Libri scomodi sullo Stato tra fascisti e mafie

artcoli di Mario Sommella (*) e Saverio Ferrari (**)

 

Bombe, libri e verità scomode: perché l’Italia continua a voltarsi dall’altra parte

di Mario Sommella

 

Parto da qui: Antonio Ingroia. Il suo nome è il filo rosso che tiene insieme due libri e due notizie speculari sullo stato della nostra democrazia informativa.

 

Primo: Io so (Chiarelettere), scritto da Ingroia con Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza. Per quel libro Fininvest — l’impero privato di famiglia nel campo della televisione, dell’editoria e dei media — ha fatto causa: i telegiornali aprivano, le prime pagine urlavano. Oggi la Corte di Cassazione ha chiuso la partita: “è diritto di critica”, ricorso rigettato e spese a carico di chi aveva citato. Eppure la notizia scivola in fondo ai siti. Questo è il manuale di istruzioni del potere mediatico: il clamore quando si minaccia, il sussurro quando la realtà rimette i fatti in riga. Lo ha ricordato pubblicamente anche la FNSI, riportata da diverse testate.

Secondo: Traditi (Piemme), Ingroia con Massimo Giletti. Qui non c’è nostalgia giudiziaria: c’è l’ostinazione di rimettere al centro gli atti, a partire dalla vecchia, decisiva sentenza palermitana sul covo di Riina e dalla lunga trafila del processo “trattativa”. Per aver ricordato quelle pagine, il “capitano Ultimo” ha preannunciato una citazione per danni. Il messaggio è chiaro: quando tocchi nervi scoperti, la reazione è sempre la stessa — prima il tribunale mediatico, poi (forse) quello vero.

Io so: cosa ha detto davvero la Cassazione

La Suprema Corte ha confermato l’ovvio, che ovvio non è più: se una critica si appoggia su un nucleo fattuale vero e rilevante, è legittima. Nel caso di Io so, quel nucleo è la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa e l’ampia documentazione sul sistema di relazioni tra business e Cosa Nostra prima del ’94. Non stiamo parlando di slogan: stiamo parlando di diritto e di sentenze.

 

Dell’Utri: i fatti essenziali, senza nebbia

Nel 2014 la Cassazione ha reso definitiva la condanna a sette anni per concorso esterno. Nel cuore delle motivazioni c’è l’idea-chiave: un “accordo mafia–imprenditore” che, nel tempo, ha garantito protezione in cambio di utilità. Dell’Utri è la cerniera tra i capi mafiosi e il mondo economico legato a Silvio Berlusconi. Questo prima che Berlusconi scendesse in politica. È la fotografia giudiziaria di una contiguità stabile, non un incidente di percorso.

Dentro quel quadro c’è Vittorio Mangano, uomo d’onore di Porta Nuova “trasferito” ad Arcore negli anni Settanta. Paolo Borsellino lo indicò come “testa di ponte” dei rapporti al Nord; anni dopo Silvio Berlusconi lo chiamò in pubblico “un eroe” perché non “cedette al ricatto dei giudici”. A rafforzare il quadro c’è l’intervista di Borsellino alla televisione francese (Canal+, 21 maggio 1992), registrata due mesi prima della strage di via D’Amelio e mandata in onda postuma: lì il magistrato ricostruisce il ruolo di Mangano come cerniera tra l’imprenditoria milanese e Cosa Nostra. È tutto documentato, e non è una parentesi di costume: è il rovesciamento morale che ci ha educati a scambiare l’omertà per virtù.

 

«Traditi» : cosa c’è negli atti (e perché brucia ancora)

Nel 2006 il Tribunale di Palermo assolse Mori, De Donno e De Caprio sul “covo di Riina” ma scrisse che la cessazione della vigilanza, senza avvisare la Procura, era condotta “certamente idonea all’insorgere di una responsabilità disciplinare”, sebbene “equivoca” ai fini di una condanna penale. In Traditi quella pagina viene ricordata, insieme alla lettura, poi ripresa in primo grado nel processo “trattativa”, della mancata perquisizione come “segnale” per tenere aperto un canale con la componente “moderata” di Cosa Nostra.

