La strage degli Innocenti

Contonera Tilikerta come memoria

di Natalino Piras

 

Nico Orunesu – Cortes, 2021

Il  racconto di Contonera Tilikerta  come lo fece Pontus Euxinus una sera della festa degli Innocenti che il vento ululava come quando una sera che io ero bambino muggiva forte l’imbovato. Il vento infuriò sui muri di un palazzo in costruzione. Rotolarono le pietre e portarono morte, là, in un punto del selciato inghiottito dal buio e dall’ululare de s’erkitu.

Era un 28 dicembre, festa degli Innocenti.

“Ti dico di Contonera Tilikerta”, attaccò Pontus. “Ti dico di Contonera Tilikerta perché era a poca distanza dalla casa del capostazione dove noi allora abitavamo, in piena campagna.

Mio padre era il capostazione e io ero bambino. Io ho visto, ho saputo. Non dimentico. I muri di Contonera Tilikerta sono diventati vecchi all’improvviso. Tanto tempo fa, la Contonera distava ore e giorni di cammino dal centro abitato.  Quando la si raggiungeva sembrava di arrivare in capo al mondo. C’era un brav’uomo ad averne cura. Il cantoniere dava ristoro ai passanti e nascondeva chi doveva nascondere, anche banditi e gente che aveva conti con la Giustizia. Un giorno arrivò un nano, basso e storto, vestito in fustagno rossiccio, un ghigno sulla bocca. Pareva innocuo, pacifico, mutulone.  Restò più giorni e più notti nella Contonera.

Per sdebitarsi dell’ospitalità dava una mano nel lavoro: sfienare le cunette e tenere in sesto le strade. Accettava la stuoia e il cibo. C’era la moglie del cantoniere, una donna bella, alta, seno prosperoso, occhi neri da zingara.  Aveva la fronte spaziosa. Era piena di senno. Era madre di  molti figli. Qualche volta deve aver sorriso all’ospite mutulone, come si può sorridere a un ragazzo, a un figlio. Invece chi sa cosa passò nei sentidos del nano, cosa lo prese, cosa lo sconvolse. Assente il marito, il nano chiese alla donna quello che non doveva. Ma lo  fece senza insistere, come uno scherzo. La donna sorrise ma fece no con la testa.  Poi sigillò il diniego con un altro sorriso. Il nano ritornò alla carica.  Una volta la tentò che lei saliva la scala del pagliaio.   La donna non sorrise più al nano. Sperò che fosse finita. Invece il nano covava in cuor suo.

Era  una giornata di solleone. Era venuta diversa gente a Contonera Tilikerta,  donne e uomini,  salariati della mietitura che usavano della casa come luogo per mangiare e dormire.

Il nano attese. Non andò con gli altri a mietere. Fece finta e poi tornò indietro. La donna era rimasta dentro la Contonera a preparare da mangiare. Anche i figli erano andati chi dietro ai mietitori chi con il babbo che quel giorno si era spinto sino alla lontana casa sulla  ferrovia dove mio padre era capostazione. Aveva ricevuto ordine di togliere il fieno secco da mezzo ai binari, per evitare incendi. La donna sgobbava in cucina e a un certo punto decise di salire su nel  pagliaio a prendere qualcosa che le serviva.  Salì la scala di legno. Manco il tempo di arrivare al tavolato. Sentì passi pesanti di sotto  e il terrore la prese. Poi vide un’ombra ingrandirsi sui muri. Era il nano, furioso, con la bava del desiderio.  La donna fece in  tempo a capire cos’è il terrore. Il nano si arrampicò nella scala come un immondo sorcio. Raggiunse la donna che cercava scampo dove scampo non c’era. La stese sulla paglia. La donna non aveva forze pure se sarebbe bastato niente per buttare giù dal pagliaio l’aggressore. Ma non poté.

Il nano la  possedette poi pugnalò quell’innocente a ferro freddo e…e…cosa terribile  fece  a pezzi la sventurata. Poi ridiscese le scale, l’immondo sorcio!  Andò anche lui nei  campi, a mietere.

L’orrore fu al rientro. Il primo entrato nella Contonera vide il sangue gocciolare dal tavolato e una fitta di doloroso stupore gli coprì il cuore.

Chi, chi? Non poteva essere stato un essere umano. Ma dove aveva tana la bestia?  Anche il nano partecipava al silenzio che ghiacciava le parole sulla bocca di tutti dopo gli ululati da erkitu del cantoniere e dei figli.  Quando il sangue smise di colare portarono giù i resti dell’uccisa e li composero dentro la bara.

Un lungo corteo si formò per accompagnare la sventurata alla sepoltura. Si era fatto buio e la gente accese torce per illuminare la strada.  Il corteo avanzava lentamente diretto al camposanto del paese più vicino. Uscì nel cielo una luna che arrossava quelle ombre illuminate dalle torce. Quattro uomini  reggevano  i lati della bara. Il nano si era voluto mettere in mezzo ai portatori e dato che non ce la faceva ad arrivare con la spalla  sollevò le mani  sino a toccare il legno. Fu questo che lo tradì. Il sangue riprese a colare, solo nel punto dove c’era il nano. Bagnò solo lui, lo sporcò. L’ orco non ce la faceva a restare indifferente.

Non poteva fuggire e invece riuscì a scappare. Il cielo era come se si fosse illividito di bruma, in piena estate,  come un giorno d’inverno, di freddo intenso, l’annuncio di una tempesta di neve, un ululare di vento come spesso capita alla festa degli Innocenti. Il nano non doveva, non poteva fuggire. Invece riuscì a scappare. Da allora lo inseguo. Ero bambino e anch’io mi ricordo dell’ora dei funerali quando il nano scappò, letteralmente scomparve. Non se ne è saputo più nulla ma io so che ancora vive e fa male. Uccide, semina morte e non muore.

Forse è morto però è riuscito a generare un qualche altro essere che ne continua le immonde azioni, che sono da diavolo. Lo inseguo, lo inseguirò fino al Pontus Euxinus”.

Natalino Piras, Teodicea.

Immagine: Nico Orunesu

 

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