Impotenza, vuoto, cervelli congelati e complicità. Oppure…

Alcune riflessioni, da fonti distanti fra di loro, accomunate da una sostanziale sfiducia nell’efficacia del nostro agire nell’epoca dei social e della catastrofica crisi delle democrazie liberali: Jianwei Xun, Motterlini, Loccioni, Cacciari.

Riprendiamo, quasi senza commentarle, alcune riflessioni apparse ultimamente in rete o sulla stampa, provenienti da fonti molti distanti fra di loro, discutibili (nei due sensi che diamo all’aggettivo: sia quello positivo, che stimola discussione; sia quello negativo, che lascia molto perplessi), originate come ovvio da proprie convinzioni, da analisi scientifiche o filosofiche o prettamente politiche. Accomunate però da una sostanziale sfiducia nella reale efficacia del nostro agire, non solo in generale come esseri umani di quest’epoca sciagurata, ma anche nelle forme che assumono spesso la nostra partecipazione e molte delle nostre lotte, nell’epoca dei social, della catastrofica crisi ormai irreversibile delle democrazie liberali.

 

Jianwei Xun: Kirk, la censura americana e la pedagogia dell’impotenza

Come l’impunità trasforma la coscienza collettiva

Karen Attiah scrive su Bluesky che «parte di ciò che mantiene l’America così violenta è il continuo insistere affinché le persone dimostrino cura, inutile bontà e assoluzione nei confronti degli uomini bianchi che sposano l’odio e la violenza». Viene cacciata dal Washington Post nel giro di tre ore.

Matthew Dowd spiega su MSNBC che “le parole d’odio portano ad azioni d’odio”. Licenziato la sera stessa.

Una professoressa della California pubblica su Instagram: “Non riesco a provare molta compassione, sinceramente.” Sospesa il giorno dopo.”

Comincia così una riflessione di Jianwei Xun1 (Kirk, la censura americana e la pedagogia dell’impotenza) 10 giorni dopo l’uccisione del suprematista bianco Charlie Kirk, elencando altri casi di clamorosi licenziamenti e “schedatura” di anti Kirk, quindi anti Trump, negli Stati Uniti.

Il teorico del fortunato e discusso2 testo che ha introdotto il concetto di Ipnocrazia, prosegue attribuendo le ragioni della facilità con cui gli uomini al potere negli USA possano portare avanti una quantità così massiccia di epurazioni (ma anche la sfacciataggine di affermazioni palesemente false) senza quasi alcuna resistenza ed opposizione. “tutto è esposto in piena luce. Non serve mostrare coerenza né nascondersi: può essere usato un potere arbitrario senza alcuna ipocrisia, senza timidezza. Il messaggio non è nascosto, è esplicito: possiamo distruggere chiunque, per qualsiasi motivo, in qualsiasi momento. E voi non potete fare nulla per fermarci.

L’efficacia ipnocratica di questa dimostrazione sta nel fatto che tutti possono vedere l’arbitrarietà delle punizioni, la sproporzione delle reazioni, la violazione dei principi che gli stessi Repubblicani dicevano di difendere. Perché essere così espliciti? Perché tutto avviene alla luce del sole? Perché questa conoscenza diffusa dell’ingiustizia, combinata con l’impossibilità di porvi rimedio, genera uno stato di paralisi cosciente che è il cuore della trance ipnocratica. Il sistema non cerca di convincerci che i licenziamenti siano giusti: vuole che sappiamo che sono ingiusti e che non possiamo fare nulla. Pensateci: questa combinazione di consapevolezza e impotenza produce uno stato alterato di coscienza più profondo di qualsiasi manipolazione o inganno. Sapere e non poter agire frantuma la psiche in modo più efficace di qualsiasi propaganda.