Il processo “trattativa Stato–mafia” si è chiuso nel 2023 con assoluzioni per gli imputati istituzionali: il reato non regge “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ma nelle motivazioni di primo e secondo grado resta il mosaico di contatti e di sconcertanti omissioni. La Cassazione ha spento il reato, non ha cancellato la storia. E questa storia, con i suoi lampi e le sue ombre, va raccontata per intero.

 

Le bombe che ci hanno cambiati: i nomi, uno per uno

Non c’è pagina sui rapporti tra Stato, mafia e poteri che possa prescindere dai caduti.

23 maggio 1992, Capaci: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Ventitré feriti. È la strage che squarcia il Paese.

19 luglio 1992, via D’Amelio: Paolo Borsellino e gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna della Polizia caduta in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. L’unico superstite è Antonino Vullo.

3 settembre 1982: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro, Domenico Russo.

29 luglio 1983: Rocco Chinnici, i carabinieri Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, il portiere Stefano Li Sacchi.

30 aprile 1982: Pio La Torre e Rosario Di Salvo. La Torre, autore e simbolo della legge Rognoni–La Torre (art. 416-bis e confisca dei beni), ucciso per aver alzato il livello della sfida istituzionale alla mafia.

6 gennaio 1980: Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana, assassinato sotto casa mentre provava a “rimettere le carte in regola” nella pubblica amministrazione.

Poi il 1993: Firenze, via dei Georgofili (Angela e Fabrizio Nencioni, le figlie Nadia e Caterina, lo studente Dario Capolicchio), Milano, via Palestro (cinque vittime, tra cui tre vigili del fuoco e un agente della Polizia locale), Roma, San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (decine di feriti). È il terrorismo mafioso che devasta persone, città e patrimonio.

14 maggio 1993, Roma, via Fauro: l’autobomba contro Maurizio Costanzo, che si salva insieme a Maria De Filippi; ventiquattro feriti e danni ingenti. È uno dei bersagli simbolici dell’offensiva, colpire un volto tv che aveva dato spazio pubblico all’antimafia.

23 gennaio 1994, Stadio Olimpico: l’autobomba pronta per falciare i carabinieri non esplode per un malfunzionamento. La strage che non fu, e che avrebbe potuto cambiare tutto.

 

Perché la notizia “scompare” quando vince la verità

Torniamo al punto di partenza: Ingroia e «Io so» . Quando la querela parte da un grande gruppo, i titoli aprono; quando la Cassazione ristabilisce che quella critica è lecita perché fondata su atti e sentenze, la notizia si spegne. Non è una distrazione: è la fisiologia di un sistema informativo concentrato, dove chi controlla i megafoni decide anche la gerarchia delle correzioni. La FNSI lo ha ricordato con nettezza; diverse testate lo hanno riportato, ma in sordina rispetto al fragore dell’atto iniziale.

Questa asimmetria uccide la memoria. Perché nel frattempo, mentre discutiamo di “toni”, restano gli atti: la Cassazione 2014 su Dell’Utri; le motivazioni 2006 sul covo di Riina; le sentenze 2018/2021 e la Cassazione 2023 sulla trattativa. E restano i nomi dei caduti, che andrebbero ripetuti più spesso dei nomi degli imputati.

 

Cosa c’è da capire, adesso

1.     La verità giudiziaria non è un’opinione. «Io so» non “offendeva”: esercitava un diritto fondato su fatti. Lo dice la Cassazione, non un blog.

2.     La storia della trattativa esiste, anche quando il reato non regge. Le assoluzioni non cancellano i contatti e le omissioni che le corti di merito hanno descritto. La Cassazione ha spento il profilo penale; la responsabilità politica e morale resta a verbale.

3.     Il rovesciamento etico è un fatto, non una sensazione. Dire “Mangano eroe” in pubblico ha normalizzato l’omertà. Quel rovesciamento continua a produrre smemoratezza collettiva.

