Stiamo diventando adulti felici di essere controllati?
di Donata Columbro
È vitale ricordare che il capitalismo della sorveglianza è una logica in azione, non una tecnologia, perché i capitalisti vogliono farci credere che le loro pratiche siano insite nelle tecnologie che utilizzano.
Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza (Luiss University Press 2018)
La sorveglianza insegnata ai bambini ci trasforma in adulti felici di essere controllati. Purtroppo.
Un anno fa, circa, mi sono ritrovata dipendente (nel senso di addicted) da un sito internet che si chiama “Nuvola”.
Hai visto cosa c’è scritto su Nuvola? Che si dice su Nuvola oggi? Su Nuvola non c’è nulla per il fine settimana.
Facevo refresh della pagina quasi ogni ora.
Una certa categoria di lettori e lettrici forse sa a cosa mi riferisco: Nuvola è il nome del registro elettronico usato nella scuola del mio ragazzino più grande, che un anno fa ha cominciato la primaria qui a Roma.
Ho imparato che il registro elettronico è il luogo dove le/gli insegnanti possono raccontare cosa fanno durante le lezioni, aggiungere comunicazioni per i genitori, con la possibilità di caricare documenti da firmare, gite scolastiche da approvare, o aggiungere le pagine del libro fatte in classe e assegnare i compiti. È molto utile, evita discussioni infinite nelle chat, ma al tempo stesso genera una mania del controllo da parte di noi genitori che mi fa credere che la generazione ansiosa di cui avrebbe dovuto scrivere Jonathan Haidt non fosse quella degli adolescenti, ma la nostra.
Qui però parliamo di controllo. Dell’aver normalizzato il desiderio (e il diritto) di monitorare tutto quello che succede ai nostri figli mentre noi non siamo con loro.
Altro caso: nella scuola d’infanzia del piccolo arriva una nuova direttiva che vieta le fotografie ai volti dei bambini. Di ogni attività fatta in classe abbiamo solo manine che pasticciano con colori, terra, foglie, zucche, ecc. E quindi? Quindi la nostra generazione ansiosa e sorvegliante vuole le facce. Non vuole solo sapere cosa fanno i bambini, magari facendoselo raccontare da loro o dalle maestre, ne vuole testimonianza digitale in ogni istante.
Fast forward. Tra 5-6-7 anni, si porrà il problema di fornire un dispositivo digitale personale ai nostri figli. L’età dello smartphone si abbassa sempre di più, e che fai, non lo installi un parental control per monitorare dove si collega, come lo fa, quando, che parole digita, che siti può visitare?
Anche qui, è sorveglianza normalizzata.
Ma perché sembra l’unica scelta che possiamo compiere come genitori? Davvero non c’è altro modo di fargli vivere il digitale? Non riesco a immaginare di poter essere stata sorvegliata dai miei genitori mentre sperimentavo con i computer di casa tra infanzia e adolescenza.
Da tempo seguo la divulgazione dell’attrice Antonella Questa sul tema della pedagogia nera, e proprio nei giorni in cui l’Europa è chiamata a votare per approvare una disposizione che permette di monitorare le chat dei propri cittadini, anche quando non sono indagati di nessun reato (Chat Control 2.0, ora sospesa grazie al no della Germania), penso che sia la persona giusta con cui discutere di questi temi.
Antonella Questa spiega perfettamente come
il legame tra la pedagogia nera e la sorveglianza è così profondo da poter affermare che la pedagogia nera è sorveglianza. Questa connessione nasce dalla visione di fondo che assegna all’adulto un ruolo di controllo assoluto sul bambino. Fin dalla nascita, infatti, l’adulto è investito del compito di vigilare costantemente su di lui, senza interruzioni né spazi di autonomia.
In questa prospettiva, il bambino viene percepito come un potenziale nemico, un soggetto da tenere costantemente sotto controllo. Come osserva Rutschky [Katharina Rutschky, sociologa, autrice di Pedagogia nera che Antonella legge e commenta di frequente sul suo profilo Instagram e YouTube] nel capitolo dedicato all’educazione come “istituzione totale”, l’educatore non può che guardare al bambino come a una minaccia latente, le cui attività devono essere sorvegliate e, nel migliore dei casi, completamente stroncate.
E se in Europa una soluzione tecnologica promette di salvarci – una soluzione costosa e sostenuta dalle aziende che la producono, strano eh – è perché sorvegliare è più facile che cambiare la cultura, educare.
Accade lo stesso nelle relazioni intime.
Qualche settimana fa a DIG Festival incontro Laura Carrer, giornalista, autrice di un’inchiesta sugli stalkerware installati da privati nei telefoni delle proprie compagne. In particolare Carrer si è occupata di una fuga di dati dell’app Spyhide, che le ha permesso di intervistare tutte le persone coinvolte in Italia, uomini spianti e donne spiate.
Spyhide è stata installata su circa 60mila dispositivi in tutto il mondo, dal 2016. . La maggior parte di coloro che hanno usato o testato Spyhide l’ha fatto nel contesto di un rapporto di coppia, cosa che ha certamente facilitato l’accesso al telefono della vittima. Oltre a Spyhide, da una ricerca online di IrpiMedia, esistono almeno altre 165 app simili, ma non è escluso possano essere di più. In gergo tecnico si chiamano stalkerware, termine che nasce dalla crasi di stalking e malware, un software che consente a una persona di spiare segretamente la vita privata di un’altra persona via smartphone. Senza il suo consenso.
si legge nell’inchiesta pubblicata su IrpiMedia.
E ancora:
Uno dei centri antiviolenza (contattati da Irpi Media) identifica le donne tra i 30 e i 40 anni come le più frequenti vittime di stalkerware o applicazioni simili. Lo dimostrano alcuni colloqui conoscitivi in cui le donne raccontano di come gli uomini che le maltrattavano fossero a conoscenza di informazioni che loro non gli avevano condiviso in alcun modo.
Al tempo stesso, in un’indagine di Fondazione Libellula del 2024 si legge che il 39% degli adolescenti ritiene che controllare di nascosto il cellulare e i profili del/della partner sia poco o per nulla una forma di violenza e che solo il 29% non è d’accordo sul fatto che il controllo non sia sinonimo d’amore.
Non credo ci sia da stupirsi, perché i ragazzi e le ragazze di oggi sono figli nostri. Generazione ansiosa e sorvegliante.