La stessa dinamica opera su scala ancora più terribile a Gaza. La Commissione ONU dichiara formalmente che è in corso un genocidio. The Lancet documenta 93.000 morti. L’UNRWA certifica 40.000 sfollati forzati in Cisgiordania. Tutto è documentato, certificato, incontrovertibile. Smotrich può ammettere serenamente che Gaza è una miniera d’oro immobiliare, Netanyahu può dichiarare apertamente che Israele affronterà anni di isolamento, e procedere comunque con l’operazione Gideon’s Chariots II con 60.000 riservisti. Eppure non cambia nulla.

Il potere contemporaneo non teme la denuncia, anzi la integra: lascia che tutto sia visibile, sapendo che l’evidenza stessa della nostra impotenza rafforza la sua presa. L’eccesso di evidenza diventa esso stesso un dispositivo di occultamento. Perché quando tutto è già visibile, documentato, certificato non rimane alcun gesto da compiere. La verità esibita produce più paralisi della menzogna nascosta.

L’articolo continua riconducendo poi tutto al concetto di ipnocrazia, in maniera tanto eccessiva tanto da far correre il rischio di trasformarsi in uno spot per la sua creatura. Ma perlomeno conclude in maniera da non farci credere che per salvarci dobbiamo comprare il suo libro e iscriverci alla loro newsletter (almeno spero): L’ipnocrazia non vince solo perché mostra la nostra impotenza, ma perché ci convince a interiorizzarla come destino. Non possiamo fermare personalmente le bombe su Gaza né i licenziamenti arbitrari, né la sospensione di uno show televisivo. Ma possiamo rifiutare la normalizzazione. Possiamo continuare a nominare l’ingiustizia come ingiustizia, anche quando tutto ci spinge a tacere.

Nel regime dell’ipnosi collettiva, il vero terreno di lotta è la coscienza.”

da qui https://www.tlonletter.it/p/kirk-la-censura-americana-e-la-pedagogia

Cervelli congelati

Con un approccio differente, ma ugualmente dall’alto di un successo accademico internazionale, una teoria originata dall’approccio globale ai cambiamenti climatici, espone delle tesi non molti distanti.

Nel recente saggio Scongeliamo i cervelli, non i ghiacciai, lo studioso e professore di neuroeconomia Matteo Motterlini3, afferma che il nostro cervello è “progettato per sopravvivere nel Pleistocene”, dov’era indispensabile saper reagire immediatamente davanti ai pericoli, e ora siamo quasi impotenti di fronte ai cambiamenti e ai pericoli odierni, quelli che, pur evidenti dal punto scientifico, non riusciamo a visualizzare, un cervello “oggi spaesato di fronte a una crisi a rilascio lento”.

Siamo nell’era del capitalismo limbico: un’economia della dopamina che lucra sul bisogno di gratificazioni facili, istantanee e continue. Viviamo più a lungo, ma pensiamo sempre più a breve. E mentre continuiamo a produrre, consumare, bruciare – gas, carbone, petrolio – cresce il consenso per leader sovranisti che negano l’origine antropica del riscaldamento globale o ne minimizzano gli effetti. È chiaro ormai che non è solo il clima a essere fuori controllo. Lo siamo anche noi.”

Motterlini parla di cambiamento climatico, ma solo come paradigma “il problema, prima ancora che ecologico, è cognitivo. È il nostro modo di pensare a essere diventato insostenibile. Dobbiamo disinnescare le trappole mentali che ci bloccano, ci illudono di avere ancora tempo, ci spingono verso un fatalismo rassegnato. Questo libro è un grido d’allarme, ma anche un manuale pratico per intervenire – subito – smontando pregiudizi, allenando lo sguardo critico, costruendo strategie di cambiamento. Per trasformare l’impasse in svolta, l’inerzia in azione, l’ineluttabile in possibilità.” (dalla scheda del libro)

Critica Marxiana all’Attivismo Digitale”

Il terzo scritto si discosta molto dai precedenti, e a molti richiamerà una forma di analisi critica che ci era più familiare 40/50 anni fa, comprensibile e logica essendo l’autore militante marchigiano di Democrazia sovrana e popolare, anche candidato alle recenti elezioni regionali. Scrive Andrea Loccioni, in un post sulla sua pagina fb di metà settembre (ma sul tema torna anche in seguito, con lo stesso o accresciuto sarcasmo):