 

Che cosa dobbiamo pretendere, da cittadini

Parità di spazio: se apri i telegiornali quando parte una querela, apri quando cade in Cassazione. Altrimenti non è informazione: è propaganda.

Rispetto per i libri scomodi: Io so e Traditi non sono invettive, sono opere di interesse pubblico che rimettono gli atti al centro. Minacciarle di continuo con azioni civili è manganello simbolico.

Memoria con nome e cognome: i magistrati e le scorte; le vittime civili e i soccorritori; e, accanto a loro, le figure istituzionali come Pio La Torre e Piersanti Mattarella, caduti perché hanno osato sfidare la mafia sul terreno delle leggi e del governo della cosa pubblica. Senza questa lingua franca, ogni discussione sullo Stato di diritto è chiacchiera.

Non abbiamo bisogno di eroi di cartone: abbiamo bisogno di nomi, date, responsabilità. Ingroia — con Lo Bianco e Rizza in Io so, e con Giletti in Traditi — ha riportato sul tavolo ciò che gli atti dicono. La Cassazione, adesso, ha rimesso a posto anche il diritto di dirlo. Sta a noi fare il resto: leggere, ricordare, pretendere che le verità scomode abbiano lo stesso volume delle menzogne comode. Solo così le bombe di ieri smetteranno di esplodere, in silenzio, anche oggi.

 

FONTI ESSENZIALI

FNSI, “È diritto di critica: la Cassazione dà ragione ai giornalisti Lo Bianco e Rizza (caso Io so)”.

Il Fatto Quotidiano, “Fininvest sconfitta, Cassazione dà ragione ai cronisti” (sintesi).

Corte di Cassazione, condanna Dell’Utri (notizia e testo, n. 28225/2014).

Tribunale di Palermo, sentenza “covo di Riina”, 20 febbraio 2006 (estratti).

Trattativa Stato–mafia: motivazioni 2018 e conferma Cassazione 2023 (assoluzioni imputati istituzionali).

Borsellino, intervista Canal+ del 21 maggio 1992 (RaiNews e Archivio Antimafia).

Stragi 1993: via dei Georgofili e via Palestro (portali istituzionali MiC e Regione Toscana).

Fallito attentato a Maurizio Costanzo, via Fauro (DIA; RaiNews; Sky TG24; dossier sentenze Firenze).

Fallito attentato Stadio Olimpico (schede e rassegne).

 

(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com

 

 

Il “nemico interno”: l’arruolamento dei neofascisti e il ruolo delle gerarchie militari

di Saverio Ferrari (**)

 

La strategia militare Un progetto con molti attori e protagonisti, di sicuro non il frutto di un unico “burattinaio”, ma certamente con più di una cabina di regia ancora da valutare appieno nella sua valenza storica

Per essere compresa la strategia della tensione, definizione coniata dopo la strage di Piazza Fontana da due giornalisti inglesi dell’«Observer» attenti alle vicende italiane, deve necessariamente essere collocata nel contesto internazionale della guerra fredda.

Un progetto con molti attori e protagonisti, di sicuro non il frutto di un unico “burattinaio”, ma certamente con più di una cabina di regia ancora da valutare appieno nella sua valenza storica. Nella ricostruzione, infatti, delle traiettorie nel dopoguerra dell’anticomunismo che pervadeva le nostre classi dirigenti, i suoi ceti politici e industriali, nonché alcuni importanti vertici istituzionali, sono state spesso sottovalutate le gerarchie militari. L’attenzione è stata principalmente rivolta agli apparati di polizia e di intelligence, non ai comandi militari, posti invece a un livello superiore, autentiche strutture decisionali all’interno dell’Alleanza Atlantica, nonché snodo delle direttive e degli indirizzi politico-militari approntati in ambito Nato.

