Il ruolo dei movimenti nella sconfitta di Trump

di Gianluca Cicinelli.

A seguire la presentazione del nuovo libro di Sandro Portelli e un video sul voto dei nativi

 
E’ incredibile il disprezzo per i movimenti di lotta che esprimono alcuni “rivoluzionari” sostenitori della tesi che Trump e Biden sono due facce della stessa medaglia. Certo, è sempre più dignitoso per l’intelletto che considerare un miliardario truffatore, razzista e fascista oltre che iperliberista (“non ha fatto guerre” suona un po’ come il nostro locale “ha fatto anche cose buone”) come il difensore del popolo contro il
new order mondiale. Ma è comunque una posizione che va combattuta da chi pensa alla politica come uno scontro per migliorare la vita dei ceti meno abbienti. Soprattutto perché basata su una falsa rappresentazione della realtà.
Dalla crisi finanziaria del 2008 gli statunitensi hanno riscoperto il potere della protesta, del momento di rottura con le convenzioni perbeniste per far sentire la propria voce. Va ricordato, ai socialcomunisti per Trump, che il paladino della lotta al
new order aveva promesso, fra le altre cose, di costringere i musulmani a registrarsi, di abrogare la legge sull’assistenza sanitaria di Obama che aiuta circa 20 milioni di persone a ottenere un’assicurazione sanitaria, di ridurre (lo ha poi fatto) dal 35 al 21% le tasse per le imprese… oltre a essere accusato da ben tredici donne di stupro. Al netto dell’odio sparso per il Paese. Per questi motivi già il 10 novembre 2016, il giorno dopo l’elezione di Trump, sono cominciate le marce di protesta a New York, Chicago, Seattle, Oakland, Boston, Portland, Philadelphia, Richmond, Dallas, Atlanta, St.Paul, Pittsburgh e molte altre città statunitensi. Decine di migliaia di persone, proteste spontanee e non organizzate da subito hanno combattuto Trump per i diritti umani calpestati (https://www.rollingstone.com/…/why-anti-trump-protests-mat…/). Il 21 gennaio 2017 milioni di persone aderirono alla Women’s March contro Trump.
Il
Washington Post ci racconta (https://www.washingtonpost.com/…/one-year-after-the-womens…/) che da quel giorno al 31 dicembre dello stesso anno furono 8700 le manifestazioni contro Trump negli Usa.
Questioni generali e locali che hanno visto i cittadini in marcia non soltanto contro l’amministrazione del miliardario eversivo ma anche contro i dirigenti dei Democratici che tentavano di anestetizzare le proteste. Blocchi degli aeroporti contro la proposta di Trump di impedire l’immigrazione verso gli Usa, la Marcia per la Scienza, la Marcia per la Verità, le Marce dell’Orgoglio Lgbtq, proteste e manifestazioni per proteggere l’Affordable Care Act (*), raduni contro la violenza della supremazia bianca a Charlottesville, iniziative contro la legge fiscale dei repubblicani che favorisce i ricchi.
Il più alto numero di manifestazioni anti Trump si è concentrato in Texas (401), in Pennsylvania, 387, e Florida (379). Sono gli Stati in cui due anni prima Trump aveva vinto le elezioni a mani basse. Persino in Alaska ci sono state 96 mobilitazioni contro Trump soltanto nel 2017. Ogni manifestazione ed evento pubblico a favore di Trump ha visto in piazza anche i suoi oppositori. Al raduno razzista e antisemita dei suprematisti bianchi
Unite the Right a Charlottesville il 12 agosto 2017, dove in appoggio del “difensore del popolo contro il new order” scendeva in campo il Ku Klux Kan, gli antifascisti erano il doppio dei suprematisti: la frustrazione dei “destri” è culminata con l’irruzione di un suv contro la folla antirazzista producendo un morto e venti feriti.
C’è un prima e dopo Charlottesville nella storia statunitense degli ultimi tre anni. Da lì la corsa in ascesa del trumpismo frena e inizia la parabola discendente. L’anno successivo i promotori di
Unite the Right spostarono a Washington la sede del loro raduno ritrovandosi in trenta – 30 persone contate – mentre gli attivisti per i diritti umani erano almeno tremila (https://www.wsj.com/…/a-year-after-charlottesville-the-alt-…). In California a San Francisco, sempre nel 2017, è stata assediata la sede di Uber più volte in quanto il suo amministratore delegato era un consigliere di Trump. Dopo la Women’s March del 21 gennaio 2017, che ha coinvolto 5 milioni di persone negli Usa, il 29 aprile è stata la volta della People’s Climate March, indetta da venticinque associazioni diverse che ha visto partecipare milioni di persone in varie città. E’ molto interessante constatare che senza questi milioni di persone in movimento il partito Democratico sarebbe stato sopraffatto anche istituzionalmente, mentre è stato costretto a indirizzarsi su posizioni più apertamente radicali.
Howard Dean, ex presidente del partito, spiegò che i democratici o abbracciavano le priorità “della strada” o rischiavano la morte. Non solo nelle strade però. Negli Usa esistono i
Town hall meetings, incontri dei politici locali e nazionali con gli elettori per ascoltare le loro richieste, ospitati dai municipi. I repubblicani da metà del 2017 furono costretti a disertare gran parte di queste assemblee per evitare le contestazioni, che nel frattempo avevano saldato gruppi liberal e progressisti molto diversi tra loro anche per etnia, come avvenuto a Chicago tra il Black Youth Project 100 che collabora con Mijente, gruppo per i diritti civili dei latino americani, per difendere l’immigrazione (https://www.nytimes.com/…/poli…/protesters-resist-trump.html). Una nota di colore: soltanto nella terza settimana di gennaio 2017 gli statunitensi hanno speso 4,1 milioni di dollari in gadget anti-Trump.