L’osservazione secondo cui ampi strati della classe media colta di sinistra riversino compulsivamente sui social network contenuti di solidarietà con la causa palestinese solleva una questione che travalica la mera psicologia sociale per investire le strutture profonde del capitalismo contemporaneo. Un’analisi di matrice marxiana non può limitarsi a registrare il fenomeno, ma deve decostruirne le contraddizioni intrinseche, rivelando come un gesto apparentemente antagonista possa essere funzionale alla perpetuazione del sistema che dichiara di avversare.

In primo luogo, è necessario inquadrare questo attivismo digitale attraverso la lente del feticismo della merce. L’atto della condivisione opera una trasformazione essenziale: la solidarietà politica, che dovrebbe essere un rapporto sociale concreto di supporto a una lotta di liberazione, viene reificata, ridotta a merce digitale. Questo prodotto, il post, viene consumato e scambiato in un mercato dell’attenzione dove il suo valore non risiede nella sua efficacia politica, ma nella sua capacità di generare engagement e di fungere da segnale di status all’interno di un gruppo. Il contenuto è così alienato dalla sua realtà materiale—la sofferenza umana, l’oppressione imperialista—per diventare un simbolo astratto dell’identità etica del fruitore. In questo processo, l’algoritmo, che è il regolatore di questo mercato, appare come una forza neutrale e oggettiva, mentre è in realtà l’espressione più pura di rapporti sociali capitalistici finalizzati al profitto e al controllo.

Questa dinamica produce un potente effetto di auto-assoluzione. La classe media intellettuale di sinistra abita una contraddizione strutturale: è organicamente inserita nel sistema economico occidentale, di cui fruisce i benefici materiali e culturali, mentre ne condanna le derive imperialiste e diseguali. Questa lacerazione genera ciò che potrebbe essere definita una “coscienza infelice”. La condivisione compulsiva di contenuti solidali è il sintomo di questa lacerazione: è un tentativo di risolvere a livello simbolico, nell’etere dei social media, un conflitto che ha radici materiali. Invece di mettere in discussione il proprio ruolo all’interno dell’apparato economico che finanzia e sostiene l’oppressione, si sposta il conflitto su un piano puramente morale e individuale. Il gesto performativo della condivisione assolve così da un senso di colpa collettiva, offrendo una purificazione a basso costo che non intacca gli equilibri materiali del sistema. Questo meccanismo è funzionalmente riformista, poiché canalizza il dissenso in forme innocue e perfettamente integrabili nel flusso del consumo culturale, neutralizzandone la potenziale carica rivoluzionaria.

Tuttavia, la contraddizione più profonda e dialetticamente significativa emerge nel momento in cui si osserva chi trae profitto da questo ciclo di indignazione solidale. Le piattaforme sociali—Meta, X, TikTok—non sono agorà pubbliche neutrali; sono corporation il cui modello di business si fonda sulla estrazione e sulla mercificazione del dato, dell’attenzione e dell’emozione umana. L’engagement generato da contenuti carichi di pathos, come quelli di una guerra, è un combustibile estremamente redditizio. Le piattaforme, in ultima analisi, monetizzano il dolore e la solidarietà.

Ed è qui che il paradosso raggiunge il suo apice: questi stessi colossi tecnologici sono finanziati e sono parte integrante del medesimo capitale finanziario occidentale che, attraverso investimenti diretti, acquisti di bond e compartecipazioni nell’industria militare, sostiene la macchina da guerra israeliana. Si stabilisce così una tremenda unità di opposti: la protesta simbolica contro una fronda dell’imperialismo (Israele) genera profitto e valore per il cuore stesso dell’apparato imperialista (il complesso capitalistico-finanziario-tecnologico). Il sistema non solo tollera la critica, ma la recupera attivamente, trasformandola in una merce che alimenta la sua stessa riproduzione allargata.