Il salto di qualità avviene con la nomina nel 1962, ministro della difesa Giulio Andreotti, del generale Giuseppe Aloja a capo di Stato maggiore dell’Esercito. Durante la sua gestione, come ha ben documentato in un lavoro di recente pubblicazione lo storico Jacopo Lorenzini I colonelli della Repubblica. Esercito, eversione e democrazia in Italia 1945-1974 (Editore Laterza), si introdussero cambiamenti decisivi con l’assunzione delle teorie della cosiddetta guerra rivoluzionaria, maturate inizialmente a partire dal 1955 nello Stato maggiore dell’esercito francese dopo la storica sconfitta in Indocina a seguito della battaglia di Dien-Bien- Phu, rielaborate a cavallo degli anni sessanta dagli Stati Uniti (presidenza John Fitzgerald Kennedy), per cui nell’ambito della parità nucleare con l’Urss, lo scontro si spostava dentro i confini dell’Occidente, dove i comunisti operavano per la sovversione.

L’esigenza era di un «nuovo tipo di esercito» per «un nuovo tipo di guerra» ormai «totale», senza più confini, con un «nemico interno» individuato nei sindacati e nelle forze di sinistra. Da qui una nuova dottrina per i Paesi Nato, la ristrutturazione in Italia delle forze armate da modellare per la «difesa interna», capaci di condurre la guerriglia e la controguerriglia, di operare sabotaggi, infiltrazioni e attacchi terroristici. Da qui anche i nuovi manuali, gli addestramenti nel Meridione (come nel giugno 1965 con l’esercitazione “Vedetta Apula” in un territorio dal Gargano al Cilento alla costa lucana per reprimere «focolai di guerriglia»), i nuovi corsi nelle Scuole di guerra, lo studio della sociologia applicata al condizionamento dell’opinione pubblica, ovvero la «guerra psicologica», l’introduzione obbligatoria nella fanteria dei Corsi di Ardimento per la selezione ideologica dei militari di leva, tenuti da ufficiali che avevano preso parte alle occupazioni balcaniche (1941-1943), alle imprese coloniali, combattuto con i tedeschi.

La Rivista Militare, organo ufficiale dello Stato maggiore dell’Esercito, ospitò in quegli anni importanti interventi a favore dell’esigenza di imprimere una torsione autoritaria al Paese, dal generale di brigata Francesco Mereu nel 1961 («i movimenti politici protesi alla sostituzione del governo» vanno ridotti «all’inazione prima che abbiano potuto turbare pericolosamente l’equilibrio») al maggiore Enrico Rebecchi nel 1962 («la libertà è un bene di altissimo valore» ma «il regime che esso comporta permette ai partiti di opposizione di prepararsi e organizzarsi come meglio credono»). Si arrivò a sperimentare nelle esercitazioni (vedi “Aquila Bianca” dell’autunno 1965 con il coinvolgimento della struttura di Gladio e di elementi delle Special Forces Us) «l’ipotesi di una parte del territorio occupato» dai sovietici, ma anche a livello teorico di trarre insegnamenti nel campo della guerra di guerriglia dal «pensiero militare di Mao Tse-tung» (Rivista Militare marzo 1965).

I convegni sono questi gli anni dei convegni in ambito Nato, a Roma nel 1961 (La minaccia comunista sul mondo) e nel maggio 1965 per iniziativa dello Stato maggiore dell’Esercito all’Hotel Parco dei Principi (La Guerra rivoluzionaria), con il coinvolgimento di esponenti missini e monarchici, ma soprattutto sono gli anni del reclutamento dei capi fascisti di Ordine Nuovo da parte dei vertici militari (a partire da Pino Rauti) e di quelli di Avanguardia Nazionale per l’azione provocatoria diretta. Il servizio segreto militare (Sifar) fornirà loro supporto e protezione, poi arriverà il Sid.

La strategia della tensione parte da lontano, ben prima della strage di Piazza Fontana, fondamentale in questo ambito il ruolo degli alti comandi militari.

 

(**) Questo articolo è stato ripreso anche dal quotidiano “il manifesto”. In “bottega” trovate spesso Saverio Ferrari con approfondimenti sulle stragi neofasciste e di Stato; nel tempo abbiamo recensito i suoi libri più importanti.

 

 

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