La vita spesa bene – di Mark Adin

Una specie di Eden: così mi apparve la zona del Sannio che visitai in Vespa, durante il tour della penisola che feci in anni molto lontani. Non ero mai stato più a sud di Roma, mai mi ero spinto nella provincia arcaica. La mia fidanzata di allora era originaria di quei luoghi di luce, dai nomi che evocavano orgoglio di popoli. Vicino al piccolo paese dove ci fermammo, ce n’è uno chiamato Forchia, in mezzo alle colline, dove si trovavano le forche caudine: i militari Romani dovettero passarvi chinando il capo, in segno di sottomissione a quel popolo guerriero.

Arrivammo un giorno di agosto, caldissimo. Appena scesi dallo scooter carico di tutto, una piccola folla di ragazzini ci venne incontro per farci mille domande. Sulla strada c’erano i banchetti dei venditori di “ ‘o musso”, pezzetti di muso di porco bollito, condito, freddo, col succo di limone di Amalfi. Servito in cartoccio. Delizie ferragostane.

Inoltrandoci per la via Appia, trovammo il forno a legna, di proprietà dello zio di R. Cinque, sei infornate al giorno, lavorando da solo. Ci accolse il profumo del suo pane, facemmo colazione con una fetta ancora calda sulla quale era sceso un arabesco di olio di oliva disegnato dal becco di una oliera di latta. Un pizzico di sale per estrarne fragranza. Bagni di sapori.

Mi estraniai, perdendomi nel sole e nel profumo del pane. Lo zio stava in penombra, piccolo di statura e mobilissimo, sfornava le scanàte bollenti e con rapida mossa le lanciava in una madia di legno perché riposassero. Maglietta e pantaloni bianchi, fazzoletto al collo, dovetti aspettare la domenica, quando andava a messa, per realizzare che i capelli erano ancora nerissimi e la carnagione scura, e che l’uomo canuto che mi era parso, era invece samplicemente infarinato come un pesce che aspetta il tuffo nell’olio bollente. Si prese una pausa soltanto per noi. “Tengo sette figlie”, mi disse con insolita cupezza, con il tono di chi racconta una sciagura. Me lo disse come ci si racconta la propria malattia, vera o presunta, nell’anticamera del dottore.

La vecchia madre stava sull’uscio, su una grande seggiola, ieratica. Salutava con un gesto della mano appena accennato tutti coloro che le passavano davanti, come il papa dalla sedia gestatoria.

Donna dall’aspetto di mummia, immobile, impassibile, coltivava ancora insospettabili civetterie: una goccia di profumo, abitini di seta che fremevano alla minima brezza, il fumo del sigaro. Avevo visto foto di Haiti: c’erano vecchie così, con occhi opachi e sigaro in bocca, occhi che non avevano più bisogno della vista, donne padrone del loro ultimo passo, stritolate nella vecchiaia senza poter morire, come la vicina Sibilla di Cuma. Ridotte, rimpicciolite, rinsecchite, consunte, mostravano la loro esiguità, contrappunto alla natura rigogliosa e invasiva della vita incessante, allo schiamazzo dei bimbi, alle giovani dallo sguardo così intenso da rappresentare un pericolo.

Allora vidi con i miei occhi e udii con le mie orecchie la nonna gorgogliare una risata all’indirizzo del figlio fornaio, che aveva appena starnutito: “Neh, Ciccillo, salute e figli… maschi… eh eh eh!”.

Il poveretto si girò come un gatto cui si afferra la coda, e sillabò a denti stretti un “Gra-zie” carico d’odio e di malaugurio. Dopo la settima figlia femmina, il panettiere, unico percettore di reddito, non aveva più avuto il coraggio di tentare la sorte “cercando il maschio”, e si era arreso al destino. Ed era forse questo arrendersi che la madre non poteva perdonargli, e così si incaricava di dargli il tormento. Dicesi amore materno.

Il fratello del fornaio era artigiano, falegname e intagliatore. Veniva da una scuola d’arte napoletana e si era guadagnato sul campo il titolo di Maestro. Armadi severi e massicci, roba da studi notarili o sacrestie, letti matrimoniali con testate da cui sporgevano putti, cristi e madonne, sormontati da baldacchini retti da colonne a tortiglione e squadrati da festoni dall’ornato laborioso, noce massello. Era un uomo austero, poco loquace. Mi avvicinai con rispetto, chiedendogli se avesse garzoni, lavoranti, ai quali trasmettere la sua vera e propria arte: “Tenevo un bravo discepolo, ma se n’è ghiuto a faticare alla Fiàt”. “Discepolo” era l’equivalente del nostro “apprendista”, ma quanta differenza semantica tra i due termini!

La vecchia non si permise mai di sfruculiarlo, ne percepiva riserbo e valore, forse conosceva il futuro. Forse “vedeva”. L’intagliatore si fermò di lì a pochi giorni, si accasciò e lasciò cadere a terra la sgorbia. Il funerale attraversò tutto il paese: quattro cavalli neri, il carro con i pennacchi come  civette, i cristalli a preservare la cassa, il postiglione cilindro e mantello.

Solo la gente del sud sa fare i funerali come matrimoni e i matrimoni come funerali, con il giusto sfarzo in omaggio alla sacralità dei momenti che segnano la vita delle persone. Per equivalenza.

Giorni dopo, nel riordinare le cose del morto, i parenti trovarono, in un reparto ancora inesplorato del portafoglio appartenuto al defunto, un foglietto ripiegato con cura. Con un pastello blu, vergate a mano, c’erano le seguenti parole: “la vita spesa bene lunga è”, con ineccepibile costruzione sintattica di matrice latina.

 

Mark Adin

 

 

 

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