In conclusione, un’analisi marxiana non nega il valore dell’informazione o della genuina solidarietà internazionalista. Piuttosto, invita a una spietata critica delle forme che questa solidarietà assume. La domanda cruciale non è sull’intenzione del singolo, ma sulla funzione materiale del suo atto: la condivisione online, se rimane un gesto fine a sé stesso, disgiunto da una prassi che colpisca gli interessi economici alla radice del conflitto—boicottaggi efficaci, lotte sindacali, pressione per sanzioni—rischia di ridursi a un rituale di espiazione individuale. Un rituale che, mentre illude di agire, produce inconsapevolmente valore per lo stesso Leviatano economico che si presume di combattere, rivelando la spaventosa capacità del capitale di digerire e trarre profitto persino dalla sua stessa negazione.” da qui https://www.facebook.com/profile.php?id=100091947421357

Commento solo che tutto questo, in maniera più sintetica e sicuramente con maggior poesia, lo aveva già detto nel 2008 un giovanissimo Vasco Brondi-Le Luci della Centrale elettrica, nella canzone “Per combattere l’acne” contenuta nel suo primo album Canzoni da spiaggia deturpata:Con le nostre discussioni sterili si arricchiscono solo le compagnie telefoniche”. https://www.youtube.com/watch?v=Z8HzwcbeGFE

 

Gli occidentali vivono nell’età del vuoto, ma l’unica uscita non può essere la guerra

Massimo Cacciari, La Stampa 29 settembre 2025

Scrive Cacciari, fra altre cose:

Viviamo un’epoca in cui la sproporzione tra le tragedie che colpiscono interi popoli e le nostre parole è ormai tale che solo ad aprir bocca sembra di mentire. Che vale intendere, interpretare, ricercare cause e nessi storici di fronte a donne e bambini trattati come eserciti nemici in fuga? Neppure si prova vergogna a discettare sul nome più adatto per definire la “cosa” – chiamarla genocidio o ricostruzione immobiliare delle spiagge di Gaza non ne sposta di uno iota l’orrore. Io temo che essa, proprio nella sua violenza, dica del vuoto che sta tutti inghiottendo, che questo sia il suo vero nome. Il vuoto può contenere certo, ancora invisibili, i germi di nuovi organismi e nuovi ordini, ma nel momento in cui si manifesta sono la distruzione del passato, il mischiarsi dei relitti che da esso provengono, la babelica confusione delle lingue a dominare la scena, Gaza può oggi accadere perché il mondo sta precipitando in tale vuoto.”

(…) Invece di gridare che la Guerra deve essere impossibile e fare tutto il possibile per risolvere le guerre in atto, si discetta sulla forma che essa potrebbe assumere e su come intanto continuare a condurre quelle ancora “locali”. C’è davvero da chiedersi se questa condizione di vuoto e di smemoratezza non sia il prodotto della evoluzione dei sistemi democratici dell’Occidente dopo la seconda Grande Guerra. L”uomo democratico’ si è via via ridotto all”uomo proprietario’, per il quale l’unico bene che appare reale è il bene per sé. Pericolosissima illusione, che de-responsabilizza e nega ogni forma di di partecipazione politica. Il passaggio da una libertà dimenticata di ogni dovere, innocente nei confronti di ogni ingiustizia subiscano “gli altri”, a una libertà obbediente ai poteri che si pensa la possano proteggere, è una soglia facilissima da oltrepassare.”

(…) Il vuoto è pieno soltanto del senso della nostra impotenza. Impotenza a dare un nuovo, concreto, pratico significato alle parole di cui ci siamo nutriti. Impotenza nei confronti di un sistema oligarchico-plutocratico di cui avvertiamo bene il dominio, ma che sfugge a ogni presa, in nessun modo determinabile secondo i vecchi criteri del Politico. Un sistema che tiene tutti liberamente al lavoro e “sotto processo”. Solo Kafka nel Novecento è riuscito a presagire una tale condizione umana. Naturalmente abbiamo dimenticato anche lui.