C’è poi la mobilitazione nel Michigan, che prende spunto dalla disobbedienza di alcuni leader locali democratici al loro partito, dove a Flint l’acqua fu contaminata dal piombo per una scelta scellerata e corrotta dell’allora governatore repubblicano Rick Snyder. La gente moriva, molti bambini resteranno con deficit cognitivi permanenti e le autorità, con il silenzio complice dei democratici, tentarono di occultare i risultati delle analisi sull’acqua e sui cittadini. I democratici furono travolti dalle iniziative spontanee di protesta e alla fine sono stati costretti ad appoggiarle.
Ci sono poi migliaia di scioperi selvaggi, al di fuori delle tradizionali, e colluse, organizzazioni sindacali, di cui nel mainstream dell’informazione si trovano poche tracce ma che sono stati una spina nel fianco per Trump e per i democratici. In questo interessante ebook di Felice Mometti, «Da Occupy Wall Street a Black Lives Matter, movimenti, scioperi, politiche» (https://www.connessioniprecarie.org/…/Mometti_Da-Occupy-Wal…) viene ricordato che il voto operaio nel 2016 andò a Trump perchè questi era contrario ai vari trattati commerciali, dal Ttip al Tpp al Nafta, che dal 2000 al 2016 hanno fatto sparire migliaia di posti di lavoro negli Usa. Quattro anni dopo è invece diventato chiaro che l’ostilità di Trump ai trattati internazionali, le chiusure commerciali, i dazi doganali elevati contro Europa e Cina, erano una strategia che aveva come unico beneficiario la grande impresa, con ulteriori perdite di occupazione nelle piccole unità produttive che hanno tentato di sottrarsi al ricatto di ridurre salari e diritti.

C’è il caso della lotta dei Sioux Lakota contro l’oleodotto che inquina le falde acquifere dei loro territori, che ha progressivamente assunto il valore politico della contestazione generale. Così come ha assunto valore generale la campagna, iniziata fra i lavoratori dei fast food, per fissare a 15 dollari il minimo salariale.
C’erano poi lotte iniziate ben prima dell’era Trump che sono proseguite con più intensità sotto la sua presidenza, a cominciare dai movimenti di cittadini, non d’opinione, contro il fraking, che hanno costretto Biden a pronunciarsi decisamente contro la pratica di fratturazione idraulica della terra almeno nei territori federali di competenza del Presidente (https://www.washingtonexaminer.com/…/yes-joe-biden-absolute…) dopo una decisa presa di posizione di Bernie Sanders contro la devastazione territoriale dovuta al fraking con cui ha incalzato Biden.
Insomma queste sono le lotte di cittadini e cittadine che dal 2016 al 2020 hanno “costretto” il Partito Democratico a una virata lievemente a sinistra, non certo per convinzione. E qui non parliamo del movimento per il cambiamento climatico che diverrà un nodo essenziale dell’economia futura se dovesse davvero svilupparsi il Green New Deal ventilato dai Democratici e da Biden; un movimento che esiste da prima di Trump e non ha certo intenzione di fermarsi.
Non abbiamo parlato della Pandemia, un tipo di conflitto dove la posta in gioco non è ideale, ma c’è la vita delle persone di mezzo; e quando devi salvare la pelle non dai retta per motivi ideologici al tuo partito. I cittadini hanno capito che l’incuria per l’altrui vita umana, il disprezzo in genere per gli esseri umani che Trump aveva fin lì rivolto verso determinate categorie, era la totale indifferenza di Trump verso qualsiasi altra vita che non fosse la sua. I democratici avrebbero fatto meglio o peggio? Sta di fatto che governava Trump e ne ha pagato il prezzo.
Non abbiamo parlato qui di Black Lives Matters che ha espresso la sua forza con imponenti manifestazioni di massa. Movimenti talvolta esterni e talvolta con un piede all’interno del Partito Democratico senza cui la vittoria di Biden non sarebbe arrivata. Certamente più contro Trump che per Biden, ma sta di fatto che senza l’apporto di milioni di persone non direttamente politicizzate, cittadini che sui territori si sono organizzati in base a un bisogno primario (di salute e di denaro, di vita nel caso degli afroamericani) oggi il mondo sarebbe un posto molto più pericoloso con Trump ancora alla guida.
Per questo è davvero fenomeno di vigliaccheria intellettuale e ignoranza sostenere che Biden e Trump erano uguali. Senza i movimenti di conflitto sociale avrebbe trionfato nelle urne un’idea di società in guerra e adesso, questo è il vero punto, il problema vero è costringere i democratici a mantenere le promesse che hanno consentito di riprendersi la Casa Bianca per non regalarla tra quattro anni a un altro razzista classista. Sarebbe molto bello se da noi esistesse altrettanta vitalità a sinistra per costringere i “Democratici italiani” a spingersi su posizioni di rispetto dei diritti umani e del lavoro, ma per fare questo bisognerebbe fare politica.

