Stroncature – 1

«La verità sul caso Harry Quebert»: consiglio di non lettura

di Francesco Cecchini

Un romanzo fiume di 776 pagine,

inclusi i ringraziamenti. «La verità sul caso Harry Quebert» (Bompiani; in originale «La verité sur l’affaire Harry Quebert») di Joël Dicker è una specie di «Via col vento» ma con questo capolavoro ha in comune solo la mole. L’ho letto, ma non lo rileggerei nemmeno pagato. Ne sconsiglio la lettura, a meno di essere presi alla sprovvista e iniziarlo per caso, come è capitato a me, durante una convalescenza senza altri libri. A mia scusante preciso che ho saltato a piene mani decine e decine di pagine. La mia copia l’ho regalata a una Coop che mette a disposizione, gratis, libri di tutti i generi.

Il libro vincitore di un paio di premi (Le prix du roman de l’ Académie e il Prix Groncourt des lycéens) é stato tradotto in diverse lingue, 25 dicono, ed è un successo di vendita. Hollywood ne farà un film, a meno che qualche regista non lo stia già girando.

L’azione poliziesca – in Francia il romanzo è definito un polar – si svolge negli Usa, fra New York e il New England. Racconta la crisi creativa di un giovane e bello scrittore di successo, Marcus Goldman che non riesce più a buttar giù una riga e a far fronte a un impegno con il suo editore, dal quale ha ricevuto un cospicuo anticipo. Un suo insegnante e mentore è accusato dell’assassinio di una ragazzina di 15 anni con la quale aveva avuto una relazione. L’indagine da lui condotta per scagionare il maestro offre al giovane lo spunto per scrivere un romanzo: «La verità sul caso Harry Quebert» appunto, lungo e brutto.

Un esempio, uno solo e corto per non affliggere, di scrittura ridicola: «L’ispirazione se ne era andata, senza avvisare». La mia opinione è in forte contrasto con quanto hanno scritto su di lui Marc Fumaroli su «Le Figaro» o Bernard Pivot su «Le journal du Dimanche». Addirittura su «Lire» si legge: «È un vero giubilo scoprire questo prodigioso romanzo. Joël Dicker ha scritto un romanzo mozzafiato, sorprendente, intelligente, pieno di bugie e di illusioni». Figuriamoci!

L’ autore è un giovane svizzero di Ginevra, nato nel 1985. «La verità sul caso Harry Quebert» è il suo secondo romanzo, il primo («Les derniers jours de nos peres») ha ricevuto il Prix des écrivains genevois nel 2010.

Di lui posso dire con certezza, pur non essendo un critico letterario, che non è l’erede di Friedrich Glauser o Friedrich Düremmatt.

«La verità sul caso Harry Quebert» è anche un racconto su una certa industria editoriale, quella statunitense prima di Amazon, di come si scrive un libro e l’ autore sparge qua e là consigli sulla scrittura, i più banali, altri incisivi ma non troppo. Ho cercato di riassumerne alcuni. Tra parentesi vi sono miei commenti. Va detto che il protagonista è un boxeur dilettante e molti sono gli accostamenti fra scrittura e pugilato, un paio anche fra scrittura e corsa.

Eccoli.

Il primo capitolo è fondamentale. Se ai lettori non piace non leggono il resto. (può essere detto anche del secondo, del terzo, del quarto…)

Il secondo capitolo è molto importante. Deve essere incisivo, d’impatto. Come nella boxe. Se sei destro, quando attacchi, porti sempre avanti il sinistro, con quello stordisci l’ avversario, poi arriva la combinazione per mandarlo al tappeto. Il secondo capitolo deve essere un diretto alla mascella dei lettori. (se non conosci la boxe non scrivere)

Insegnare la scrittura non significa insegnare a scrivere,ma a diventare uno scrittore. Nessuno sa di essere uno scrittore, glielo dicono gli altri. (pensiero profondo).

Scrivere un libro è come amare qualcuno. Può diventare molto doloroso. (kitsch)

Come si diventa scrittore? Non dandosi mai per vinti. (chi lo avrebbe pensato? Vale anche nella boxe)

A chi si ispira uno scrittore per i suoi personaggi? A chiunque. Il privilegio di uno scrittore è quello di regolare i conti con i suoi simili tramite il suo lavoro. (non ho commenti)

Il testo si prepara come un incontro di boxe. (un incontro di boxe si prepara come scrivere un libro?)

Se lo scrittore non ha il coraggio di correre sotto la pioggia, non ha nemmeno il coraggio di scrivere un libro (anche Hemingway boxava, non so se correva, sotto la pioggia).

Quanto ci vuole per scrivere un libro? Dipende. Dipende da tutto. (ovvio)

Il pericolo dei libri è che a volte si perde il controllo. Perdere il controllo del proprio libro è una catastrofe. (è vero)

L’ultimo capitolo di un libro deve essere il più bello. (questione di opinioni, per alcuni è il settimo)

Talvolta lo scrittore può sentirsi scoraggiato. Scrivere è come boxare ma è anche come correre. Se si ha la forza morale di affrontare i lunghi percorsi, sotto la pioggia e nel freddo; se si ha la forza di andare fino in fondo, di mettere tutte le energie, tutto il cuore, e di arrivare alla meta, allora sarà capace di scrivere. (boxare è importante per lo scrittore, ma anche correre. E praticare il tennis?)

Un bel libro non si valuta solo per le sue ultime parole, ma bensì sull’effetto cumulativo di tutte le parole che le hanno precedute. Subito aver finito il libro, il lettore deve sentirsi pervaso da un’emozione potente. Sente che i personaggi gli mancheranno. Un bel libro è un libro che dispiace aver finito. (A me «La verità sul caso Harry Quebert» non mi è dispiaciuto averlo finito, anzi)

Conclusione dell’autore: se volete diventare uno scrittore, prima andate a scuola di boxe, meglio che vi diate anche alla maratona. Può aiutare. Però «La verità sul caso Harry Quebert» contraddice quanto afferma Joë Dicker, puoi tirare di boxe e anche correre per chilometri e chilometri ma scrivere male per centinaia di pagine. Insomma risparmiate 19.50 euri, non c’è di peggio in giro.

 

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