(…) “Oggi siamo stretti tra due vuoti, la dimenticanza del passato e un futuro che ha assunto il solo significato della indefinita crescita. Il nostro presente si è sradicato dal suo passato nella stessa misura in cui è divenuto cieco sul fine del proprio procedere.

Concludo con due righe di chi il senso di impotenza, ma tutt’altro che inattiva, lo ribadisce da un po’, teorizzando la diserzione come una via possibile. Francesco Berardi “Bifo”. Lo stesso Bifo che nella sua newsletter il disertore il 20 marzo scorso (L’incubo ipnocratico) aveva parlato di Ipnocrazia di Jianwei Xun, di cui allora però ignorava chi o cosa fosse l’autore, nonostante avesse scoperto che lo stesso editore, Tlon, aveva ri-editato il suo Come ti curo il nazi. Berardi rimane affascinato dal titolo, condivide alcuni presupposti pur intuendo da subito si tratti di qualcosa che ha a che fare con l’Intelligenza Artificiale, oltre che con un “autore” anomalo, ma ne smonta proprio i limiti evidenti derivanti “dall’artificialità”4

dice Bifo, sempre in una delle sue newsletter il disertore:

(…) “esiste un’alternativa a questo intreccio di terrore, anti-terrore, e progressivo scivolamento verso la guerra terminale?

Io non la vedo, e credo che la sola cosa possibile al momento sia fuggire, allontanarsi, nascondersi, abbandonare ogni illusione di pace impossibile, abbandonare la speranza di un domani migliore, cancellare il futuro dalla mente e dalla vita.

Vivere e sparire.

Sparire per poter vivere.”

immagini:

da Tlon e (Marx) da: DALL·E 2024–08–25 13.11.44 - An artistic representation of the intersection between Karl Marx’s philosophy and artificial intelligence.

NOTE

1 https://tlon.it/

2 Per saperne di più della figura di Jianwei Xun, alias Andrea Colamedici e ciò che ci sta attorno, dalla compagna Maura Gancitano alla casa editrice-officina-impresa culturale e quant’altro, in rete si trova tanto, dall’elogio alla condanna: https://www.micromega.net/ipnotizzata-dall-ipnocrazia

3 https://it.wikipedia.org/wiki/Matteo_Motterlini

4 Chi sia Jianwei Xun non saprei dirlo. Segej Debunker mi ha fatto notare qualche giorno fa che In Wikipedia c’è scritto che questo Jinwei Xun ha collaborato alla stesura di uno dei miei libercoli, Come si cura il nazi. Io non lo ricordo, e sospetto che Jianwei Xun non esista. Ma se non esiste, allora chi lo ha scritto questo libretto dal titolo IPNOCRAZIA edito da Tlon (lo stesso editore che qualche anno fa ha ripubblicato per l’appunto Come si cura il nazi)? 

Da quando, qualche decennio fa, conobbi Luther Blissett, ho imparato che l’Autore è una figura piuttosto elusiva. Da quando poi l’evoluzione tecnologica ha portato alla creazione di intelligenze artificiali ho cominciato a comprendere che il linguaggio si è separato dal locutore e procede per forza propria, avviluppandoci in un labirinto dal quale temo che non usciremo.

Il tema di cui parla Jianwei Xun è di grande attualità: l’architettura stessa della realtà sembra essere ridefinita da una mutazione percettiva e proiettiva. Secondo Xun dobbiamo partire proprio da questo, dal carattere ipnotico della percezione per comprendere la travolgente rivoluzione reazionaria che ha raggiunto il suo culmine nei giorni dell’insediamento di Trump alla casa Bianca, e che rischia di accompagnarci a lungo, forse per tutto il tempo in cui vivremo.         

Ma viviamo?
A proposito, viviamo davvero, oppure tutto questo in cui ci aggiriamo è soltanto un incubo, un sogno brutto dal quale non riusciamo a risvegliarci?

E’ questa la domanda con cui Xun inizia il suo ragionamento, in questo libretto scritto in modo rapido, quasi telegrafico.