(*) L’Affordable Care Act è la legge di riforma sanitaria, emanata nel marzo 2010, nota come “Obamacare”. Nata per porre un freno al costante aumento della spesa sanitaria negli Usa e ridurre l’ampia fascia di popolazione statunitense priva di assicurazione medica.



IL NUOVO LIBRO DI ALESSANDRO PORTELLI
Presentazione de «Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari» (Donzelli editore)

«C’è qualcosa di mitologico nell’immagine del poliziotto col ginocchio piantato sul collo di George Floyd: san Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la divinità purissima che schiaccia il serpente, il cacciatore bianco sull’elefante ucciso in safari. Sono figure della vittoria della virtù sulla bestia, della civiltà sul mondo selvaggio… E del bianco sul nero. Ma in questa immagine il senso si capovolge: l’animale è quello che sta sopra e calpesta, e la vittima calpestata è quella che invoca il più umano e insieme il più simbolico dei diritti: il respiro».

L’assassinio di George Floyd, afroamericano ucciso da un poliziotto bianco durante l’arresto il 25 maggio 2020 a Minneapolis, ha scoperchiato l’intreccio di contraddizioni e ingiustizie del nostro tempo. A protestare sono scesi in piazza non solo i suoi fratelli e le sue sorelle afroamericani, ma anche bianchi, ispanici, uomini e donne, soprattutto giovani, che sentono sul collo il ginocchio mortale delle crescenti diseguaglianze. L’impressionante e ininterrotta sequenza di brutali violenze di stato da parte della polizia contro gli afroamericani continua ad accompagnare, come un sottofondo inquietante, la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti, e le immagini delle rivolte sono ormai sempre più sotto i nostri increduli occhi di cittadini europei. In questo libro Alessandro Portelli, con la sua capacità di intrecciare con straordinaria fluidità racconto storico e immaginari letterari, simbolici e musicali, ripercorre le vicende che hanno portato a quella scena, dalle ribellioni che l’hanno seguita agli eventi che l’hanno preparata nell’ultimo decennio, alla memoria di alcune grandi rivolte della storia afroamericana, mostrando come questa morte sia l’ultimo episodio di una vicenda secolare, lungamente inascoltata fino a che le vittime non hanno imposto la loro presenza, la loro voce, i loro corpi. Ma non mancano riferimenti alla realtà italiana perché la violenza di stato riguarda anche noi, basti pensare ai casi Cucchi e Aldrovandi, così come le icone del potere di tutti i tempi che prendono corpo nelle statue dei generali sudisti negli Usa come, nel nostro paese, nei monumenti fascisti sono apparentemente mute testimonianze di un passato inglorioso di razzismi, schiavizzazioni e dominazioni. La cosiddetta «furia iconoclasta» che si accanisce sui marmi racconta di una realtà in cui ci si accanisce sui corpi, e non di marmo: «la distruzione di tanti meravigliosi giovani, vere e incomparabili statue policrome», è anch’essa un vandalismo, per dirla con Proust. Quelle icone continuano a celebrare e a mettere sotto i nostri occhi una storia che diventa presente ogniqualvolta la polizia uccide o spara alle spalle a un nero come se niente fosse. Riecheggiano qui le parole di Huckleberry Finn che Portelli cita in apertura del libro: «S’è fatto male qualcuno?». «Nossignora, è morto un negro». Perché anche per il senso comune di oggi le vite dei neri contano poco, o niente.

La rivista TEPEE segnala

Biden e Harris hanno vinto anche grazie ai voti dei Nativi, in particolare in Arizona… dettagli su “TEPEE” che sta per uscire. Per saperne di più: soconasincomindios.it
Nel frattempo guarda questo bel video
https://twitter.com/i/status/1321588304433815553

ciuoti

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