Un martire o un disperato? Non c’è una risposta univoca, non c’è una risposta che colga il mistero dell’essere umano che si dà la morte per non portare la morte.

La psichiatria intanto deve fare il suo lavoro; indaga il fattore traumatico, le ragioni personali, le istanze dell’inconscio, un eventuale senso di colpa famigliare e una punizione auto-inflitta, la vulnerabilità emotiva individuale. Mentre la filosofia esamina le ragioni collettive profonde, l’archetipo del sacrificio di sé e del fuoco e il suo legame con il sacro. Il fuoco è in tutte le culture elemento della purificazione, divide definitivamente ciò che è male da ciò che è bene.

Fuoco castigatore, fuoco purificatore

Secondo i miti più antichi, il fuoco ha origine divina, per questo gli uomini lo hanno dovuto rubare agli dei attraverso la figura del titano Prometeo. Un atto di infrazione che rappresenta la presa di coscienza sull’esistenza e su se stesso da parte dell’uomo, come nella metafora del morso della mela. Il fuoco consegna la luce della ragione e al contempo polverizza ogni umana ambizione, incenerisce ogni tracotanza. La fenice egizia, icona del ciclo di morte e rinascita, risorge dalle sue ceneri. In tutte le cosmogonie vediamo la presenza ancestrale di quattro elementi dal cui impasto primordiale emergono tutte le cose: acqua, terra, aria e fuoco. Il fuoco è accompagnatore del rituale ed è esso stesso oggetto di culto. Per lo più associato al maschile, punta verso l’alto, mentre l’acqua suo opposto femminile va verso il basso…

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Biennale di Venezia. 9 Mila artisti chiedono l’esclusione di Israele

Più di 8.700 artisti e operatori culturali hanno chiesto l’esclusione di Israele dalla partecipazione al più grande evento artistico del mondo, la Biennale di Venezia, per il suo genocidio ai danni dei palestinesi nella Striscia di Gaza. La Biennale di Venezia, spesso definita le “Olimpiadi del mondo dell’arte” in quanto vanta una lunga storia nel presentare talenti provenienti da tutto il mondo, inaugura il 20 aprile la sua sessantesima Esposizione Internazionale d’Arte.

Il gruppo Art Not Genocide Alliance (ANGA) ha pubblicato, ieri, una lettera aperta firmata dai partecipanti passati e prossimi della Biennale di Venezia in cui condannano la partecipazione di Israele all’evento.

Nella petizione i firmatari sottolineano che “qualsiasi rappresentanza ufficiale di Israele sulla scena culturale internazionale è un’approvazione delle sue politiche e del genocidio di Gaza”, avvertendo che “La Biennale sta promuovendo uno Stato di apartheid genocida”

Israele ha un padiglione nazionale ai Giardini, il parco dove si svolge il festival biennale d’arte, insieme a 28 paesi.

La petizione ha definito l’atto di consentire a Israele di far parte della Biennale come un “doppio standard”, sostenendo che l’organizzazione ha escluso il Sud Africa durante l’era dell’apartheid e la Russia nel 2022 durante l’inizio del conflitto Ucraina-Russia.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

Un commento

  • Domenico Stimolo

    Gaza, nuova Stalingrado?

    A vedere le scene girate dai droni sulla recentissima strage consumata a Gaza pochi giorni addietro dall’ esercito di Israele , che ha provocato tra i civili oltre 120 morti e piu’ di 700 feriti, un ” confronto” mi e’ sorto spontaneo .
    Ovviamente non c’ e’ nessuna correlazione di carattere storiografico o similudine pseudo ideologica.
    Sono due eventi con caratteristiche strutturalmente diversi.
    Non serve farne sunto.
    Mi riferisco alla drammatica questione che riguarda i civili; ieri a Stalingrado, oggi a Gaza.
    Infatti, nelle due battaglie, sono i civili che hanno subito /subiscono le piu’ tragiche conseguenze.
    A Stalingrado ( il nome poi e’ mutato in Volgograd ) nel corso della battaglia ( tra l’estate del 1942 e l’ inizio febbraio 1943) combattuta tra gli invasori (tedeschi, italiani, rumeni e ungheresi) e l’ esercito dell’ Unione Sovietica, tra morti, prigionieri e dispersi, da ambo le parti , su tutti i grandi fronti territoriali dell’ area di Stalingrado , il complessivo assmomò a circa 1,5 milioni, quasi un milione i feriti da ambo le parti .
    Nel contesto della citta’ i due eserciti ebbero oltre 100.000 morti.
    Poi ci sono i civili, le stime arrivano anche a molte centinaia di migliaia tra morti, feriti e per fame.
    A GAZA in quasi cinque mesi i civili morti, feriti, mutilati, dispersi sotto le macerie sono ormai ben oltre 100.000 su una popolazione complessiva di circa due milioni.
    Inoltre, come gia’ a Stalingrado, anche a Gaza gran parte della popolazione soffre la fame strutturale, mancanza di acqua potabile, e condizioni igieniche e di vita totalmente disastrose .
    Se si guardano i filmati di ieri della citta’ russa, e di Gaza oggi, le ” sembianze” sono identiche: le due citta’ sono totalmente ridotte a immane macerie.

    Il passato ritorna sempre, con altre sembianze…” ammodernate”.

    Per approfondimento di lettura:
    https://www.ibs.it/battaglia-di-stalingrado-racconto-del-libro-vasili-ciuikov/e/9788866970026

    Rai cultura
    https://www.google.com/amp/s/www.raicultura.it/amp/storia/articoli/2019/01/La-battaglia-di-Stalingrado-9f278b0e-eaad-4d36-b15b-980fbd5f1be2.html

    ( d.s.)

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