I modelli linguistici di ultima generazione non si limitano a rispondere alle domande: modulano sottilmente il loro output per mantenere l’utente in uno stato di ipnosi ottimale. La loro fluenza apparentemente normale è in realtà una tecnica ipnotica perfezionata.” ( Ipnocrazia, Tlon, 2025, pagina 23).

Xun parla qui dei chatbot che negli ultimi due anni hanno invaso il mercato dell’attenzione, popolarizzando l’Intelligenza artificiale.

Il dispositivo di automazione linguistica è il compimento di un processo di automazione della percezione, della proiezione e della (semi)coscienza: la nostra capacità di produzione linguistica, di conversazione, è sostituita dall’automa, così che l’automa è destinato a occupare per intero le nostre capacità cognitive, ad accelerare la mutazione cognitiva ed emozionale che ha investito la generazione che è stata generata (messa al mondo, diciamo) nel secolo ventuno.

Jianwei Xun parla dell’automa linguistico come di un ipnotizzatore, e scrive a questo proposito:

Come resistere a un ipnotizzatore che non dorme mai, non si stanca mai, e può personalizzare la sua induzione per ogni singolo soggetto? Come mantenere la lucidità di fronte a un sistema che può produrre infinite varianti di contenuto ipnotico, ciascuna calibrata per aggirare le nostre difese specifiche?” (Ipnocrazia, cit, p. 23)

Secondo Xun c’è poco da fare, per gli umani la partita è persa. Non abbiamo nessuna possibilità di sottrarci al sistema ipnocratico, nel quale siamo entrati semi-consapevolmente, come si entra nella sfera onirica. Xun non ci lascia speranza, ma ci dà alcuni consigli.

La chiave sta proprio nel riconoscimento della natura ipnotica dell’IA. Non dobbiamo né demonizzarla come distopia totalitaria né celebrarla come utopia tecnologica: dobbiamo comprenderla come un nuovo campo ipnotico con cui dobbiamo imparare a evolvere.” (Ivi).

Il fantomatico Xun sintetizza e riprende le riflessioni svolte negli ultimi decenni da molti teorici, a cominciare da Jean Baudrillard, fino a Biong Chul Han, autori con i quali Jinwei Xun avrebbe collaborato, come apprendiamo da Wikipedia (ma io mi permetto di dubitarne).

Partendo dalle analisi svolte a proposito dei media, dalla televisione a Internet ai social network fino ai chatbot, Xun giunge alla conclusione che

L’Ipnocrazia non crea ideologie. Satura. Il suo metodo non è censurare, ma sovraccaricare… L’Ipnocrazia non ci governa, ci trasforma in parte di se stessa.” (pag. 33).

Su questo punto credo che Xun abbia proprio ragione. Nel tempo passato il potere politico ed economico usava i media come strumenti per la persuasione. Nella sfera dell’automa che Xun definisce Ipnocrazia il potere si confonde con la macchina linguistica, e opera attraverso la pervasione, non attraverso la persuasione. Di conseguenza non si propone di convincerti, né di reprimere coloro che la pensano diversamente. Si propone di saturare l’attenzione così da rendere inoperante la facoltà di pensiero – che infatti sta scomparendo dalla scena dell’umano.

L’infosfera emette una quantità di segni talmente rapidi intensi e numerosi da sommergere la mente individuale con un flusso che giunge a saturare l’attenzione, e a paralizzare ogni capacità critica.

Non si tratta soltanto di condizionamento comportamentale; è una vera e propria ingegneria della coscienza condivisa dove l’umano e la macchina entrano in un processo di mutua definizione.” (35).

Coloro che sono cresciuti fin dalla più tenera infanzia in un ambiente saturo di congegni elettronici, e sono stati formati da flussi di semiosi elettronica, hanno subìto, secondo Xun, una vera e propria riconfigurazione psichica che coinvolge il desiderio stesso.

