Recensione: “Il ladro di orchidee”

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Una recensione di Riccardo Dal Ferro

Tu sei ciò che ami, non ciò che ama te.
Questa è una frase da mettere in bocca a un personaggio che esiste dentro un film in cui non esiste il film e non esistono personaggi. È la frase che descrive il processo creativo che corrisponde all’esistenza stessa della creazione, a un work in progress che, per il semplice fatto di essere “in progress”, è un “work”.
No, ragazzi, Rick non è impazzito, semplicemente ha visto “Il ladro di orchidee” e vuole parlarvene.
Come al solito, non starò a dilungarmi sulla trama, anche se qui risulta più facile perché una trama vera e propria non c’è. Esiste solo l’immaginazione dell’autore dentro l’immaginazione degli autori dentro l’immaginazione di una scrittrice. Si tratta di un film-matrioska in cui Donald e Charlie (Nicholas Cage e Nicholas Cage), alle prese con due sceneggiature completamente diverse, finiscono per confondere i piani narrativi, i piani esistenziali e i piani emotivi, in un climax di nonsense creativo che culmina nella frase: “Tu sei ciò che ami, non ciò che ama te”.
Sembra quasi che l’autore (del film, stavolta) Spike Jonze stia parlando a se stesso: “Tu sei ciò che crei, non ciò che crea te”, come se l’opera creativa non fosse qualche cosa che deve rispondere al gusto di un pubblico, esattamente come nel dibattito narrativo tra Charlie e Donald, il primo tutto rivolto all’introspezione della sceneggiatura che vuole autenticità, il secondo tutto rivolto al gusto del pubblico bestiale che vuole emozione, carne, sangue; come se il film avesse un’esistenza indipendente dallo sguardo dello spettatore, come se fosse un mondo a sé, completamente separato dal piano di realtà nel quale noi lo stiamo guardando.
“Il ladro di orchidee” tradisce il concetto stesso di film, inteso come opera conclusa, pubblicata e godibile, perché cessa di esistere nel momento in cui cessa di essere prodotto. Si tratta di un flusso narrativo ininterrotto (e forse ininterrompibile) che ha a che fare esclusivamente con il suo processo creativo, non con la sua visione. Questo risulta nel fatto che lo spettatore si sente “di troppo”, come se il regista fosse stato colto in un momento di intimità masturbatoria, proprio come quando Susan Orlean viene sorpresa a drogarsi con il suo improbabile amante John Laroche. Lo spettatore diventa guardone, spia di un gioco che non è il suo, un gioco che è tale solo perché i due sceneggiatori Charlie Kaufman e Donald Kaufman sono autori e personaggi, carnefici e vittime, storia e non storia del loro finto film.
Non è un caso che il regista, Spike Jonze, sia lo stesso che ha giocato con il nostro cervello dentro il cervello di John Malkovich (“Essere John Malkovich”, del quale c’è un delizioso easter-egg durante “Il ladro di orchidee”). Qui Jonze gioca con i nostri occhi, il nostro sguardo, sorpreso a scrutare un universo paradossale e privato nel quale l’orchidea fantasma gioca il ruolo di desiderio inappagato (dello spettatore).
Insomma, non si può recensire un film che non è un film, giusto? Non si può criticare un’opera che è tale solo mentre viene prodotta, vero? Quindi, queste mie parole che senso hanno?
Tu sei ciò che ami, non ciò che ama te.
Questo è tutto il senso che volevo trasmettere. L’espressione esiste a prescindere da chi la riceve, libera l’oratore senza che esista necessariamente l’ascoltatore. L’espressione definisce chi parla, al di là del fatto che il messaggio venga recepito, rompendo quello straordinario e potente luogo comune secondo cui “la comunicazione è responsabilità di chi parla”, come se comunicare fosse esclusivo appannaggio della trasmissione di un messaggio. E invece no, parlare, esprimersi e creare sono azioni che hanno a che fare con ciò che viene espresso, creato, detto, al di là di ciò che viene visto, ascoltato, recepito.
Ciò di cui parli ti definisce, ciò che crei ti libera, ciò che ami ti rinforza.
E pazienza se avremo tanti spettatori guardoni a ficcare il naso nella nostra vicenda, noi saremo là ad amare incondizionatamente ciò che stiamo creando e che al tempo stesso ci sta creando.
Come se fossimo noi stessi parte di un processo creativo che ha a che fare esclusivamente con la propria autoreferenziale, bellissima e masturbatoria creatività.
Insomma, guardate (ma non guardate) “Il ladro di orchidee”.

Riccardo DAL FERRO

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