Il paradosso della poesia – di Mark Adin

Una cara amica insegnante mi ha toccato nel profondo con la lettura di  sorprendenti componimenti di un suo allievo, che chiamerò per convenzione Giovannino, facendomi conoscere un giovane talento letterario insieme alle sue gravi difficoltà familiari e relazionali che pare abbisognerebbero di interventi.

A caldo ho voluto buttar lì ciò che pensavo, ovvero l’auspicio, mi rendo conto un po’ sulfureo e oscuro, che “assistenti sociali o neuropsichiatri infantili non lo rovinino”. Sul momento non ho avuto occasione di precisare quanto detto. Lo faccio qui e ora.

Per aiutarmi nel ragionamento consiglio il numero speciale della rivista “Poesia”, Crocetti Editore, nella quale sono pubblicate, in forma sintetica, le biografie di cento poeti. Se si vorrà sfogliarne le pagine, si troverà un denominatore comune nelle maggioranza delle vite di questi grandi: uno o più fatti personali drammatici che ne hanno turbato profondamente l’esistenza. Proprio come è accaduto o sta accadendo e forse accadrà ancora a Giovannino.

Penso che la poesia provenga dall’anima, spesso dalla sensibilità che si conquista per mezzo di una ferita che ci segna. Tutti, da bambini, ci siamo sbucciati un gomito o un ginocchio cadendo a terra. Dovremmo quindi ricordare che su quella abrasione, pur superficiale, persino un soffio produceva dolore, quella parte del nostro corpo era diventata, per via della caduta, molto più sensibile di altre. E’ da un siffatto tipo di sensibilità che, a volte, sgorga la poesia. Certo, ci vuole anche la conoscenza dello strumento delle buone lettere per arrivare a un grande risultato, anzi, potrebbe di per sè essere sufficiente, ma è soprattutto una sensibilità ipertrofica a determinare la forza della poesia, a temperarla.

Si sa: poeti veri, grandi poetesse, non nascono come i funghi, forse proprio perché ci vogliono diversi ingredienti: talento, senso del ritmo e dell’armonia, capacità di scrittura. E l’eccellenza è  davvero un fatto raro. Mi chiedo però se non si dovrebbero considerare, tutte queste abilità menzionate, soltanto come accessorie al prerequisito fondamentale: la straordinaria ipersensibilità che nasce dal dolore (per una perdita, per una malattia, per la morte di una persona amata; dal maltrattamento, dalla carcerazione, da una sessualità che non può o non riesce ad esprimersi, a volte persino dalla vicinanza a una persona che soffre; dal misticismo, dalla droga, dalla pazzia, da ogni tipo di abisso o comunque di condizione che si potrebbe rozzamente definire di “a-normalità”).

Anche Giovannino mostra, accanto al talento poetico, le sue chiare, gravi difficoltà nel patire la durezza del contesto in cui vive, i suoi atteggiamenti forse psicotici .

A seguire, dunque, il paradosso (e raccomando di considerarlo tale).

Temo molto l’intervento di chi, non perseguendo l’obiettivo di far crescere la sua capacità versificatoria, si prodiga professionalmente nel “normalizzare” le sue relazioni sociali, nell’attenuarne le difficoltà.

Il compito di un assistente sociale o di uno psicologo, infatti, è proprio “guarire” la malattia mentale o ripristinare normali relazioni affettive. Questo è il loro lavoro, questa è la loro missione, e si badi che ci riescono, a volte, soltanto i più bravi. Sono pagati per questo, è il loro ruolo professionale ed è giusto che lo assolvano. Nulla da ridire.

Guariscono la ferita e ammazzano la poesia.

Lo so, è piuttosto crudele chiedersi se la Merini, senza gli elettroshock, sarebbe stata la Merini, così Pasolini senza i suoi abissi, e Trakl senza l’incesto della sorella, e Ungaretti senza i morti in trincea, e Garcia Lorca senza la sua omosessualità, e Baudelaire senza la droga, e Pavese senza l’angoscia di morte, eccetera eccetera eccetera.

La poesia, quella alta, “è” la malattia, per questo la cura la uccide.

Un po’ come certi medicinali che finiscono per essere letali: malattia sconfitta e paziente morto.

Non so davvero cosa augurare a Giovannino, la remissione dei suoi disagi o la disciplina del verso?

Da guarito potrebbe fare il disoccupato, da malato potrebbe diventare un grande poeta: bizzarrie della vita.

Naturalmente, il più delle volte, è il destino a decidere, e questo libera tutti da ogni responsabilità. Non c’è, dunque, di che preoccuparsi.

Buona fortuna, Giovannino!

Mark Adin

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Redazione
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4 commenti

  • Il poeta come il ramo distorto del melo, che dà i frutti migliori. Però caro Mark, ci offri l’aperitivo e poi ci fai saltare il pranzo. Ora ho fame di leggere la poesia di Giovannino.

  • Sono d’accordo con Carlo : ora ci hai incuriositi!!! Per quanto riguarda il dilemma : malattia o poesia ti parlo con l’esperienza che ho fatto per anni nelle mani di psicologi e psichiatri ( BRAVI ) ,non sempre lo star meglio uccide l’animo. Parere del tutto personale.

    • Concordo e rilancio. La cura vera non solo non elimina la poesia ma puo’ aumentarla. La sensibilita’ non ha bisogno di ferite per palesarsi, benche’ le ferite siano talora produttrici di sensibilita’.

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