Non si tratta, scrive, soltanto di edonismo o dipendenza: è una ristrutturazione radicale di come opera il desiderio stesso… Ogni scroll promette la prossima scarica di dopamina, eppure il piacere non è nel contenuto ma nel perpetuo movimento di ricerca.” (Pag. 87)

Parlerei di iper-semiotizzazione del desiderio, e di continuo rinvio virtualizzante del piacere, o piuttosto di sostituzione del piacere carnale con scariche di dopamina costantemente rinnovate. Xun parla invece di “uno stato di trance del piacere: non godiamo attivamente, dice, ma siamo sospesi in uno stato di quasi-godimento.” (87)

Sia come sia, quel che accade è una de-carnalizzazione del desiderio, che trasferisce il piacere dal piano del contatto sociale, erotico, al piano della scarica dopaminergica senza corrispettivo carnale.

La conclusione cui Xun ci conduce è in qualche modo tranquillizzante, o per lo meno pacificante. Non c’è nessuna possibilità di sfuggire a questa nuova configurazione irrealizzante del desiderio, e in generale dell’esistenza. Dunque dobbiamo giungere alla conclusione che:

La simulazione non è il nostro nemico, ma il nostro ambiente.” (58)

L’analisi di Xun è convincente. Tutto a posto, dunque?

No.

L’analisi del fantomatico Xun non descrive che una faccia della questione della soggettività contemporanea. Perciò mi convince a metà, perché l’altra metà Xun non la vede, non la conosce, comunque non ne parla.

Xun descrive la superficie comportamentale della mutazione linguistica e cognitiva, ma non compare mai, neppure una volta, se non vado errato, la parola: “corpo”.                              Perché Xun non sa nulla del corpo? Mi sorge quasi il sospetto che non parli mai del corpo perché non ne sa nulla. Probabilmente non ce l’ha. Ma chi è allora Xun se non possiede un corpo? Nel libro non troviamo mai né la parola sensibilità, né la parola dolore.

Tutto va bene: nella dimensione ipnocratica non c’è modo di sottrarsi al ciclo ininterrotto e ineludibile di stimoli e reazioni che che si modellano a vicenda e di conseguenza si compenetrano perfettamente.

Ma nel libretto di Xun, mi dispiace doverlo dire, manca il mal di denti.

L’automa linguistico sa tutto del mal di denti, intendiamoci, vi può offrire una bibliografia completa sull’argomento, e anche l’indirizzo di un buon dentista vicino a casa vostra. Ma il mal di denti non sa cosa sia, e se per disgrazia vi viene il mal di denti tutta la perfezione ipnocratica di cui parla Xun va a farsi fottere.

E il mal di denti non è il peggiore dei mali di cui l’automa sa tutto ma non esperisce niente. Allo stesso modo l’automa non esperisce né la solitudine né la violenza, né la fame né il freddo, né la guerra.

Per questo il libro di Xun ci spiega tutto ma non ci serve a niente. La tecno-ipnosi ci avviluppa nelle sue spire derealizzanti, ma non appena suonano le sirene che annunciano il bombardamento l’esercito degli ipnotizzati si sveglia terrorizzato, oppure l’ipnotizzato si butta sotto un treno perché la solitudine sessuale produce nel suo cuore un oceano di tristezza, oppure deve pedalare come una bestia dalla mattina alla sera sotto il sole cocente e sotto la pioggia per guadagnare un salario precario e miserabile.

Questa realtà – cioè LA realtà sfugge all’ipnocrazia perché l’automa digitale non ha corpo. Nel libro di Xun il corpo è evacuato, dimenticato, sublimato.

Ma non per questo ha smesso di esistere, e per quanto ipnotizzati possiamo essere, la fame la sete il freddo il dolore, e la guerra – costringono la soggettività ad accorgersi dell’avere un corpo. E costringono l’anima a sprofondare nella depressione, che non è solo uno stato immateriale, ma un tormento che spesso spinge la gente a piangere, e talvolta anche a buttarsi da una finestra del quinto piano. 

Il dolore

Viviane Sobchack, critica culturale e cinematografica, pubblicò nel 2004 Carnal Thoughts. In polemica con le tesi Jean Baudrillard, che già negli anni Settanta parlava di sostituzione dell’esperienza con la simulazione, Viviane Sobchack ci ricorda che il dolore risveglia l’organismo dal suo letargo iper-connettivo.

A Baudrillard, che nei suoi libri dei primi anni ’80 parla di scomparsa del reale, Vivian Sobchack risponde:

Non c’è niente come un pur piccolo dolore per richiamarci alla realtà dei nostri sensi, e contrastare il romanticismo della trascendenza tecno-sessuale che caratterizza gran parte del discorso contemporaneo sul techno-body virtuale.” (Carnal thoughts, University of California Press, 2004Pag. 167)

Vivian Sobchack parla e scrive nella condizione di chi ha subito nella sua carne l’inserzione dell’inorganico. In seguito a un incidente la scrittrice subì tre successive operazioni chirurgiche, l’amputazione di una gamba e la sostituzione della gamba con una protesi.

Diventai effettivamente un corpo tecnologico e provai le dimensioni assortite del piacere prostetico. Dopo varie ricorrenze del cancro e tre operazioni chirurgiche mi amputarono la gamba sinistra sopra il ginocchio così che imparai a usare e godermi la sostituzione prostetica.” (Sobchack, 168)

Quando il dolore fa la sua comparsa, dice Sobchack, siamo costretti a uscire dall’ipnosi tecno-virtuale: quella di Sobchack rimane – venti anni dopo la pubblicazione di Carnal Thoughts, la migliore critica della tecno-ipnosi di cui parla Xun.

Nella solitudine digitale c’è soltanto l’individuo con il suo cellulare iper-connesso, e il mondo virtuale nel quale tutto è previsto, e tutto è perfetto, perché il codice generativo ha tolto di mezzo ogni possibile asperità e ogni imprevisto. Ma ecco che compare il mal di denti, o un incidente automobilistico, o una bomba israeliana, o un incendio che ingoia tutto il vostro quartiere. Ecco il dolore, e allora l’ipnosi va a farsi fottere, checché ne dica Jinwei Xun.

Il dolore testimonia dell’esistenza dell’altro, dell’esistenza del nostro corpo come alterità. Il dolore è il ritorno della storia, della sua innegabilità, della sua verità testarda: la storia ferisce, riportando il corpo decarnalizzato alla sua incancellabile carnalità.

La storia è ciò che fa male. Ciò che ferisce ci rimanda forzatamente alla nostra immanenza, al reale, e alla necessità fisica della nostra intrinseca “capacità di risposta”… Così il dolore acuto, i dolori sordi e l’intorpidimento (che, dopo tutto, non è non-sentire ma una sensazione di non-sentire), il tocco freddo della tecnologia sulla mia carne, sono distrazioni dalle mie possibilità erotiche.” (Sobchack, pag. 167).

Il corpo, sia pure rimosso, non è scomparso. Il dolore è lì a ricordarci che prima o poi dovremo tornare alla realtà. E’ per questo che l’utopia (o distopia) ipnocratica non funziona, alla fine.

E’ vero che la generazione che si è formata cognitivamente (e quindi anche percettivamente) nella sfera ipnotica della virtualità ha perduto la capacità di agire sul piano reale. Ma a un certo punto un individuo iper-connesso e ipnotizzato si sveglia col mal di denti, un altro si sveglia con un fucile puntato alla testa, un altro muore di sete perché nel suo villaggio (che pure è connesso alla rete Starlink) non c’è più acqua. 

E’ per questo che il progetto ipnocratico (la sottomissione della mente sociale all’automa) a un certo punto si sfascia, perché gli ipnotizzati si svegliano col mal di denti o con la guerra alle porte. Purtroppo quando si svegliano è già troppo tardi, ma questo è un altro discorso.

E’ per questo che l’utopia nera di Musk è destinata a sfasciarsi assai presto, perché non tiene conto né del corpo né dell’anima, che non sono riducibili alla matematica.

Quando ci sveglieremo purtroppo sarà troppo tardi.

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Benigno Moi

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